CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 31451 depositata il 13 novembre 2023

Lavoro – Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Obbligo di repêchage – Impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale – Prova negativa a carico del datore di lavoro – Demansionamento – Accoglimento

Rilevato che

1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado, resa all’esito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012 azionato da A.M. nei confronti della A. Spa in seguito al licenziamento intimato il 15 maggio 2018, nella parte in cui ha riconosciuto “l’accertata soppressione del posto di lavoro” cui era adibito il dipendente e la sua “riferibilità a scelte datoriali risultate effettive e non simulate”;

2. La Corte, tuttavia, ha ritenuto che la società datrice di lavoro non avesse assolto la prova dell’adempimento dell’obbligo di repêchage, in particolare risultando “pacifico tra le parti che al ricorrente non sia stata prospettata alcuna possibilità di reimpiego in mansioni inferiori”;

in presenza di una “insufficienza probatoria” concernente l’adempimento dell’obbligo di repêchage, la Corte ha condannato la società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;

3. per la cassazione di tale statuizione ha proposto ricorso, in via principale, il M. con tre motivi; ha resistito con controricorso la società, proponendo ricorso incidentale affidato a quattro motivi;

entrambe le parti hanno comunicato memorie;

all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

Considerato che

1. i motivi del ricorso principale del lavoratore possono essere come di seguito sintetizzati:

1.1. il primo denuncia: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 L. n. 604/66, dell’art. 2697 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 18, commi 4, 5, 7 L. n. 300/70 (art. 360 n. 3 c.p.c.)”; si deduce che, nella specie, “attesa la manifesta insussistenza del fatto”, andasse applicata, “in ogni caso, anche solo per quanto riguarda il mancato obbligo di repêchage, la tutela di cui al comma 4 dell’art. 18 novellato”;

1.2. il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, criticando la sentenza impugnata per avere ritenuto effettiva la soppressione del posto di lavoro del M.;

1.3. col terzo si eccepisce l’omesso esame di un fatto decisivo, a mente dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., per non avere la Corte territoriale “dato conto dei motivi della mancata ammissione dei mezzi istruttori ritualmente richiesti”;

2. con i motivi del ricorso incidentale la società denuncia:

2.1. ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare il fatto che “su tutto il territorio nazionale non esisteva alcuna posizione lavorativa che l’azienda potesse offrire al Sig. M., al momento del licenziamento” (primo motivo);

2.2. ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., la “nullità della sentenza per palese contraddittorietà della motivazione in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., per avere la Corte di Appello non ritenuto provato un fatto e per non aver ammesso, quanto al medesimo fatto, le prove offerte da A.” (secondo motivo);

2.3. ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, “per avere la Corte di Appello ritenuto non provato un fatto e per non aver ammesso, quanto al medesimo fatto, le prove offerte da A., così violando, oltre agli artt. 24 Cost., 2697 c.c. e 115 c.p.c., anche l’art. 421 c.p.c. che pone in capo al giudice del lavoro il potere-dovere di ricercare la verità materiale” (terzo motivo);

2.4. ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 41 Cost., 3 e 5, l. n. 604 del 1966 e 2103 c.c., “per avere la Corte di Appello ritenuto sussistente un obbligo pressocché incondizionato del datore di lavoro di offrire al lavoratore una posizione, equivalente o inferiore, in alternativa al licenziamento, anche in contesti in cui tale posizione non esiste” (quarto motivo);

3. per ragioni di priorità logico-giuridica, occorre esaminare i motivi del ricorso incidentale della società, in quanto contestano la ritenuta illegittimità del licenziamento, così come affermata dalla Corte territoriale sotto il profilo della violazione dell’obbligo di repêchage;

i quattro motivi, scrutinabili congiuntamente per connessione, non possono trovare accoglimento;

3.1. secondo una oramai consolidata giurisprudenza di questa Corte, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (ab imo: Cass. n. 5592 del 2016); trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro ha sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti, di tipo indiziario o presuntivo, idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale (cfr. Cass n. 10435 del 2018); usualmente si prova che nella fase concomitante e successiva al recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal prestatore (v. Cass. n. 6497 del 2021, con la giurisprudenza ivi citata al punto 6);

3.2. ciò premesso, le censure presuppongono sostanzialmente l’assunto, errato in diritto, secondo cui l’obbligo di repêchage – che il datore di lavoro deve assolvere per evitare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo – debba essere strettamente limitato alle sole mansioni rientranti nel livello di inquadramento posseduto dal lavoratore da licenziare, ovvero in quello immediatamente inferiore, tanto che le deduzioni come le richieste di prova formulate nel corso del giudizio, così come specificate nel ricorso per cassazione, riguardano il 7° e il 6° livello;

ancora nella memoria ex art. 380bis.1 la ricorrente in via incidentale illustra le sue doglianze lamentando sia che i giudici d’appello avrebbero ritenuto “priva di valore probatorio la tabella prodotta da A. sub doc. 36 della fase di opposizione, nella quale la Società ha elencato tutti i lavoratori assunti dopo il licenziamento del Sig. M. in tutte le sedi italiane, con inquadramento al 7° e 6° livello, rispettivamente il livello di appartenenza del Sig. M. e il livello immediatamente inferiore”, sia che la Corte territoriale non abbia “ammesso le ulteriori prove dedotte da A. a conferma dei dati contenuti nella tabella sub doc. 36”;

poiché la società nulla di specifico ha dedotto in ordine alle eventuali assunzioni operate dall’impresa nel periodo controverso in tutte le sue sedi e in tutti i livelli di inquadramento inferiori al 6°, legittimamente la Corte territoriale ha ritenuto, con una valutazione che involge i documenti prodotti e le richieste probatorie di pertinenza del giudice del merito, che il datore di lavoro non avesse assolto all’obbligo sul medesima gravante, né tanto meno avrebbe potuto attivare poteri officiosi su circostanze non allegate dalla parte;

