CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 22445 depositata il 25 luglio 2023
Tributi – Rimborso IVA – Diniego di autotutela – Capacità contributiva – Silenzio-rifiuto – Rigetto
Rilevato che
– (Omissis) s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza indicata in epigrafe della Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Taranto che aveva accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore avverso la sentenza n. 122/03/2016 della Commissione tributaria provinciale di Taranto che aveva accolto il ricorso proposto dalla suddetta società avverso il provvedimento n. 3138 del 2015 di diniego dell’istanza di rimborso dell’Iva di Euro 116.000,00 relativo all’anno 2006;
– in punto di diritto, il giudice di appello ha osservato che il ricorso originario era inammissibile essendo stato violato: 1) il principio del ne bis in idem atteso che il provvedimento impugnato n. 3138 del 26 gennaio 2015 aveva confermato il contenuto del precedente provvedimento di diniego n. 24297 del 2007 oggetto di impugnativa in altro giudizio conclusosi a favore dell’Amministrazione con sentenza della Corte di Cassazione n. 3463/2014; 2) l’art. 19 del d.lgs. n. 546/1992 non essendo l’atto di diniego in questione autonomamente impugnabile avendo la società, per il medesimo rimborso dell’Iva riferita al 2006, già impugnato il provvedimento n. 24297 del 2007, divenuto definitivo a seguito della sentenza n. 3463/2014 della Corte di Cassazione;
– resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Considerato che
– con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 327 c.p.c. e 2909 c.c., nonché degli artt. 49 e 51 del d.lgs. n. 546 del 1992 per avere la CTR: 1) erroneamente interpretato la sentenza della Corte di Cassazione n. 3463/2014 ritenendo che sussistesse un giudicato sull’istanza di rimborso e, pertanto, fosse precluso alla società di presentare una “nuova istanza” di rimborso sulla base di fatti nuovi e sopravvenuti; 2) non considerato la rilevanza del giudicato esterno favorevole alla società derivante da due sentenze emesse in relazione ad avvisi di accertamento riguardanti il medesimo periodo di imposta 2006; al riguardo, ad avviso della ricorrente, la formazione di un giudicato sfavorevole alla contribuente, in forza della sentenza n. 3463/2014, in relazione al provvedimento di diniego di rimborso Iva n. 24297 del 2007 per non avere la società dimostrato di non essere società di comodo ai sensi dell’art. 30 della l. n. 724 del 1994 e in particolare di non avere potuto produrre ricavi a fronte di una attività embrionale di ricerca, non precludeva la presentazione di una “nuova istanza” di rimborso allorquando, per lo stesso periodo di imposta, con altre sentenze (n. 20/29/13 della CTR della Puglia, sezione staccata di Taranto, depositata il 16.01.2013, e n. 348/04/13 della CTP di Taranto del 13.9.2013) passate in giudicato – costituenti fatti sopravvenuti rispetto alla sentenza della Corte di cassazione – fossero stati annullati altri due avvisi con i quali l’Ufficio aveva contestato, sempre riguardo allo stesso periodo, la non operatività della società ex art. 30 cit.;
– con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 100 c.p.c. per avere la CTR erroneamente ritenuto che il provvedimento di diniego di rimborso oggetto di impugnativa, poiché riguardava lo stesso periodo di imposta (2006) per il quale in precedenza era stata avanzata altra istanza di rimborso: a) non fosse un atto autonomamente impugnabile; b) fosse equiparabile ad un diniego di autotutela sebbene si trattasse di “un vero e proprio provvedimento di diniego ancorché per le stesse ragioni indicate nel primo diniego di rimborso”; peraltro, la ricorrente aggiunge che la questione della configurabilità del provvedimento di diniego di rimborso Iva del 2015 come provvedimento di diniego di autotutela in relazione alla precedente istanza di rimborso Iva avanzata nel 2007 sarebbe stata prospettata dall’Agenzia per la prima volta nell’atto di appello per cui la CTR avrebbe dovuto rilevare – come contestato dalla società nelle controdeduzioni – che si trattasse di una nuova eccezione come tale improponibile ex art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992;
