CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 6345 depositata il 2 marzo 2023
Lavoro – Rapporto di lavoro pubblico nel settore sanitario – Riconoscimento della qualifica di dirigente – Art. 2103 c.c. – Inapplicabilità di tale disposizione ai dirigenti del pubblico impiego privatizzato – Pagamento delle differenze retributive connesse allo svolgimento di mansioni superiori – Indennità c.d. sostitutiva – Rigetto
Svolgimento del processo
C.P., con ricorso presso il Tribunale di Locri, ha esposto di essere stato dirigente medico dell’ASL 9 di Locri, poi confluita nell’ASP di Reggio Calabria, e di essere in servizio presso l’ospedale di Locri, con posizione funzionale corrispondente all’ex primo livello.
Ha pure evidenziato di essere stato incaricato dal 15 ottobre 2000 al pensionamento, avvenuto il 1° luglio 2007, della direzione della struttura complessa di ostetricia, composta da otto strutture semplici, e di avere svolto pure funzioni amministrative.
Egli ha chiesto la condanna dell’ASP Reggio Calabria al riconoscimento della qualifica di dirigente di II livello (oggi dirigente di struttura complessa) e al pagamento delle differenze retributive connesse allo svolgimento di mansioni superiori, oltre che al trattamento di fine rapporto ed ai versamenti previdenziali ed assistenziali.
Il Tribunale di Locri, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 2798/2014, ha accolto la domanda del ricorrente limitatamente al pagamento delle differenze retributive.
L’ASP Reggio Calabria ha proposto appello che la Corte d’appello di Reggio Calabria, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 36/2017, ha in parte accolto, limitando la condanna della detta ASP al pagamento del solo trattamento di posizione maturato dal 3 febbraio 2004.
C.P. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di dieci motivi.
L’ASP Reggio Calabria si è difesa con controricorso.
C.P. ha depositato memorie.
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la corte territoriale si sarebbe pronunciata su un’eccezione di prescrizione non ritualmente sollevata dall’ASP Reggio Calabria.
Con il secondo motivo egli contesta la violazione degli artt. 409, 410, 412 bis e 413 c.p.c. in quanto la Corte d’appello di Reggio Calabria avrebbe errato nel non considerare il tentativo obbligatorio di conciliazione quale procedura idonea ad interrompere il decorso della prescrizione.
Con il terzo motivo C.P. si duole della violazione degli artt. 414 e 415 c.p.c. perché il giudice di appello avrebbe reputato atto idoneo ad interrompere la prescrizione non il deposito del ricorso davanti al Tribunale di Locri, ma la sua notificazione.
I tre motivi, che possono essere trattati congiuntamente, stante la stretta connessione, sono infondati.
In ordine alla prima censura, si osserva che la corte territoriale ha specificamente accertato la tempestività e specificità dell’eccezione di prescrizione sollevata in primo grado e reiterata come primo motivo di appello.
Pertanto, nessuna violazione dell’art. 112 c.p.c. è riscontrabile sul punto.
Quanto alla seconda doglianza, si rileva che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito come la convocazione avanti alla competente commissione di conciliazione, all’esito della richiesta di svolgimento del tentativo obbligatorio di conciliazione contenente la specificazione delle rivendicazioni avanzate, costituisca una vera e propria messa in mora, valutabile ex art. 2943, comma 4, c.c., ai fini dell’interruzione della prescrizione, contenendo l’esplicitazione della pretesa e manifestando l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti del soggetto passivo. L’accertamento di tale requisito oggettivo costituisce indagine di fatto riservata all’apprezzamento del giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici (Cass., Sez. L, n. 29419 del 13 novembre 2019).
Nella specie, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha reputato non dimostrata l’avvenuta notificazione dell’avviso della richiesta di tentativo di conciliazione e la conseguente convocazione per il suo esperimento e ha evidenziato che C.P. non aveva neppure prodotto il testo di tale richiesta.
