CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 16660 depositata il 12 giugno 2023
nel caso di contestazione dell’atto comunicato a mezzo raccomandata, l’onere di provare che il plico non conteneva l’atto stesso, ovvero che ne conteneva uno diverso da quello spedito, grava sul destinatario in forza della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale – la possibilità di esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA senza alcuna limitazione temporale contrasterebbe, tuttavia, col principio della certezza del diritto, il quale esige che la situazione fiscale del soggetto passivo, considerati i diritti e gli obblighi dello stesso nei confronti dell’amministrazione fiscale, non possa essere indefinitamente rimessa in discussione
FATTI DI CAUSA
1. La società P.E. Ltd, avente sede in Gran Bretagna, aveva proposto ricorso avverso il provvedimento di diniego sull’istanza di rimborso IVA formulata dalla società per l’anno 2005, con raccomandata spedita il 27 giugno 2005, in ragione di alcuni acquisti, imponibili IVA effettuati da soggetti residenti in Italia, corrispondendo IVA per euro 1.115.731,24, deducendo che l’istanza di rimborso era stata presentata al COP utilizzando l’apposito modello e che era stata spedita unitamente a quella relativa al rimborso per il 2004.
2. La Commissione tributaria provinciale, con sentenza n. 511 depositata il 4 dicembre 2014, aveva rigettato il ricorso, rilevando che da quanto depositato dalla società non vi erano elementi per ritenere provata la spedizione dell’istanza di rimborso relativa al primo trimestre 2005; che i documenti interni alla società non avevano rilevanza probatoria; che la lettera di accompagnamento, allegata alla richiesta del 27 giugno 2005, non conteneva alcuna indicazione né faceva cenno al primo trimestre 2005, di consistente valore, che sarebbe stata spedita unitamente a quella del quarto trimestre 2004, rimborsata dall’Ufficio.
3. La Commissione tributaria regionale, adita dalla società contribuente, ha rigettato l’appello, sulla base, per quel che rileva in questa sede, delle seguenti considerazioni:
-) la sentenza gravata aveva articolato la motivazione sul rilievo che non era stata fornita la prova da parte della ricorrente dell’avvenuto deposito della richiesta di rimborso per l’anno 2005 e che su tale annualità si era verificata la decadenza per la mancanza della relativa richiesta nella raccomandata pervenuta;
-) sul punto l’appellante aveva reiterato la valutazione di aspetti meramente indiziari o probabilistici, mentre non aveva potuto assolvere al relativo onere probatorio per dimostrare la stessa esistenza della richiesta di cui si discuteva;
-) nel caso in esame non poteva ritenersi sufficiente il richiamo a probabilità, dimenticanze oppure di omissioni scusabili, ma era necessario far ricorso ai principi cardine dell’ordinamento in materia di prova;
-) l’esistenza della istanza per il 2005 restava carente di prova e il ricorso non poteva essere accolto;
-) il richiamo alle norme comunitarie eventualmente applicabili in materia era inammissibile sotto il profilo processuale ed inconferente nel merito; infatti l’eccezione era nuova perché formulata per la prima volta in appello e come tale inammissibile, mentre era inconferente poiché non era in discussione in questo caso la neutralità dell’Iva comunitaria risultando previsto, con apposita procedura, l’iter per ottenere rimborso supportato dalla relativa istanza.
4. La società P.E. LTD ha depositato ricorso per cassazione con atto affidato a quattro motivi.
5. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
6. La Procura Generale della Corte di Cassazione ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo deduce la violazione dell’art. 2697 civ. per avere il giudice onerato la ricorrente (mittente) della prova circa il contenuto del plico da essa trasmesso, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.. La Commissione tributaria regionale aveva violato il regime dell’onere probatorio vigente in materia posta a carico del destinatario, anche nel rispetto del principio di vicinanza della prova.
1.1 Il motivo è infondato.
1.2 Ed invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, nel caso di contestazione dell’atto comunicato a mezzo raccomandata, l’onere di provare che il plico non conteneva l’atto stesso, ovvero che ne conteneva uno diverso da quello spedito, grava sul destinatario in forza della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 cod. civ., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale. Tale conclusione discende altresì dal cosiddetto «principio di vicinanza della prova» poiché, una volta effettuata la consegna del plico per la spedizione, esso fuoriesce dalla sfera di conoscibilità del mittente e perviene in quella del destinatario, il quale può dunque dimostrare che al momento del ricevimento il plico era privo di contenuto (o ne aveva uno diverso) (Cass., 22 giugno 2018, n. 16528, Cass., 28 dicembre 2018, n. 33563).