– va premesso che la sentenza impugnata si fonda su due rationes decidendi, avendo il giudice di appello ritenuto, in riforma della sentenza di primo grado, il ricorso originario inammissibile in quanto: 1) era stato violato il principio del ne bis in idem atteso che il provvedimento prot. 3138 del 26 gennaio 2015 impugnato dalla società aveva confermato il contenuto del precedente provvedimento di diniego avente prot. n. 24297 del 21 maggio 2007 “su cui era stato incardinato un processo che si (era) concluso a favore dell’Amministrazione finanziaria con la sentenza della Corte di Cassazione n. 3463/2014 che non (aveva) riconosciuto il diritto al rimborso dell’Iva di cui tratta(vasi)” (prima ratio decidendi); 2) l’atto opposto non era autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, avendo la società, per il medesimo rimborso dell’Iva riferita al 2006, già impugnato il provvedimento n. 24297 del 2007, divenuto definitivo a seguito della sentenza n. 3463/2014 della Corte di Cassazione (seconda ratio decidendi);
– il secondo motivo – che aggredisce la seconda ratio decidendi della sentenza di appello circa la non autonoma impugnabilità ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992 del provvedimento di diniego di rimborso Iva del 2015 – è infondato;
– va premesso che, come si evince dal ricorso, con l’istanza di rimborso Iva presentata il 13.1.2015, la società – dopo avere richiamato le sentenze n. 20/29/13 della CTR della Puglia, sezione staccata di Taranto, depositata il 16.01.2013, e n. 348/04/13 della CTP di Taranto del 13.9.2013, passate in giudicato con le quali, nell’annullare gli avvisi impugnati, veniva accertato che, con riferimento al medesimo anno di imposta, la società non potesse essere qualificata come “non operativa”- chiedeva all’Ufficio “di procedere al riesame della pratica della (Omissis) s.r.l. accogliendo la richiesta di rimborso Iva relativa all’anno 2006, essendo stato acclarato in via definitiva che dall’attività di ricerca la stessa non aveva conseguito nel suddetto anno alcun reddito”; a fronte di questa istanza, l’Ufficio emetteva il provvedimento n. 3138 del 2015 con il quale “si confermava il contenuto del provvedimento di diniego prot. n. 24297 del 21.5.2007” (pagg. 15-19 del ricorso);
– in materia di autotutela tributaria, nella sentenza n. 181 del 2017, il giudice delle leggi – nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2quater, comma 1, del d.l. 30 settembre 1994, n. 564, conv., con mod., dalla l. 30 novembre 1994, n. 656, e dell’art. 19, comma 1, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, sollevate dalla CTP di Chieti, in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 53, 97 e 113 Cost., nell’ambito di un processo instaurato da un contribuente contro il “silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di autotutela” avente ad oggetto il riesame degli avvisi di accertamento, non impugnati in sede giudiziaria, di rettifica in aumento dei redditi professionali dichiarati – dopo avere richiamato la giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui l’autotutela tributaria (…) costituisce un potere esercitabile d’ufficio da parte delle Agenzie fiscali sulla base di valutazioni largamente discrezionali, e non uno strumento di protezione del contribuente (ex multis, Corte di Cassazione, sezione tributaria, sentenza 15 aprile 2016, n. 7511; (…) Corte di Cassazione, sezioni unite civili, sentenza 4 ottobre 1996, n. 8685) e secondo cui non esiste un dovere dell’Amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela e, mancando tale dovere, il silenzio su di essa non equivale ad inadempimento, né, d’altro canto, il silenzio stesso può essere considerato un diniego, in assenza di una norma specifica che così lo qualifichi giuridicamente (Corte di Cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 marzo 2007, n. 7388; Corte di Cassazione, sezione quinta civile, sentenza 9 ottobre 2000, n. 13412) – ha affermato che “A differenza di quest’ultimo (annullamento su ricorso), tuttavia, l’annullamento d’ufficio non ha funzione giustiziale, costituisce espressione di amministrazione attiva e comporta di regola valutazioni discrezionali, non esaurendosi il potere dell’autorità che lo adotta unicamente nella verifica della legittimità dell’atto e nel suo doveroso annullamento se ne riscontra l’illegittimità. Certamente, l’apprezzamento discrezionale operato in sede di autotutela tributaria presenta tratti particolari per la forza che assume, nel suo contesto, l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi. L’annullamento d’ufficio di atti inoppugnabili per vizi “sostanziali”, cioè che hanno condotto l’amministrazione a percepire somme non dovute, tende infatti a soddisfare ipso jure l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi, che si può considerare una sintesi tra l’interesse fiscale dello Stato-comunità e il principio della capacità contributiva, tutelati dall’art. 53, comma 1, Cost. (…). Anche in un contesto così