Corte di Cassazione, ordinanza n. 35123 depositata il 29 novembre 2022
in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, sussiste incertezza normativa oggettiva, quando è ravvisabile una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita, non già ad un generico contribuente, nè a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata e neppure all’Ufficio finanziario, ma al giudice
RILEVATO CHE:
L’Istituto educativo, titolare di una scuola paritaria, ha opposto gli avvisi di accertamento relativi all’ICI/IMU per gli anni 2010 -2015, invocando l’esenzione prevista dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7 lett. i). Il ricorso è stato parzialmente accolto in primo grado escludendo le sanzioni. Hanno proposto appello tanto l’Istituto che il COMUNE DI CARRARA ed entrambi gli appelli sono stati rigettati dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, la quale ha osservato che manca il requisito (oggettivo) per l’applicazione della chiesta esenzione, posto che è necessario tal fine che le rette scolastiche siano di importo simbolico oppure idonee a coprire solo una frazione del costo effettivo del servizio scolastico; nel caso di specie la retta applicata agli studenti mediamente supera il 50% del costo del servizio, e quindi può dirsi che si tratti di attività commerciale non esente da imposta comunale. Il giudice d’appello ha inoltre confermato la statuizione del giudice di primo grado in punto di esclusione delle sanzioni, ritenendo sussistenti obiettive condizioni di incertezza tanto da parte del legislatore che da parte della giurisprudenza.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso principale l’Istituto affidandosi a cinque motivi. Il COMUNE DI CARRARA ha proposto ricorso incidentale, affidandosi a due motivi. La causa è stata trattata all’udienza camerale non partecipata del 4 novembre 2022.
RITENUTO CHE:
1. – Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza impugnata per avere il giudice d’appello omesso di pronunciarsi su una eccezione proposta dalla parte ricorrente nel giudizio di primo grado ed espressamente riproposta in appello. La parte ricorrente lamenta di aver eccepito che gli avvisi di accertamento erano palesemente immotivati al punto da risultare incomprensibili e apodittici, e che ha riproposto in sede di appello le stesse argomentazioni sui quali tuttavia i giudici di seconda istanza non si sono pronunciati.
Il motivo è infondato.
Deve rilevarsi – ed è questa eccezione proposta dal Comune- che la parte omette di trascrivere il motivo d’appello così da non consentire un adeguato controllo su come la censura sia stata prospettata al giudice del merito; sotto questo profilo pertanto il motivo difetta di specificità. Inoltre, si deve qui ricordare che secondo quanto ripetutamente affermato da questa Corte (tra le altre, Cass. n. 24155/2017; Cass. n. 29191/2017; Cass. n. 15255/2019; Cass. n. 2153/2020), non ricorre il vizio di omessa pronuncia ove la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto, e che non è configurabile il vizio di omessa pronuncia quando una domanda, pur non espressamente esaminata, debba ritenersi – anche con pronuncia implicita – rigettata perchè indissolubilmente avvinta ad altra domanda, che ne costituisce il presupposto e il necessario antecedente logico – giuridico, decisa e rigettata dal giudice (Cass. n. 17580 del 04/08/2014). Il giudice d’appello ha rilevato che può agevolmente individuarsi il punto centrale della controversia alla luce delle allegazioni delle parti e pertanto ha ritenuto implicitamente gli avvisi adeguatamente motivati e idonei a consentire lo sviluppo delle difese.
2.- Con il secondo motivo del ricorso principale si lamenta ai sensi dell’art. 360, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7 lett. i), ribadendo la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi per fruire dell’agevolazione. La parte deduce che la Commissione regionale ha omesso di verificare in termini rigorosi le caratteristiche dell’attività cui l’immobile è destinato, facendo riferimento ad un accertamento “in via del tutto induttiva ma comunque plausibile” al fine di escluderne la natura non commerciale.
3.- Con il terzo motivo del ricorso principale si lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione e falsa applicazione del D.M. 19 novembre 2012, n. 200, art. 4, comma 3, lett. c). La parte deduce che ha errato il giudice d’appello a valorizzare, ai fini del disconoscimento dell’esenzione per cui è causa, la circostanza che le rette applicate agli studenti mediamente superano il 50% del costo del servizio.
Osserva che la norma in questione dispone che lo svolgimento di attività didattiche si ritiene effettuato con modalità non commerciali se l’attività è svolta a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico, tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio tenendo conto anche dell’assenza di relazione con lo stesso.