In altri termini, «la prova dell’arrivo della raccomandata fa presumere l’invio e la conoscenza dell’atto, mentre l’onere di provare eventualmente che il plico non conteneva l’atto spetta al destinatario (in tal senso, oltre ai precedenti già citati, Cass., 22 maggio 2015, n. 10630; Cass., 14 novembre 2014, n. 24322; Cass., 4 luglio 2014, n. 15315; Cass., 22 ottobre 2013, n. 23920; Cass., 8 luglio 2010, n. 16155; Cass., 8 luglio 2007, n. 17417).
1.3 Tale presunzione, tuttavia, come pure affermato da questa Corte, non opera, ove il mittente afferma di avere inserito più di un atto nello stesso plico ed il destinatario contesti tale circostanza. In proposito, la Corte ha precisato che ove l’involucro della raccomandata contenga plurime comunicazioni, e il destinatario ne riconosca solo una, è necessario, perché operi la presunzione di conoscenza posta dall’art. 1335 cod. civ., che l’autore della comunicazione, il quale abbia scelto detta modalità di spedizione per inviare due comunicazioni, fornisca la prova che l’involucro le conteneva, atteso che, secondo l’id quod plerumque accidit, ad ogni atto da comunicare corrisponde una singola spedizione (Cass., 26 novembre 2019, n. 30787;Cass., 30 settembre 2011, 20027; Cass., 19 agosto 2003, n. 12135).
1.4 Nel caso di specie, i giudici di appello, affermando che la ricorrente non aveva assolto l’onere probatorio per dimostrare l’esistenza della richiesta di rimborso del credito Iva, si sono conformati ai superiori principi di diritto.
2. Il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli 2727 e 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., in quanto la giurisprudenza, sull’onere della prova circa il «contenuto del plico», ove gravante sul mittente, aveva affermato che il giudice del merito doveva verificare se il mittente avesse soddisfatto l’onere probatorio su di lui incombente anche in via presuntiva. In questo contesto andava ricordato che nei processi di merito, senza ricevere contestazioni di sorta dalla controparte, la Società aveva tra l’altro affermato e provato i seguenti «fatti noti»: 1) entrambe le istanze (IV trimestre 2004 e I trimestre 2005) erano state firmate dalla stessa mano nella medesima data (10 giugno 2005), 17 giorni prima della loro trasmissione a mezzo posta raccomandata; 2) entrambe le istanze furono inviate, congiuntamente, all’attenzione dei consulenti per la spedizione, in data 14 giugno 2005; 3) in assenza di risposta per un periodo di tempo non inusuale per l’amministrazione finanziaria, i consulenti della società avevano chiesto notizie del rimborso ritenendo pacifica la presentazione della domanda. A questi fatti si era aggiunta la considerazione, fondata sull’id quod plerumque accidit, che era improbabile che chi si era occupato della trasmissione avesse curato l’invio di un’istanza (relativamente modesta) di 20.000 euro (quella relativa al IV trimestre 2004) dimenticandosi quella ben più consistente, di oltre 1 milione di euro. La Commissione tributaria regionale aveva rifiutato a priori di applicare la prova per presunzioni (evidentemente l’unica possibile nella fattispecie) ed aveva per questo violato le norme in rubrica.
2.1 Il motivo è inammissibile.
2.2 Deve premettersi che è pacifico, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che la trasmissione e la consegna al destinatario di un atto unilaterale recettizio possono essere dimostrate anche mediante elementi presuntivi, non operando il divieto sancito dall’art. 2729 civ. (Cass., 19 dicembre 1997 n. 12866; Cass., 22 dicembre 1995, n. 13067; Cass., 7 maggio 1992, n. 5393; Cass., 22 febbraio 2001, n. 2612; Cass., 26 marzo 2002, n. 4310; Cass., 22 maggio 2006, n. 11955).
2.3 Deve, tuttavia, affermarsi che l’apprezzamento del giudice di merito circa il ricorso alle presunzioni, la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto sono riservati al giudice di merito, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360, comma primo, 5, cod. proc. civ. (cfr. Cass., 17 gennaio 2019, n. 1234; Cass., 23 gennaio 2006, n. 1216).
In particolare, spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass., 21 marzo 2022, n. 9054; Cass., 30 giugno 2021, n. 18611).
