CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 settembre 2018, n. 21562
Rapporto di lavoro part-time – Compenso per le ore lavorate in esubero – Computo dell’orario da retribuire – Violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto – Accertamento
Fatti di causa
1. Con sentenza in data 14 febbraio 2012 la Corte di Appello di Venezia ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale della stessa città, così accogliendo in parte l’appello principale proposto da M. M. che nel resto ha rigettato respingendo del pari l’appello incidentale della ATA H. s.p.a., ed ha condannato la società datrice al pagamento della somma di € 4.799,76 – oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione del credito al saldo.
2. La Corte territoriale, per quanto qui interessa, ha riconosciuto il diritto del ricorrente a percepire il compenso per le ore lavorate in esubero, rispetto al part time a trenta ore convenuto, prendendo a parametro l’orario di 37,5 ore di lavoro settimanale ed escludendo dal computo dell’orario da retribuire il tempo quotidianamente destinato alla pausa pranzo. Con riguardo alla richiesta risarcitoria connessa alla denunciata tardiva comunicazione dei turni di servizio, invece, ha confermato la decisione del Tribunale. Ha osservato la Corte che, diversamente da quanto affermato nel ricorso in appello, la sentenza impugnata aveva accertato che il lavoratore non aveva allegato le fonti normative o contrattuali dalle quali evincere l’esistenza dell’obbligo di tempestiva comunicazione dei turni. Inoltre non erano stati allegati fatti specifici nei quali ravvisare una violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. Neppure poi erano state individuate le specifiche ricadute patrimoniali o non patrimoniali che incidendo sulla vita lavorativa ed extra lavorativa avrebbero consentito di ravvisare il danno di cui era chiesto il risarcimento.
3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso M. M. affidato ad otto motivi ulteriormente illustrati con memoria ai sensi dell’art. 380 bis.l cod. proc. civ.. La ATA H. s.p.a. è rimasta intimata. Fissata per la decisione in camera di consiglio è stata poi disposta la trasmissione alla pubblica udienza ed il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
4. I motivi di ricorso che investono l’introduzione della pausa di trenta minuti e le conseguenti richieste economiche.
4.1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata, in relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 5 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione delle norme sul part-time e sulla pausa. Sostiene il ricorrente che erroneamente il giudice di appello ha omesso di computare nell’orario di lavoro prestato in regime di part-time – correttamente determinato con riguardo all’effettiva percentuale dell’orario svolto rispetto al tempo pieno di 37,5 ore settimanali – il tempo riferito alla pausa di trenta minuti, da osservare a metà dell’orario lavorativo, pausa introdotta unilateralmente dal datore di lavoro in un tempo successivo alla pattuizione del part time. Ad avviso del ricorrente, in mancanza di una clausola di flessibilità, il contratto con orario part time non può essere modificato unilateralmente dal datore di lavoro introducendo una pausa non retribuita che, peraltro, per la sua collocazione temporale, non consente al lavoratore di disporre liberamente del tempo e si risolve, pertanto, in una fase di inattività che deve essere retribuita al pari del tempo dedicato al lavoro. Rileva che la collocazione dell’orario è elemento essenziale del part time e la variazione deve essere concordata e non può costituire oggetto di determinazione unilaterale neppure con accordi sindacali. La circostanza che la lettera di comunicazione della modifica di orario recava la sottoscrizione del ricorrente per accettazione (peraltro con mera formula di stile ed in assenza delle oo.ss.) non rendeva perciò legittima la modifica e, deduce, alla nullità della clausola, consegue il diritto del lavoratore ad un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno. Osserva ancora che per i lavoratori a tempo pieno la pausa pranzo è inclusa nell’orario di lavoro e che, comparati gli orari di lavoro in concreto rispettati e le retribuzioni riconosciute, si evidenzia una differenza retributiva tra lavoro part-time e a tempo pieno del 25% a fronte di una differenza oraria solo del 9%. Ritiene allora che, nella sostanza, e per fatti concludenti, l’orario di lavoro del ricorrente si era trasformato da part-time a tempo pieno.