Secondo l’Istituto ciò significa che l’ente ben può percepire corrispettivi purchè non superiori al costo del servizio, mentre nessun riferimento vi è alle percentuali più o meno elevate di copertura del servizio stesso.
4.- Con il quarto motivo del ricorso principale si lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. i). La parte deduce che hanno errato i giudici di merito a ritenere la natura commerciale dell’attività svolta dall’Istituto sussistendo invece i requisiti soggettivi e oggettivi della esenzione: in particolare, quanto al requisito oggettivo osserva che gli immobili per i quali si pretende l’imposta sono esclusivamente utilizzati per l’esercizio dell’attività didattica svolta in regime di convenzione con l’ente pubblico e che i corrispettivi sono tali da non coprire neppure i costi sostenuti dall’Istituto per lo svolgimento delle attività poichè i contributi ricevuti dalle famiglie degli alunni sono largamente inferiori ai costi di produzione.
5.- Con il quinto motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell’art. 360, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 594 del 1992, art. 7, e del D.M. n. 200 del 2012, art. 4, in combinato disposto con il D.M. 26 giugno 2014. La parte osserva di essere in possesso del requisito oggettivo per l’applicazione della esenzione di cui all’art. 7 cit., lett. i), e in particolare osserva che il DM 26 giugno 2014, al fine di stabilire i criteri per l’individuazione dello svolgimento con modalità non commerciali delle attività didattiche, ha introdotto i concetti di corrispettivo medio (CM) e costo medio per studente (CMS) ed è si è stabilito che spetta l’esenzione ogni qualvolta i corrispettivi versati da parte degli utenti siano pari o inferiori alla spesa annua per studente come individuato dal MIUR, posto che in tal caso l’attività è svolta con modalità non commerciali.
6.- Questi motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono infondati.
L’esenzione invocata dalla ricorrente è stata negata ritenendo insussistente il requisito oggettivo, pur nella pacifica ricorrenza del requisito soggettivo.
Si tratta nella fattispecie, dell’ICI per gli anni 2010 e 2011 e dell’IMU per gli anni 2012-2015.
Le due imposte presentano un regime normativo, quanto all’esenzione, formulato in termini leggermente differenti, il che tuttavia non ne ha impedito una uniforme interpretazione alla luce dei principi di diritto Eurounitario, e segnatamente del divieto di aiuti di Stato stabilito dall’art. 107 del TFUE, di cui appresso si dirà: la norma del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 7, comma 2 bis, come modificato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39, comma 1, dispone che l’esenzione dall’ICI si intende applicabile alle attività indicate che “non abbiano esclusivamente natura commerciale”, mentre dalla data di entrata in vigore del D.L. n. 1 del 2002, convertito con L. n. 27 del 2012, l’esenzione prevista dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. i), si applica agli immobili degli enti non commerciali soltanto se le attività ivi elencate vengono svolte con “modalità non commerciali”.
In materia, la giurisprudenza di questa Corte si è nel tempo consolidata nell’affermare che l’esenzione di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. i), in relazione ai soggetti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 1, lett. c), (TUIR), presuppone la ricorrenza cumulativa sia del requisito soggettivo della natura non commerciale dell’ente, sia del requisito oggettivo della diretta destinazione dell’immobile allo svolgimento delle attività previste dal medesimo art. 7, tra cui rientrano quelle volte alla didattica e all’educazione, mentre resta irrilevante la successiva destinazione degli utili, eventualmente ricavati, al perseguimento di fini sociali o religiosi, siccome riguardante un momento successivo alla loro produzione, tale da non far venir meno l’eventuale carattere commerciale dell’attività. L’esenzione è compatibile con il divieto di aiuti di Stato, sancito dalla normativa unionale, soltanto qualora abbia ad oggetto immobili destinati allo svolgimento di attività non economica, e l’attività sia svolta a titolo gratuito ovvero dietro il versamento di un corrispettivo simbolico (Cass. 7415/2009; Cass. 22233/2019; Cass. 24044/2022; Cass.6795/2020; Cass. 13970/2016; Cass. 24500/2009).