La tesi che ritiene censurabile per cassazione, sotto il profilo della falsa applicazione dell’art. 2797 c.c., in base all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la valutazione dei singoli elementi indiziari data dal giudice di merito, in concreto, in termini di gravità, precisione e concordanza, quali requisiti assunti come propri del modello normativo delle presunzioni (in tal senso Cass., 16 novembre 2018, n. 29635; Cass., 4 agosto 2017, n. 19485), postula tuttavia che sia la legge a dare contenuto normativo ai suddetti parametri, ma la legge processuale non fornisce in realtà indicazioni al riguardo. E’ per questa ragione che «le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice [di merito]» (art. 2729, comma primo, cod. civ.), al quale spetta di valutare se e quando determinati fatti storici integrino, in concreto, indizi gravi, precisi e concordanti, cioè quando possa dirsi raggiunta la prova del fatto principale in via deduttiva da fatti secondari di cui si sia avuta conoscenza tramite fonti materiali di prova (Cass., 19 aprile 2021, n. 10253, in motivazione).
2.4Nel caso in esame, i giudici di secondo grado, a pag. 2 della sentenza impugnata, hanno affermato, con un accertamento di merito non censurabile in questa sede, che l’appellante aveva reiterato la valutazione di aspetti meramente indiziari o probabilistici e non aveva assolto al relativo onere probatorio per dimostrare la stessa esistenza della richiesta di rimborso del credito Iva; la Commissione tributaria regionale ha, inoltre, affermato che non poteva ritenersi sufficiente il richiamo a probabilità, dimenticanze, oppure di omissioni scusabili e che era necessario fare ricorso ai principi cardine dell’ordinamento in materia di prova.
3. Il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 57 del decreto legislativo n. 546/1992 e dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.. La Commissione tributaria regionale aveva errato a dichiarare inammissibile perché nuova la questione riguardante il richiamo alle norme comunitarie applicabili in materia, perché la questione era stata sollevata dinanzi alla Commissione tributaria provinciale; inoltre, la questione in esame non era una domanda o eccezione sottoposta alla preclusione di cui all’art. 57 del decreto legislativo n. 546/1992, in quanto si trattava di quaestio iuris, ammissibile, rappresentando una mera difesa.
3.1Il motivo è inammissibile, in quando la società ricorrente deduce un vizio di omesso esame della questione relativa alla necessità di valutare la disciplina sulla decadenza anche in prospettiva unionale, affermando, peraltro, che la stessa rappresentava una mera difesa.
3.2 Deve richiamarsi, in proposito, l’orientamento di questa Corte secondo cui il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e il pronunciato ex art. 112 cod. proc. civ., si ha quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (Cass., 26 gennaio 2021, n. 1616; Cass., 27 novembre 2017, n. 28308).
Il vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 cod. proc. civ., riguarda, dunque, soltanto l’ambito oggettivo della pronunzia e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (Cass., 26 gennaio 2021, n. 1616).
4. Il quarto motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli 167, 168, 179, 180 e 182 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006 e ss. modificazioni (c.d. VI direttiva Iva), degli artt. 2, 3, 4 e 9 della direttiva 1979/1072/CEE (c.d. VIII direttiva Iva), nonché dell’art. 38 ter del d.P.R. n. 633/1972 e del D.M. 20 maggio 1982, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.. Se pure era vero che i termini per la richiesta dei rimborsi stabiliti dall’art. 7, par. 1, ult. per. dell’Ottava Direttiva, erano da considerarsi «decadenziali», ciò non voleva dire che non fosse necessario verificare se, nell’impianto del procedimento di rimborso così come delineato dalle norme nazionali (art. 38 ter e relativi decreti attuativi), al contribuente non fosse stato reso impossibile o eccessivamente difficile far valere il proprio diritto al rimborso e con esso il principio di neutralità. L’esito negativo del processo tributario di merito era stato determinato dall’avere la Commissione tributaria rilevato una decadenza per non aver ritenuto compiutamente provato il contenuto di una «busta», onerando la «mittente» di una prova pressoché impossibile e ciò a causa delle modalità di trasmissione pacificamente ammesse nel regime precedente l’adozione della direttiva n. 9/2008 (fondata sulla modalità «telematica» di presentazione delle domande e su rigidi obblighi di riscontro a carico dell’Amministrazione), giacché quand’anche della prova fosse stato onerato il destinatario, essa sarebbe stata anch’essa eccessivamente difficile. In questo contesto, era evidente che il regime della prova non poteva in concreto ledere l’attuazione dei diritti del contribuente ed il principio di effettività. Si chiedeva, quindi, che, in applicazione del primo, secondo e terzo paragrafo dell’art. 267 TFUE, fosse rimessa questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiedendo al Supremo Collegio dell’Unione di chiarire se «in considerazione delle circostanze sopra descritte, i principi di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto, di effettività e di proporzionalità, ostino alle modalità concrete di attuazione della Direttiva 79/1072/ CEE così come rappresentate ed alla perdita di diritto al rimborso dell’imposta pacificamente subita in Italia per intervenuta decadenza, stante la eccessiva difficoltà di dimostrare il ricevimento della richiesta di rimborso da parte dell’Amministrazione nel caso in cui sorga un contrasto sul contenuto del plico ad essa trasmesso».