4.2. In via subordinata, per il caso di ritenuta legittimità della modifica apportata all’orario, poi, si duole dell’omessa valutazione da parte del giudice di appello della dedotta nullità dell’art. 14 punto 9 del c.c.n.I. di categoria. Sottolinea che, come già denunciato al giudice di appello, la disposizione collettiva omette di riportare l’art. 3 comma 9 del d.lgs. n. 61 del 2000 in base al quale qualsiasi variazione dell’orario part time necessita del consenso scritto del lavoratore che deve essere assistito dalle organizzazioni sindacali. Evidenzia poi che la disposizione omette di considerare che ove nel contratto individuale non sia stata prevista una clausola di elasticità nessuna variazione dell’orario sarebbe stata possibile e deduce che anche per tale profilo la disposizione collettiva avrebbe dovuto essere dichiarata nulla.
4.3. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata l’erroneità della sentenza che ha affermato che il rapporto di lavoro era sempre rimasto In regime di part-time. Osserva il ricorrente che la Corte di merito non ha considerato che per la durata di un anno ed un mese questo si era svolto, di fatto, con un orario corrispondente a quello del tempo pieno senza che tuttavia ne fosse conseguito alcun adeguamento della retribuzione.
4.4. Con il terzo motivo di ricorso il M. deduce che inserendo la pausa nell’orario di lavoro effettivo si aumenta l’orario giornaliero da retribuire che diviene di 6,5 ore corrispondenti all’86,6% dell’orario a tempo pieno in luogo del 75% dell’orario part time convenuto, sicché al ricorrente, accolto il primo motivo di ricorso, se rigettato il secondo, spetterebbe comunque la somma di € 10.246,77 richiesta.
5. I primi tre motivi di ricorso, da trattare congiuntamente perché investono sotto vari profili la medesima questione del computo nell’orario di lavoro della pausa di trenta minuti introdotta dal datore di lavoro nel contesto di un rapporto in regime di part time, sono in parte inammissibili ed in parte infondati e vanno rigettati.
5.1. Va precisato che nel caso in esame non si controverte della retribuzione del tempo che il lavoratore impiega all’interno dell’azienda per compiere attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli ma piuttosto di un tempo di “non lavoro” introdotto dal datore di lavoro nell’arco temporale dell’attività lavorativa giornaliera. In particolare si discute della legittimità dell’introduzione di tale pausa nell’ambito di un rapporto di lavoro in regime di part time e in assenza di clausole di flessibilità e, al riguardo, si assume che, ove ammessa la legittimità delle modifiche apportate, che comportano un allungamento dell’orario lavorativo, il lavoratore avrebbe diritto a percepire le differenze retributive maturate in relazione alla maggior durata della prestazione lavorativa.
5.2. Non vengono perciò in discussione i principi ripetutamente affermati da questa Corte in base ai quali, si è ritenuto che rientri nell’orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso dal lavoratore all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli atteso che ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, l’art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro (cfr. Cass. 29/05/2017 n. 13466) sicché per restare esente dall’obbligo retributivo il datore di lavoro deve provare che il lavoratore per lo svolgimento di tali attività connesse allo svolgimento della prestazione sia libero di autodeterminarsi ovvero non sia assoggettato al suo potere gerarchico (cfr. Cass. ult. cit.).
5.3. Nel caso in cui invece all’interno dell’orario di lavoro sia prevista una pausa nello svolgimento dell’attività lavorativa, in difetto di una previsione di legge o di contratto che ricomprenda tale tempo da dedicare alla pausa nell’orario di lavoro ( si pensi a titolo esemplificativo al d.lgs. n. 81 del 2008 che all’art. 175 prescrive che per i lavoratori addetti a videoterminali una pausa obbligatoria di quindici minuti ogni centoventi minuti di applicazione continuativa “considerata a tutti gli effetti parte integrante dell1 orario di lavoro”) è onere del lavoratore allegare e dimostrare che il tempo della pausa è connesso o collegato alla prestazione, è etero diretto, e non è lasciato, per la sua durata, nella disponibilità autonoma del lavoratore.
