Corte di Cassazione ordinanza n. 19744 del 20 giugno 2022
dichiarazione di successione – emendabilità degli errori commessi dal contribuente – correzione non osta né l’intervenuta scadenza del termine per la presentazione della denunzia di successione né l’eventuale notifica di un avviso di liquidazione
RITENUTO CHE
L’Agenzia delle Entrate ricorre per la cassazione della suindicata sentenza con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, in controversia riguardante l’impugnazione di avvisi di liquidazione per l’imposta di successione, liquidata in base a due dichiarazioni integrative e di quella originariamente presentata, ancorché oltre i dieci anni dalla apertura della successione, che si era conclusa, in prime cure, con le sentenze n. 5187/2014 e n. 4468/2015, la prima delle quali favorevole a G.R. e G.F..
La CTR ha respinto tanto l’appello erariale, quanto l’appello proposto in via incidentale dai contribuenti, e confermato la decisione recante il riconoscimento delle passività esposte nella 1jichiarazione di successione, con compensazione delle spese giudiziali.
Osserva, tra l’altro, il giudice di appello che non può essere negata al contribuente “la possibilità di portare in detrazione le passività in seno alla dichiarazione di successione, seppur tardiva” e che, “in assenza di un provvedimento di diniego delle passività, la dichiarazione integrativa deve considerarsi pienamente efficace, e pertanto, nella liquidazione delle imposte di successione, dovrà tenersi conto anche delle passività emergenti da tale dichiarazione e non contestate dall’Ufficio”.
Le contribuenti resistono con controricorso e deposito memorie
CONSIDERATO CHE
Con unico motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992 e de9li artt. 23 e 32 del d.lgs. n. 346 del 1990, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per aver la CTR erroneamente ritenuto che la mancata contestazione delle passività, da parte dell’Ufficio, mediante un espresso diniego, consentisse ai contribuenti di ridurre l’imponibile fiscale dell’ammontare delle passività ereditarie esposte nella dichiarazione integrativa, nonostante la dichiarazione di successione fosse stata presentata oltre dieci anni dall’apertura della successione, apertasi il 2/10/1996. Deduce, altresì, l’Agenzia delle Entrate che la dichiarazione integrativa dei contribuenti” contenente le sole passività ereditarie, è stata presentata successivamente alla notifica dei due avvisi di liquidazione oggetto di causa e che la sentenza impugnata risulta di priva di indicazioni circa l’idoneità dei documenti prodotti in giudizio a dimostrare le passività ereditarie.
Il motivo è infondato.
In materia di imposta di successione, si è consolidato l’orientamento giurisprudenziale di legittimità (Cass. n. 13595/2018, n. 26080/2016, n. 2229/2015, n. 4755/2008, n. 1824/2008) secondo il quale “gli errori commessi dal contribuente nella dichiarazione sono in ogni caso emendabili, sia in virtù del principio generale secondo cui la dichiarazione non ha valore confessorio e non è fonte dell’obbligazione tributaria, sia in virtù dei principi costituzionali di capacità contributiva e buona amministrazione, nonché di collaborazione e buona fede che devono improntare rapporti tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente“.
E’ stato, inoltre, precisato da questa Corte che “alla correzione non osta né l’intervenuta scadenza del termine per la presentazione della denunzia di successione, che non ha natura decadenziale, né l’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 346 del 1990, che concerne le modifiche da apportare agli elementi oggettivi e soggettivi della dichiarazione, né l’eventuale notifica di un avviso di liquidazione, riflettendosi tale circostanza solo sul regime dell’onere della prova in giudizio“.
La sentenza impugnata, dunque, appare incensurabile laddove si afferma che la dichiarazione di successione è sempre emendabile e che le passività esposte nella dichiarazione integrativa erano deducibili, salvo l’onere del contribuente di dimostrare la correttezza della modifica proposta ed il corrispondente potere-dovere del giudice tributario di statuire in ordine alla esclusione, o meno, dall’attivo ereditario dei debiti della defunta R.B..
Giova, a questo punto, evidenziare che la CTR ha ritenuto che “in assenza di un provvedimento di diniego delle passività” emergenti dalla dichiarazione integrativa, queste fossero da considerare come “non contestate dall’Ufficio”.
I contribuenti, del resto, assumono (v. controricorso pag. 16) che le certificazioni degli istituti bancari attestanti l’ammontare del debito a carico della de cuius sono state ottenute soltanto nel corso del 2013 (gli avvisi di liquidazione sono stati notificati il 23/11/2012 ed il 29/11/2012, sulla base delle due dichiarazioni n. 963 e n. 4570 del 2010).
Il profilo censorio afferente l’onere della prova non coglie nel segno in quanto la ricorrente si limita a dedurre che “il Collegio regionale (non) ha manifestato alcun apprezzamento” al riguardo ed a richiamare il disposto dell’art. 23, comma 2, d.lgs. n. 346 del 1990 ma che la “idoneità dei documenti prodotti in giudizio, rispetto al modello legale” fosse stata oggetto di specifica contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate non risulta dal ricorso per cassazione e neppure dalla sentenza impugnata.
La Corte ha avuto modo di chiarire che “la deducibilità dei debiti della massa ereditaria è subordinata alle condizioni e alle dimostrazioni, integranti sistema di prova legale, prescritte dagli artt. 21 e ss. del d.lgs. n. 346 del 1990, senza potersi dare rilievo a mezzi diversi da quelli previsti dalla legge, sicché, ove si tratti di debiti verso istituti di credito, la produzione del certificato di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. cit., è necessaria anche quando vi sia riscontro in altri documenti, pur costituenti prova legale e, al tempo stesso, è sufficiente, anche in mancanza di ulteriori risultanze“. (Cass. n. 15449/2019).
Nella specie, la CTR ha confermato la decisione di primo grado (sentenza della CTP di Palermo n. 5187/2014), con riferimento ai debiti della massa verso istituti di credito, facendo applicazione dei principi innanzi esposti.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidandole in € 4.500,00 per compensi,€ 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario delle spese generali e agli altri accessori di legge.
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