caratterizzato, tuttavia, nel quale l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto acquista specifica valenza e tende in una certa misura a convergere con quello del contribuente, non va trascurato il fatto che altri interessi possono e devono concorrere nella valutazione amministrativa, e fra essi certamente quello alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico, inevitabilmente compromessa dall’annullamento di un atto inoppugnabile. Tale interesse richiede di essere bilanciato con gli interessi descritti – e con altri eventualmente emergenti nella vicenda concreta sulla quale l’amministrazione tributaria è chiamata a provvedere – secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa. Sicché si conferma in ogni caso, anche in ambito tributario, la natura pienamente discrezionale dell’annullamento d’ufficio. Questa configurazione dell’autotutela tributaria emerge del resto chiaramente dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che afferma il carattere discrezionale dell’autoannullamento tributario e, come visto, sottolinea che esso “non costituisce un mezzo di tutela del contribuente” (Corte di Cassazione, sezione tributaria, sentenza 20 febbraio 2015, n. 3442, Corte di Cassazione, sezione 5 civile, sentenza 24 maggio 2013, n. 12930, (…) Corte di Cassazione, sezioni unite civili, sentenza 9 luglio 2009, n. 16097)”. In particolare, nella detta pronuncia, la Corte ha ritenuto non fondata la questione relativa agli artt. 3, 23 e 53 Cost. osservando che “le norme censurate – e più in generale la disciplina legislativa dell’annullamento d’ufficio tributario – operano dunque un bilanciamento non irragionevole tra l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi e l’interesse alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico (su cui recentemente sentenza n. 94 del 2017), che sarebbe inevitabilmente sacrificato da una scelta legislativa che imponesse all’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela del contribuente. Di fronte a una tale istanza, alle agenzie fiscali è invece consentito di valutare se attivarsi o meno, senza che la loro eventuale scelta di non provvedere possa essere oggetto di contestazione giurisdizionale da parte dell’istante, non essendo in tale caso il loro potere di provvedere in autotutela diverso da quello esercitabile in ipotesi spontaneamente. La non irragionevolezza della disciplina esaminata non comporta che siano precluse al legislatore altre possibili scelte. Questa Corte ha già osservato che, “in via di principio, il momento discrezionale del potere della pubblica amministrazione di annullare i propri provvedimenti non gode in sé di una copertura costituzionale” (sentenza n. 75 del 2000). La previsione legislativa di casi di autotutela obbligatoria è dunque possibile, così come l’introduzione di limiti all’esercizio del potere di autoannullamento, ma non può certo dirsi costituzionalmente illegittima, per le ragioni sopra viste, una disciplina generale che escluda il dovere dell’amministrazione e, per quanto qui interessa, delle Agenzie fiscali di pronunciarsi sulle istanze di autotutela.”. Ugualmente ha ritenuto non fondata la questione posta in riferimento all’art. 97 Cost. affermando che “Dalla giusta considerazione che la disciplina legislativa del potere di annullamento d’ufficio degli atti divenuti inoppugnabili si fonda (anche) sull’art. 97, comma 2, Cost., non è corretto inferire la necessità costituzionale della previsione legislativa di un dovere dell’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela, come prospetta il giudice a quo. Al contrario, proprio nel principio di buon andamento espresso nella norma costituzionale citata si radica il vincolo per il legislatore di tenere conto, nella disciplina dell’annullamento d’ufficio, anche dell’interesse pubblico alla stabilità dei rapporti giuridici già definiti dall’amministrazione, con la conseguenza che non irragionevolmente il legislatore stesso ha ritenuto di non prevedere che su eventuali istanze di autotutela l’amministrazione debba necessariamente pronunciarsi.” nonché non fondata la questione relativa agli artt. 24 e 113 Cost. in quanto “la disciplina legislativa del potere di autotutela tributaria, nella parte in cui non prevede un obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi sulle istanze di annullamento presentate dal contribuente, non lede la garanzia costituzionale del diritto al giudice.”;