3.3. sin da Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998 è stato sancito il principio per il quale la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori;

l’arresto riposa sull’assunto razionale dell’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto;

il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (Cass. n. 21579 del 2008; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019);

è stato, così, affermato che il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili situazioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore (cfr. Cass. n. 10018 del 2016; v. pure Cass. n. 23698 del 2015; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019);

l’orientamento ha ricevuto l’avallo indiretto della Corte costituzionale (sent. n. 188 del 2020) che, nel ritenere non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, n. 5), dell’Allegato A al r.d. n. 148 del 1931, laddove prevede la possibilità di applicare la retrocessione quale sanzione disciplinare “sostitutiva” della destituzione, ha considerato proprio la richiamata giurisprudenza di legittimità, affermando che, “in ossequio alla logica del <male minore>”, “la tutela della professionalità del lavoratore cede di fronte all’esigenza di salvaguardia di un bene più prezioso, quale il mantenimento dell’occupazione”;

3.4. nella specie, la mancata deduzione da parte della società circa le ulteriori posizioni di altri lavoratori eventualmente assunti in livelli di inquadramento inferiori al sesto ha anche precluso in radice qualsiasi valutazione circa la compatibilità con il bagaglio professionale del dipendente licenziato, avendo la difesa di A. Spa proposto la comparazione solo con i lavoratori assunti nel 6° e 7° livello;

invero, pur non potendosi pregiudizialmente negare che l’obbligo di repêchage possa incontrare un limite nel fatto che il licenziando non abbia la capacità professionale richiesta per occupare il diverso posto di lavoro, tuttavia è evidente che ciò debba risultare da circostanze oggettivamente riscontrabili palesate dal datore di lavoro; diversamente ragionando si lascerebbe l’adempimento dell’obbligo alla volontà meramente potestativa dell’imprenditore, che potrebbe riservare la scelta a valutazioni che, in quanto occulte, non potrebbero essere sindacabili neanche nella loro effettività e veridicità (in termini: Cass. n. 13809 del 2017; Cass. n. 23340 del 2018);

ma ciò evidentemente postula che il datore di lavoro innanzi tutto alleghi quali siano le mansioni eventualmente affidate ai nuovi assunti, anche laddove impiegati in mansioni inferiori, onde consentire al giudice del merito di verificare, sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili palesate dal datore di lavoro, se le capacità e le esperienze professionali possedute dal licenziato fossero davvero tali da precludergli l’utile impiego nelle mansioni, anche inferiori, cui sono stati destinati i neoassunti;

tanto in coerenza con la primazìa dell’interesse alla conservazione del posto di lavoro rispetto alla tutela della professionalità, salvo che, una volta prospettata al prestatore, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, l’utilizzo in compiti meno qualificanti, questi decida di non accettare la soluzione alternativa;

4. confermata l’illegittimità del licenziamento, occorre esaminare il primo motivo del ricorso principale del lavoratore, che riguarda la tutela indennitaria applicata dalla Corte territoriale in luogo di quella reintegratoria;

esso è ammissibile nella parte in cui deduce la violazione “dell’art. 18, commi 4, 5, 7 L. n. 300/70” ed è anche fondato, in conformità all’attuale assetto normativo delineato dalla disposizione Statutaria novellata, quale definito dalle sentenze della Corte costituzionale  n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022, successive al deposito dell’impugnazione;

costituisce, infatti, principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo il quale l’efficacia delle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge, quali quelle sopra citate, non si estende ai soli rapporti già esauriti per formazione del giudicato o per essersi comunque verificato altro evento cui l’ordinamento ricollega il consolidamento del rapporto medesimo, mentre tale efficacia si dispiega pienamente in tutte le altre ipotesi (Cass. n. 2406 del 2003; Cass. n. 1277 del 2002; Cass. n. 1203 del 1999; Cass. n. 891 del 1974);

orbene, con la sentenza n. 125 del 2022, il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della l. n. 92 del 2012, limitatamente alla parola «manifesta», con la conseguenza che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata accertata la “insussistenza dei fatto“-fatto da intendersi nella giurisprudenza consolidata di questa Corte inaugurata da Cass. n. 10435 del 2018 comprensivo della impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore va applicata la sanzione reintegratoria, senza che assuma rilevanza la valutazione circa la sussistenza, o meno, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti dì legittimità del recesso; inoltre, con la sentenza n. 59 del 2021, era già stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione nella parte in cui prevedeva, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, un potere discrezionale del giudice in ordine all’applicazione della tutela reale (cfr. Cass. n. 16975 del 2022; Cass. n. 30167 del 2022; Cass. n. 34049 del 2022; Cass. n. 34051 del 2022; Cass. n. 35496 del 2022; Cass. n. 36956 del 2022; Cass. n. 37949 del 2022; Cass. n. 38183 del 2022; Cass. n. 1299 del 2023; alle quali tutte si rinvia anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.);

5. l’accoglimento del primo motivo del ricorso del lavoratore, soddisfa pienamente il suo interesse dal punto di vista della tutela applicabile e assorbe gli altri due motivi proposti dal medesimo;

pertanto, respinto il ricorso incidentale, deve essere accolto il primo motivo del ricorso principale, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio al giudice indicato in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito, regolando anche le spese;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese. Rigetta il ricorso incidentale.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente in via incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.