CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 35853 depositata il 22 dicembre 2023
Lavoro – Licenziamento nullo – Intimazione orale – Reintegra – Indennità risarcitoria – Inammissibilità
Rilevato che
1. La Corte d’appello di Milano ha accolto il reclamo proposto da I.S. e, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la natura subordinata del rapporto di lavoro tra il predetto e la G.A. srl, a far data dal 2013, con inquadramento nel livello AC2 del c.c.n.l. Legno e Arredo Industria; ha dichiarato nullo il licenziamento intimato oralmente dalla società e condannato quest’ultima a reintegrare il lavoratore e a corrispondergli un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegra.
2. La Corte territoriale ha accertato la natura subordinata del rapporto di lavoro sulla base dei seguenti indici sussidiari emersi dalle prove documentali e testimoniali: l’assegnazione di una postazione di lavoro fissa, dotata di strumenti di lavoro forniti dall’impresa, come computer, telefono e scrivania; il versamento di un compenso fisso mensile; la continuità della prestazione e l’assenza di un rischio di impresa ed anche di una pur minima organizzazione imprenditoriale in capo al lavoratore. Ha ritenuto che l’interruzione ingiustificata del rapporto di lavoro, intimata dalla società senza forma scritta, integrasse gli estremi del licenziamento nullo, di cui all’articolo 18, primo comma, della legge n. 300 del 1970, modificato dalla legge n. 92 del 2012.
3. Avverso la sentenza la G.A. srl ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. I.S. ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., per avere la sentenza ritenuto sussistente un rapporto di lavoro subordinato tra le parti sebbene dalle deposizioni testimoniali fosse emerso che il collaboratore non era strutturalmente inserito nell’organizzazione della società, che non aveva alcun obbligo giuridico di presentarsi al lavoro, che non aveva un rapporto esclusivo con la società ma era libero di accettare incarichi da altri committenti, come peraltro dimostrato dalla scheda contabile prodotta sub doc. 2, da cui si evince che lo stesso ogni anno emetteva fatture non solo nei confronti di G.A. srl ma anche nei confronti di altri soggetti.
6. Con il secondo motivo è dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, per avere la sentenza d’appello considerato il rapporto di lavoro risolto su iniziativa della società. Si sostiene come non vi sia in atti alcun elemento atto a comprovare l’esistenza di un licenziamento e che nel luglio 2020 il rapporto di consulenza tra le parti è stato sospeso, per iniziativa della società, allo scopo di ridurre i costi, in un momento di grave difficoltà economica e finanziaria indotta dalla pandemia.
7. Con il terzo motivo è denunciato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, per avere la sentenza d’appello riconosciuto il diritto del lavoratore ad essere inquadrato nel livello AC2 del c.c.n.l. Legno e Arredo Industria. La ricorrente sostiene di avere contestato, sin dalla memoria di costituzione in primo grado ed anche nelle fasi e nei gradi successivi, la possibilità di inquadrare il lavoratore nel livello AC2 del c.c.n.l Legno e Arredo Industria; che su tale questione non è stata svolta attività istruttoria né in primo né in secondo grado; che, ai sensi dell’art. 15 del c.c.n.l., rientrano nel livello suddetto i lavoratori che hanno la responsabilità di altri dipendenti e che svolgono funzioni di coordinamento, guida e controllo nei confronti degli stessi, requisiti assenti nell’attività del signor S..
8. Preliminarmente, deve respingersi l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente per essere stata l’impugnazione proposta avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 1192/2022, anziché avverso la sentenza n. 138/2023, trattandosi, all’evidenza, di mero errore materiale. Il n. 1192/2022 è il numero di registro generale del procedimento poi definito con la sentenza (n. 138/2023) ora impugnata, sicché non può essersi dubbio alcuno, anche alla luce del contenuto del ricorso, sulla esatta individuazione del provvedimento impugnato.
9. I motivi di ricorso sono tutti inammissibili.
10. Il primo, poiché censura, non l’applicazione dei parametri normativi ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato, bensì la concreta valutazione delle risultanze istruttorie attraverso plurimi riferimenti alle prove documentali e testimoniali raccolte, così contrapponendo all’accertamento compiuto dai giudici di appello una diversa ricostruzione sulle concrete modalità di lavoro dello S..
11. Come costantemente affermato da questa Corte, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, cioè l’individuazione del parametro normativo, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali al fine della verifica di integrazione del parametro normativo, (cfr. Cass., n. 17009 del 2017; Cass., n. 9808 del 2011; Cass., n. 13448 del 2003; Cass., n. 8254 del 2002; Cass., n. 14664 del 2001; Cass., n. 5960 del 1999).
12. Il secondo motivo è inammissibile perché investe, non l’omesso esame di un fatto storico avente rilievo decisivo (v. Cass., S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014), bensì la qualificazione giuridica data dalla Corte di merito alla interruzione del rapporto di lavoro tra le parti e pone quindi una questione di diritto che esula dall’ambito del vizio denunciato. Peraltro, neppure è specificato se e in che termini tale questione sia stata posta nei gradi di merito, atteso che della stessa la sentenza d’appello non fa alcun cenno.
13. Anche il terzo motivo è inammissibile. La Corte d’appello ha ritenuto non contestato il contenuto delle mansioni svolte dallo S., che ha ricostruito come “mansioni di designer”, eseguite con “ampia discrezionalità tecnica…elaborando progetti, interfacciandosi con i clienti e curando la loro corretta realizzazione da parte del reparto falegnameria” (sentenza d’appello, pag.7, ultimo cpv. e pag. 8, primo cpv.). Sulla base di tale accertamento, i giudici di appello hanno inquadrato il lavoratore nel livello AC2 del CCNL Legno e Arredamento. La società ricorrente assume di avere contestato le allegazioni del lavoratore ma non indica in quali atti processuali, che non trascrive e non localizza, ciò sarebbe avvenuto. Peraltro, denuncia il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. senza in alcun modo indicare quale sarebbe il fatto storico decisivo che i giudici di appello avrebbero omesso di esaminare. Infine, critica l’inquadramento del lavoratore nel livello AC2 contestando non l’opera di sussunzione svolta dai giudici di merito ma la ricostruzione fattuale in ordine al ruolo del lavoratore, di guida e controllo nella esecuzione dei progetti da parte del reparto falegnameria.
14. Per le ragioni esposte, il ricorso risulta inammissibile.
15. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
16. Il controricorrente ha chiesto la condanna della società ai sensi dell’art. 96 c.p.c. “per aver agito in giudizio con mala fede e/o colpa grave” (controricorso, pag. 22, secondo cpv.). La domanda appare qualificabile ai sensi del primo comma dell’art. 96 c.p.c. che prevede: “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”. Come statuito da questa Corte, la responsabilità di cui al primo comma dell’art. 96 cit. esige la domanda della parte e la prova del danno, cioè l’allegazione di elementi di fatto necessari a identificare l’esistenza del danno e idonei a consentirne al giudice la liquidazione, anche se equitativa (Cass. n. 15175 del 2023; n. 21798 del 2015). La domanda del controricorrente non contiene alcun riferimento ad elementi utili ai fini della liquidazione, anche equitativa, del danno e ciò è ostativo di per sé all’accoglimento della stessa.
17. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
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