Infine, per ciò che concerne il terzo motivo, si sottolinea che, per la giurisprudenza di legittimità, l’effetto interruttivo della prescrizione esige, per la propria produzione, che il debitore abbia conoscenza (legale, non necessariamente effettiva) dell’atto giudiziale o stragiudiziale del creditore;
esso, pertanto, in ipotesi di domanda proposta nelle forme del processo del lavoro, non si produce con il deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice adito, ma con la notificazione dell’atto al convenuto (Cass., Sez. L, n. 24031 del 12 ottobre 2017).
2) Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 345 e 356 c.p.c. perché la corte territoriale avrebbe rideterminato il credito a lui spettante sulla base di una nuova perizia mai richiesta da controparte, che non aveva mai contestato la regolarità dei conteggi effettuati.
La doglianza è infondata, atteso che non risulta sia stata disposta una nuova perizia in appello e che, comunque, nessuna disposizione preclude al giudice di appello di nominare un nuovo consulente tecnico. Peraltro, né le parti né la Corte d’appello di Reggio Calabria si sono discostate dai conteggi effettuati dal CTU.
3) Con il quinto motivo il ricorrente contesta la violazione dell’art. 2697 c.c. siccome la corte territoriale avrebbe riconosciuto in suo favore la sola parte fissa dell’indennità di posizione e non quella variabile sul presupposto che il medesimo ricorrente non avrebbe prodotto, come sarebbe stato suo onere, le “delibere dell’ASP dalle quali si evincesse l’ammontare totale del fondo a ciò destinato e la caratura dei vari incarichi”.
La doglianza è infondata, gravando sul lavoratore l’onere di dimostrare gli elementi costitutivi del quantum della pretesa vantata.
4) Con il sesto motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 36, comma 1, Cost., e del CCNL Area Dirigenza medico veterinaria del SSN dell’8 giugno 2000 perché la corte territoriale non avrebbe riconosciuto in suo favore le ulteriori indennità previste dalla contrattazione collettiva di categoria diverse dal trattamento di posizione, oltre alle differenze sul trattamento di fine rapporto, sul tredicesimo rateo e sui contributi ai fini dell’adeguamento pensionistico.
La doglianza è infondata.
Nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico nel settore sanitario, la dirigenza sanitaria è collocata in un ruolo unico, ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. n. 502 del 1992. Ne consegue che l’assegnazione al dirigente di funzioni superiori non consente l’applicazione dell’art. 2103 c.c., che non riguarda i dirigenti, né dà luogo a trattamento economico ulteriore, senza che possa essere invocato l’art. 36 Cost., in quanto, secondo la contrattazione collettiva, la retribuzione di posizione spettante al dirigente remunera in modo pieno ed a un livello soddisfacente il lavoro prestato (Cass., Sez. L, n. 24373 del 1° ottobre 2008).
Infatti, con riguardo alla dirigenza sanitaria, non trova applicazione l’art. 2103 c.c. con riferimento al mancato riconoscimento delle mansioni superiori, atteso che l’inapplicabilità di tale disposizione ai dirigenti del pubblico impiego privatizzato – che è sancita in via generale dall’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 e che trova origine nel fatto che la qualifica dirigenziale non esprime una posizione lavorativa caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l’idoneità professionale a ricoprire un incarico dirigenziale – è ribadita per la dirigenza sanitaria, inserita in un unico ruolo distinto per profili professionali e in un unico livello, dall’art. 15 ter del d.lgs. n. 502 del 1992 e dall’art. 28, comma 6, del CCNL 8 giugno 2000 (Cass., Sez. L, n. 91 del 4 gennaio 2019).