Deve tenersi conto infatti della decisione della Commissione dell’Unione Europea del 19 dicembre 2012, che, nel valutare se tanto l’ICI che l’IMU costituiscano aiuto di Stato in violazione del diritto dell’Unione, e segnatamente dell’art. 107, paragrafo 1, del Trattato, il quale dispone: “sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”, ha precisato che anche un ente senza fine di lucro può svolgere attività economica, cioè offrire beni o servizi sul mercato. La Commissione ha osservato che anche laddove un’attività abbia una finalità sociale, questa non basta da sola a escluderne la classificazione di attività economica. E’ necessario, quindi, al fine dell’esclusione del carattere economico dell’attività, che quest’ultima sia svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di un importo simbolico. Con la predetta decisione la Commissione dell’Unione Europea ha valutato la compatibilità delle disposizioni legislative italiane nel tempo susseguitesi e ha osservato che, secondo una giurisprudenza costante, la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento (v. CGUE, 1 luglio 2008, procedimento C-49/07, MOTOE, punti 27 e 28; CGUE, 10 gennaio 2006, procedimento C-222/04, Ministero dell’Economia e delle Finanze, punti 107, 108, 122, 123; CGUE, 12 settembre 2000, procedimenti riuniti da C-180/98 a C-184/98, Pavlov e altri, punti 74 e 75): pertanto, anche un soggetto che in base alla normativa nazionale è classificato come un’associazione o una società sportiva può essere considerato come un’impresa ai sensi dell’art. 107, paragrafo 1, del Trattato. L’unico criterio rilevante al riguardo è se il soggetto interessato svolga o meno un’attività economica. Inoltre, osserva la Commissione, l’applicazione della normativa sugli aiuti di Stato non dipende dal fatto che un soggetto venga costituito per conseguire utili, poichè anche un ente senza fine di lucro può offrire beni e servizi sul mercato.
Rese queste premesse la Commissione ha concluso nel senso che mentre l’esenzione ICI costituisce aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno, non lo è invece l’analoga esenzione IMU, considerando sia la maggiore chiarezza della norma IMU (che parla di attività non commerciali anzichè di attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale) che la norma regolamentare, la quale precisa, da un lato, che per avere natura simbolica il compenso non deve essere commisurato al costo del servizio, e dall’altro, che il limite della metà del prezzo medio, fissato per le stesse attività svolte nello stesso ambito territoriale con modalità concorrenziali, può essere utilizzato solo per escludere il diritto all’esenzione (come indicano le parole “in ogni caso”) e non implica a contrario che possano beneficiare dell’esenzione i fornitori di servizi che applicano un prezzo al di sotto di tale limite.
Inoltre, la Commissione UE, con specifico riferimento alla attività didattica, rimarca che l’attività deve essere svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di un importo simbolico, tale da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso.
Da qui poi lo svilupparsi della giurisprudenza nazionale, nei termini sopra indicati. Si è peraltro precisato che non ha rilievo il fatto che la gestione operi in perdita poichè la nozione di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c., va intesa in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all’attività economica organizzata ricollegabile ad un dato obiettivo, inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, dovendo essere, invece, escluso il suddetto carattere imprenditoriale dell’attività nel caso in cui essa sia svolta in modo gratuito (Cass. 14225/2015).
In altri termini, la circostanza di conseguire o meno un guadagno e di pareggiare effettivamente i costi con i proventi è irrilevante se l’attività si connota economicamente e cioè per il fatto che i beni ed i servizi siano offerti al pubblico con prezzi non simbolici, essendo sufficiente che vi sia l’idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio.
7.- Le superiori considerazioni consentono anche di definire il significato e la portata dei i criteri stabiliti dal D.M. 19 novembre 2012, n. 200, e dal D.M. 26 giugno 2014, che devono essere applicati in armonia con quanto stabilito dalla Commissione UE con decisione 19.12.2012, e secondo i principi posti dalla giurisprudenza nazionale.
Il testo di entrambi i decreti è chiaro nel ricordare che per beneficiare della esenzione in parola le attività devono essere svolte gratuitamente o dietro versamento di corrispettivo di importo simbolico.
In particolare, il D.M. 26 giugno 2014, e il relativo allegato, ribadendo la regola del corrispettivo simbolico, richiamano la decisione della Commissione Europea, laddove si stabilisce che per avere natura simbolica il compenso non deve essere commisurato al costo del servizio e che il limite della metà del prezzo medio può essere utilizzato solo per escludere il diritto all’esenzione, ma non implica a contrario che possano beneficiare dell’esenzione i fornitori di servizi che applicano un prezzo al di sotto di tale limite.