4.1 Il motivo è infondato.
4.2 Le direttive unionali, in materia tributaria, rappresentano lo strumento centrale per operare il ravvicinamento delle legislazioni (art. 115 TFUE), soprattutto nel campo della imposizione indiretta e, tra le numerose direttive Iva, rilevano la direttiva 77/388/CEE del Consiglio (cosiddetta sesta direttiva) e la direttiva di rifusione 2006/112/CE del Consiglio, successivamente modificata, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto.
4.3 In proposito, deve evidenziarsi che anche il giudice comunitario, in materia fiscale, ha ritenuto pienamente compatibili con l’ordinamento comunitario la fissazione, da parte degli Stati membri, di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza, nell’interesse della certezza del diritto, a tutela sia del contribuente sia dell’amministrazione interessata (Corte 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe, punto 5; Corte Giust, 10 luglio 1997, causa C-261/95, Palmisani, punto 28; Corte Giust. 17 luglio 1997, causa C-90/94, Haahr Petroleum; Corte Giust., 17 novembre 1998, causa C-228/96, Aprile s.r.I.; Causa 21 gennaio 2010, causa C 472/08, Alston Power Hydro) (cfr. Cass., 14 giugno 2021, n. 16693, in motivazione). Anche di recente, è stato affermato che, ai sensi dell’articolo 167 e dell’articolo 179, primo comma, della direttiva 2006/112/CE, il diritto a detrazione dell’IVA va esercitato, in linea di principio, nel corso dello stesso periodo in cui tale diritto è sorto, ossia nel momento in cui l’imposta diviene esigibile e che, ciononostante, ai sensi degli articoli 180 e 182 della citata direttiva, un soggetto passivo può essere autorizzato ad operare la detrazione dell’IVA anche se non ha esercitato il proprio diritto nel periodo in cui questo è sorto, fatto salvo, però, il rispetto delle condizioni e delle modalità fissate dalle normative nazionali (sentenza del 28 luglio 2016, Astone, C-332/15, EU:C:2016:614, punto 32 e giurisprudenza ivi citata); la possibilità di esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA senza alcuna limitazione temporale contrasterebbe, tuttavia, col principio della certezza del diritto, il quale esige che la situazione fiscale del soggetto passivo, considerati i diritti e gli obblighi dello stesso nei confronti dell’amministrazione fiscale, non possa essere indefinitamente rimessa in discussione (sentenza del 28 luglio 2016, Astone, C-332/15, EU:C:2016:614, punto 33 e giurisprudenza ivi citata.). Così, la Corte ha già dichiarato che un termine di decadenza la cui scadenza porti a sanzionare il contribuente non sufficientemente diligente, che abbia omesso di richiedere la detrazione dell’IVA a monte, privandolo del diritto alla detrazione, non può essere considerato incompatibile col regime instaurato dalla direttiva 2006/112, purché, per un verso, detto termine si applichi allo stesso modo ai diritti analoghi in materia fiscale fondati sul diritto interno e a quelli fondati sul diritto dell’Unione (principio di equivalenza) e, per altro verso, esso non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto a detrazione (principio di effettività) (v., in tal senso, sentenza del 28 luglio 2016, Astone, C-332/15, EU:C:2016:614, punti 34 e 35, nonché giurisprudenza ivi citata) (cfr. Corte di Giustizia UE, 21 marzo 2018, Volkswagen AG, C-533/16, cfr. punti 44-47).
4.4 E con riferimento specifico al principio di effettività, sono stati richiamati i criteri di ripartizione dell’onere della prova statuiti da questa Corte nel caso di contestazione dell’atto comunicato a mezzo raccomandata, anche in ragione del «principio di vicinanza della prova», nonché i principi sull’onere probatorio stabiliti nella diversa ipotesi in cui l’autore della comunicazione abbia scelto un’unica spedizione per inviare due comunicazioni, in ragione del fatto che, secondo l’id quod plerumque accidit, ad ogni atto da comunicare corrisponde una singola spedizione.
4.5 Ciò che rende non accoglibile la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, peraltro, genericamente formulata, e senza indicazione degli specifici profili per i quali la normativa italiana si porrebbe in contrasto con la normativa europea.
5. Per quanto esposto, il ricorso va rigettato e la società ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 13.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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