5.4. Tanto premesso va in primo luogo rilevato che inammissibilmente, per la prima volta davanti a questa Corte, è denunciato che la pausa sarebbe stata introdotta nell’ambito di un contratto in regime di orario part time al quale non erano state apposte clausole di flessibilità. Premesso che la sentenza non da atto dell’avvenuta denuncia di tali profili di nullità, era onere del ricorrente allegare e dimostrare che tale questione era stata tempestivamente sollevata sin dall’atto introduttivo del giudizio e in che termini era stata reiterata davanti al giudice di appello. Com’è noto infatti “in tema di ricorso per cassazione, il ricorrente che proponga una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di fatto – ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione.” (cfr. tra le altre recentemente Cass. 21/11/2017 n. 27568).
5.5. Analogamente inammissibili, perché i fatti non risultano tempestivamente sottoposti al giudice di merito, le deduzioni circa l’irrilevanza della firma apposta dal lavoratore alla comunicazione di modifica dell’orario e quelle con le quali viene adombrata una sostanziale parificazione dell’orario prestato, comprensivo della pausa, ad un orario a tempo pieno. Anche di tali circostanze, sulla base del ricorso, non vi è prova che siano state tempestivamente allegate in giudizio.
5.6. Per quanto concerne poi la denunciata nullità della clausola collettiva, l’art. 14 punto 9 del c.c.n.I. di settore, perché in violazione dell’art. 3 comma 9 del d.lgs. n. 61 del 2000 richiama nel suo contenuto l’art. 3 commi 7 e 8 del citato decreto legislativo e non anche il comma 9, va evidenziato che la censura non riproduce neppure per sintesi il disposto della norma collettiva denunciata rendendo così impossibile alla Corte di comprendere il contenuto e la portata del vizio denunciato.
5.7. Con riguardo alle reclamate differenze retributive, quale effetto di una pretesa conversione del rapporto in regime orario a tempo parziale in uno a tempo pieno va rilevato che la articolata censura formulata, con la quale ci si duole dell’interpretazione data dal giudice di appello alla domanda formulata dal lavoratore, diversamente da quanto riportato nella rubrica, pretende da questa Corte una complessiva rilettura dei fatti allegati, già valutati dal giudice di appello, secondo una ricostruzione più favorevole per il lavoratore. Nella sostanza, infatti, si ribadisce che se correttamente comparata la durata della prestazione resa dal lavoratore in part time, comprensiva della pausa giornaliera imposta, con quella dei lavoratori in servizio a tempo pieno si sarebbe dovuti pervenire alla conclusione che, nei fatti, vi era stata una trasformazione del rapporto da part time a full time, con conseguente diritto del lavoratore a percepire le differenze retributive rivendicate.
6. Con il quarto, il quinto ed il sesto motivo di ricorso si censura il capo della sentenza con il quale è stata rigettata la domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla ripetuta intempestiva comunicazione dei turni di servizio.
6.1. In particolare il quarto motivo denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., per avere la Corte ritenuto che il ricorrente non avesse allegato specifici elementi di fatto da cui desumere la violazione datoriale dei doveri di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. Al contrario, rileva il ricorrente di avere documentato sin dal primo grado che a decorrere dall’inizio del 2004 la società aveva comunicato i turni in modo variabile evidenziando che anche i testi escussi avevano confermato tali circostanze.
6.2. Con il quinto motivo di ricorso viene denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ. e degli artt. 32 e 36 Cost. evidenziando che, pur mancando una norma specifica che imponga al datore di lavoro di comunicare in anticipo i turni di servizio, in ogni caso tale regola di condotta deriva dalle disposizioni generali che impongono ai contraenti di comportarsi, nell’esecuzione del contratto, secondo buona fede e con correttezza. Sottolinea come tale comportamento sia gravemente lesivo di diritti anche costituzionalmente garantiti del lavoratore atteso che finisce per incidere sulla possibilità concreta di organizzare la sua vita extralavorativa.