Pertanto la circostanza che la parte possa avere dichiarato un CM (corrispettivo medio) inferiore al CMS (costo medio per studente sopportato dallo Stato) non dà automaticamente diritto alla esenzione perchè non incide sul potere del Comune di eseguire un controllo e una valutazione (nei termini di cui sopra si è detto) nè sul potere del giudice di merito di operare un accertamento – che costituisce giudizio di fatto e quindi sottratto al controllo di legittimità- sulla effettiva sussistenza delle modalità non commerciali. Tanto è chiarito nello stesso allegato al DM 26.6.2014 laddove si precisa “sulla base degli anzidetti principi enucleati dalla decisione della Commissione Europea spetta quindi al comune in sede di verifica delle dichiarazioni e dei versamenti effettuati dagli enti non commerciali valutare la simbolicità dei corrispettivi praticati da ciascun ente commerciale non potendosi effettuare in astratto una definizione di corrispettivo simbolico perchè in tal modo si violerebbe la finalità perseguita dalla decisione della Commissione”.
La parte cade dunque in errore quando afferma che “nel DM in questione è stato previsto che l’esenzione in questione spetti ogni qualvolta i corrispettivi versati per il servizio da parte degli utenti siano pari o inferiori alla spesa annua per studente come individuato dal MIUR” poichè nessun automatismo – se non quello di escludere la applicabilità della esenzione- è legato al rapporto tra corrispettivo e costo medio.
Vero è che le istruzioni allegate al decreto del 2014 tendono a semplificare – come è per certi versi insito nella natura di istruzioni per la compilazione di un modello – la questione, ma in ogni caso, deve qui affermarsi la natura non vincolante delle predette istruzioni per la compilazione delle dichiarazioni IMU, posto che esse non possono derogare nè alla normativa primaria, da interpretarsi in senso conforme alla citata decisione della Commissione UE, nè alla stessa normativa secondaria alla quale accedono, laddove si ribadisce il criterio del corrispettivo simbolico.
8.- Ciò premesso si osserva che nella fattispecie la Commissione tributaria regionale, pur con una motivazione connotata da qualche incertezza stilistica e concettuale, poichè ha utilizzato i termini “induttiva” e “plausibile” in modo non del tutto coerente con le modalità dell’accertamento eseguito, ha tuttavia ha reso un giudizio in fatto, non rivedibile in questa sede, rilevando che le rette applicate negli studenti superano gli il 50% del costo del servizio sicchè si tratta di una attività commerciale non esente da imposta comunale.
Ne consegue il rigetto del ricorso principale.
9. – Con il primo motivo del ricorso incidentale il Comune lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6. Deduce che la sentenza è illegittima laddove ha confermato la non debenza delle sanzioni e nel ritenere che vi siano delle incertezze normative peraltro con una formula apodittica.
2.- Con il secondo motivo del ricorso incidentale il Comune lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, osservando che la pretesa disapplicazione delle sanzioni costituisce domanda nuova proposta per la prima volta in appello.
Il primo motivo è fondato.
Come questa Corte ha già precisato, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, sussiste incertezza normativa oggettiva, quando è ravvisabile una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita, non già ad un generico contribuente, nè a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata e neppure all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento a cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (Cass. n. 3108 del 01/02/2019; Cass. n. 32082 del 09/12/2019) deve inoltre escludersi, a tal fine, la rilevanza di eventuali contrasti interpretativi nella giurisprudenza di merito (Cass. n. 3431 del 06/02/2019).
Nella fattispecie il giudice d’appello ha confermato la decisione del giudice di primo grado genericamente parlando di approssimazione legislativa e di una rassegna giurisprudenziale versata in atti -di cui non esamina il contenuto- senza tener conto che alli epoca in cui sono stati emessi gli avvisi di accertamento (settembre /ottobre 2016) vi erano due norme (rispettivamente applicabili all’ICI ed all’IMU) sulla cui compatibilità con il diritto Eurounitario era già intervenuta la decisione della Commissione UE di cui sopra si è detto, che orienta la giurisprudenza ad essa successiva, la legislazione secondaria, ed anche l’attività impositiva degli enti locali.
Ne consegue, in accoglimento del primo motivo di ricorso incidentale assorbito il secondo la cassazione sul punto della sentenza impugnata e non essendo necessari accertamenti di fatto può decidersi nel merito rigettando l’originario ricorso del contribuente anche in punto di sanzioni.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo mentre in considerazione della complessiva evoluzione del processo e del progressivo consolidarsi della giurisprudenza, le spese del giudizio del doppio grado di merito possono essere compensate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale. Accoglie il ricorso incidentale cassa sul punto la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta l’originario ricorso del contribuente. Condanna la parte ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6.000,00 per compensi Euro 200,00 per spese non documentabili oltre spese forfetarie ed accessori di legge. Compensa le spese del doppio grado di merito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
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