– in tema di contenzioso tributario, ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, il sindacato giurisdizionale sull’impugnato diniego, espresso o tacito, di procedere ad un annullamento in autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto dell’amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, e non la fondatezza della pretesa tributaria, atteso che, altrimenti, si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa o un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo (cfr. Cass. sez. 6 – 5, Ordinanza n. 25524 del 02/12/2014; Cass. sez. 5, n. 1803 del 2019);
– nella specie, trattasi di un atto di conferma c.d. impropria, cioè di un atto – come si evince dalla sentenza impugnata – confermativo di un precedente provvedimento di diniego di rimborso senza alcuna istruttoria e senza una nuova motivazione (“il provvedimento prot. 3138 del 26 gennaio 2015… aveva confermato il contenuto del precedente provvedimento di diniego avente prot. n. 24297 del 21 maggio 2007”);
– nel caso, invece, di conferma c.d. propria, se l’Amministrazione entra nel merito dell’istanza e dopo aver considerato i fatti e motivi prospettati dal richiedente si esprime in senso negativo, inizia un vero e proprio procedimento di riesame, con una nuova valutazione della situazione in fatto di diritto. In tal caso l’atto emanato si sostituisce al precedente come fonte di disciplina del rapporto e il precedente provvedimento resta assorbito dal nuovo. Solamente in tale evenienza è ammissibile l’impugnazione del provvedimento espresso di diniego di autotutela (Cass., sez. 5, n. 1803 del 2019);
– il provvedimento meramente ripetitivo di un precedente provvedimento di diniego di rimborso (nella specie, divenuto definitivo in forza della sentenza n. 3463/2014 della Corte di Cassazione), non è invece impugnabile autonomamente, come tutti gli atti amministrativi confermativi e contro il diniego dell’Amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare – come nella specie – la fondatezza della pretesa tributaria;
– quanto alla censura con cui si deduce in sostanza la violazione dell’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992, premesso che “nel processo tributario il divieto di ultrapetizione e quello di proporre in appello nuove eccezioni (non rilevabili d’ufficio) posto dall’art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 riguardano eccezioni in senso tecnico e non le mere argomentazioni difensive, tendenti ad inficiare la sentenza sotto un profilo logico ulteriore rispetto a quello esposto in primo grado, atteso che le difese, le argomentazioni e le prospettazioni con cui l’Amministrazione si difende dalle contestazioni già dedotte in giudizio non costituiscono, a loro volta, eccezioni in senso stretto” (Cass., sez. 5, n. 2413 del 3/02/2021), nella specie, la CTR – nell’accogliere, considerandolo non eccedente il thema decidendum, il motivo di appello dell’Ufficio con cui veniva dedotta l’inammissibilità del ricorso originario per non autonoma impugnabilità del provvedimento di diniego di rimborso Iva del 2015 quale atto di diniego dell’Ufficio di “riesaminare in autotutela il provvedimento di diniego di rimborso divenuto.. definitivo” in forza della sentenza n. 3463/2014 della Corte di Cassazione – non ha violato il suddetto principio trattandosi di censura contenente non già una eccezione in senso stretto ma un’argomentazione difensiva tendente ad inficiare la sentenza sotto un profilo logico ulteriore rispetto a quello esposto in primo grado a fronte di contestazioni già dedotte in giudizio tanto più che come si evince dallo stesso ricorso (pag. 22) l’Agenzia, già in sede di controdeduzioni di primo grado, aveva eccepito (sebbene sotto altri profili) l’inammissibilità del ricorso originario ex art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992;
– l’infondatezza del secondo motivo di ricorso comporta l’inammissibilità, per difetto di interesse, del primo motivo – che aggredisce la prima ratio decidendi della sentenza impugnata- in ossequio al consolidato principio di diritto secondo cui “quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome “rationes decidendi” ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite “rationes”, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate. Ne consegue che, rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta” (Cass. n. 11275/22; n. 4809 del 2017; n. 12372 del 24/05/2006; in termini: Cass. 16/08/2006, n. 18170; Cass. 29/09/2005, n. 19161 ed altre);
– in conclusione, il ricorso va rigettato;
– le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 3.000,00, per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater d.p.r. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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