6.3. Con l’ultimo motivo è denunciata l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza che ha ritenuto generiche le allegazioni volte ad individuare le specifiche ricadute patrimoniali ed extrapatrimoniali utili ai fini della liquidazione del risarcimento del danno. Sottolinea infatti il ricorrente che, essendo stata formulata anche una domanda di liquidazione equitativa del danno, il giudice avrebbe dovuto valutare se i tempi di comunicazione erano conformi o meno al giusto anticipo e valutarne equitativamente le conseguenze risarcitone. In ultimo, poi, rammenta che era stata formulata una ulteriore domanda di risarcimento del danno, da liquidarsi equitativamente in relazione a tutte le violazioni denunciate, sulla quale la sentenza aveva omesso ogni pronuncia, verosimilmente ritenendola assorbita dal rigetto delle altre domande, alla quale tuttavia il ricorrente non ha inteso rinunciare reiterandola.
7. Tanto premesso ritiene il Collegio che il quarto ed il quinto motivo di ricorso, da esaminare congiuntamente poiché investono sotto distinti profili la medesima statuizione, sono infondati e ne resta assorbito l’esame del sesto che attiene alle conseguenze risarcitone degli inadempimenti denunciati.
7.1. Va rilevato che, in linea di principio, nei rapporti di lavoro, siano essi a tempo pieno o a tempo parziale, il tempo libero ha una sua specifica importanza. In disparte le attività ricreative ed il dovuto riposo (art. 36 Cost.), infatti, assumono rilievo sociale, ove non sia prevista un’esclusiva, accanto alle attività extralavorative anche quelle relative ad un secondo lavoro. Ne consegue che se è evidentemente consentito al datore di lavoro, in relazione a sue specifiche esigenze, organizzare l’attività in turni di servizio, ciò nonostante, pur in assenza di disposizioni specifiche di legge o di contratto, questi devono essere portati a conoscenza dei lavoratori con un ragionevole anticipo così da consentire loro una programmazione del tempo di vita. Anche a prescindere dalla esistenza di norme di legge o di contratto che regolino dettagliatamente il lavoro in turni, tale obbligo nasce dalla necessità di eseguire con correttezza e buona fede le obbligazioni nascenti dal contratto. La buona fede nell’ esecuzione del contratto si sostanzia, tra l’altro, in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite principale unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (cfr. Cass. 04/03/2003 n. 3185) . La verifica in concreto della violazione di tali doveri di correttezza è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito che vi provvede sulla base delle allegazioni delle parti.
7.2. Tanto premesso va rilevato che dagli esposti principi non è possibile trarre, come suggerisce il ricorrente, una regola rigida derivante da una applicazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto (comunicazione con non meno di quindici giorni di anticipo) non potendosi escludere che alla particolare connotazione dell’attività consegua una necessità di adattare i turni lavorativi con un certo grado di elasticità. Conseguentemente grava sul lavoratore che si dolga della irregolarità nella comunicazione dei turni assumendo di aver subito un pregiudizio da tale condotta allegare e dimostrare non solo l’intempestività della comunicazione ma anche la concreta incidenza di tale condotta.
7.3. Nella specie la Corte territoriale ha dato atto del fatto che, pur valutato il comportamento alla luce dei principi di correttezza e buona fede richiamati, tuttavia non era stato allegato alcun fatto specifico dal quale desumere la denunciata violazione. Così facendo il giudice di appello ha dato atto di aver esaminato le allegazioni ritenendole inadeguate. La censura qui mossa alla sentenza pretende allora da questa Corte una diversa valutazione dei fatti, una più favorevole ricostruzione delle emergenze istruttorie che pur con motivazione sintetica risultano essere state prese in esame dalla Corte territoriale che si è fatta carico di verificare se erano stati allegati specifici elementi di fatto da cui desumere sia la condotta non rispettosa dei canoni di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto sia le ricaduta patrimoniali e non patrimoniali di tale condotta.
7.4. Ne consegue che, esclusa la violazione delle disposizioni di legge denunciate, la Corte di merito non è neppure incorsa nel vizio motivazionale oggetto del quarto motivo di ricorso. Il motivo denunzia un preteso vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. ma in realtà pone un problema di erronea ricostruzione di una serie di circostanze di fatto senza precisarne la decisività sicché si è fuori dall’ambito del sindacato di legittimità ai sensi della citata disposizione (cfr. Cass. 31/07/2013 n. 18368, 30/03/2007 n. 7972).
8. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato. Non occorre provvedere sulle spese del giudizio di legittimità stante la mancata costituzione della società rimasta intimata. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R..
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