In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che la sostituzione nell’incarico di dirigente medico del servizio sanitario nazionale ai sensi dell’art. 18 del CCNL dirigenza medica e veterinaria dell’8 giugno 2000 non si configura come svolgimento di mansioni superiori poiché avviene nell’ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria, sicché non trova applicazione l’art. 2103 c.c. e al sostituto non spetta il trattamento accessorio del sostituito, ma solo la prevista indennità c.d. sostitutiva, senza che rilevi, in senso contrario, la prosecuzione dell’incarico oltre il termine di sei mesi (o di dodici se prorogato) per l’espletamento della procedura per la copertura del posto vacante, dovendosi considerare adeguatamente remunerativa l’indennità sostitutiva specificamente prevista dalla disciplina collettiva e, quindi, inapplicabile l’art. 36 Cost. (Cass., Sez. L, n. 21565 del 3 settembre 2018).
Nella specie, la corte territoriale ha accertato, con una valutazione di merito non più sindacabile nella presente sede, anche perché motivata, che il ricorrente, dirigente medico, aveva svolto in fatto le funzioni di direzione della struttura complessa in questione e, quindi, ha riconosciuto la retribuzione di posizione contrattuale, nella componente fissa in difetto di prova di quella variabile, dei dirigenti medici con rapporto di lavoro esclusivo prevista dalla vigente contrattazione collettiva di settore (la decisione di appello è passata in giudicato sul punto, in assenza di impugnazione della P.A.).
C.P. non poteva, però, pretendere somme ulteriori rispetto a quanto già accordatogli dal giudice del merito. Privo di valore è il richiamo, contenuto nelle memorie del ricorrente, a Cass., Sez. L, n. 25848 del 1° settembre 2022, trattandosi di decisione non applicabile alla dirigenza medica.
Ne deriva il rigetto del motivo.
5) Con il settimo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360, comma 5, c.p.c., perché la corte territoriale avrebbe errato nel quantificare l’importo a lui dovuto da parte controricorrente.
Egli contesta, quindi, l’esistenza di un vizio di motivazione, eventualmente sub specie di illogicità della stessa.
La doglianza è inammissibile, non essendo più prospettabile, ai sensi dell’art. 360, comma 5, c.p.c., un vizio attinente alla motivazione della sentenza di appello.
Peraltro, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha motivato compiutamente in ordine alla quantificazione del credito di C.P., limitandolo al solo trattamento di posizione maturato dal 3 febbraio 2004, con esclusione di ogni altra componente reclamata.
6) Con l’ottavo motivo il ricorrente lamenta la violazione della legge n. 69 del 2009 perché la corte territoriale avrebbe considerato rilevante, ai fini dell’instaurazione del giudizio, il momento del deposito del ricorso, mentre, quanto all’interruzione della prescrizione, avrebbe dato valore alla sua notificazione.
La doglianza è manifestamente infondata poiché confonde due profili, l’uno processuale e l’altro attinente al diritto di credito azionato, non comparabili fra loro.
7) Con il nono motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360, comma 5, c.p.c. siccome la corte territoriale non avrebbe riconosciuto gli interessi legali e la rivalutazione monetaria sui crediti da lui vantati.
La doglianza è manifestamente infondata, in quanto la Corte d’appello di Reggio Calabria ha semplicemente negato il cumulo dei detti interessi con la rivalutazione in applicazione dell’art. 22, comma 36, della legge n. 724 del 1994, che tale cumulo vieta con riferimento agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale dei dipendenti pubblici (Cass., Sez. L, n. 13624 del 2 luglio 2020).
8) Con il decimo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 96 c.p.c. perché la corte territoriale avrebbe errato nel revocare la condanna per lite temeraria inflitta dal primo giudice.
La doglianza è manifestamente infondata in quanto le pretese di C.P. sono state accolte solo in parte, con una notevole riduzione del credito a lui riconosciuto rispetto a quello azionato.
9) Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Ricorrono i presupposti indicati dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, modificato dalla legge n. 228 del 2012, per il c.d. raddoppio del contributo unificato a carico del ricorrente, se dovuto.
P.Q.M.
– rigetta il ricorso;
– condanna il ricorrente a rifondere alla parte controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 2.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%;
– dichiara che sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
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