CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 maggio 2018, n. 10636
Imposte indirette – IVA – Accertamento – Riscossione – Spese di pubblicità e rappresentanza – Detraibilità
Fatti di causa
La GIVI H. s.p.a. impugnò un avviso d’accertamento con cui fu recuperata a tassazione IVA per il 2004, per indebita detrazione effettuata, da un lato, in relazione a taluni costi contabilizzati quali spese di pubblicità e riqualificati come spese di rappresentanza e, dall’altro, ad altri costi ritenuti non inerenti all’attività d’impresa.
La Ctp respinse il ricorso.
La società propose appello, respinto dalla Ctr.
La GIVi ha proposto ricorso per cassazione, affidato a otto motivi.
Non è costituita l’Agenzia delle entrate cui il ricorso è stato regolarmente notificato.
La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, è stata denunziata la nullità della sentenza per violazione del principio del contraddittorio (art. 101 c.p.c.), in relazione all’art. 360, 1°c., n.4, c.p.c., in quanto la Ctr avrebbe deciso sulla base del principio dell’abuso del diritto che non era mai stato oggetto di contestazione al contribuente.
Con il secondo motivo, è stata denunziata la violazione e falsa applicazione degli artt. 19, l°c., e 19bis.l, l°c., del d.p.r. n.633/72, 53 Cost., avendo la Ctr deciso in applicazione del diverso principio dell’abuso del diritto.
Con il terzo motivo, è stata denunziata la violazione e falsa applicazione del suddetto art. 19bis.1, 1°c., lett.h, avendo la Ctr ritenuto spese di rappresentanza, e non di pubblicità, i costi relativi a donazioni di capi d’abbigliamento, trattandosi di spese di sponsorizzazione, richiamando il nome della ditta o del prodotto, mentre il messaggio pubblicitario è diretto a suggestionare o persuadere il consumatore.
La ricorrente ha criticato la sentenza impugnata in quanto i costi in questione erano diretti a pubblicizzare i beni posti in vendita attraverso il loro abbinamento con noti personaggi dello spettacolo.
Con il quarto motivo, è stata denunziata la violazione e falsa applicazione del suddetto art. 19,l°c., avendo la Ctr ritenuto non detraibili spese sostenute da D. V. (estetiche e per servizi di sicurezza) in quanto di carattere personale non aventi inerenza con l’attività d’impresa (anche considerando che la stessa lavora per la società, percependone un cospicuo compenso).
La ricorrente ha censurato la sentenza, adducendo che le spese in questione erano inerenti all’attività d’impresa, considerato il ruolo di D. V. nell’ambito societario, volto all’attività creativa, di relazioni e di testimonial del marchio V., ruolo che richiede un’adeguata tutela personale.
Con il quinto motivo, è stata dedotta la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia sulla domanda subordinata formulata in ordine ai costi di cui al precedente motivo.
Al riguardo, la ricorrente ha invocato un contratto di consulenza stilistica stipulato tra D. V. e la Givi H. in forza del quale quest’ultima si obbligò a corrisponderle un rimborso annuo forfettario a copertura delle spese per truccatori, parrucchieri, estetisti, etc.; pertanto, la ripresa a tassazione è ritenuta illegittima perché relativa ad una somma pari al rimborso-spese dovuto alla V. in esecuzione del suddetto contratto.
Con il sesto motivo, sono stati dedotti la nullità della sentenza, per omessa pronuncia circa la detrazione di spese di locazione immobiliare sostenute per collaboratori della società, nonché il vizio di motivazione circa il fatto decisivo consistente nella medesima suddetta questione della detrazione delle spese di locazione.
Con il settimo motivo, è stata denunziata la violazione e falsa applicazione dell’art. 8 del d.lgs. n.546/92, poiché la Ctr non ha escluso l’applicazione delle sanzioni richiamando l’abuso del diritto riscontrato, stante l’obiettiva incertezza sulla portata applicativa delle norme poste a base della rettifica dell’ufficio.
Con l’ottavo motivo, è stata dedotta l’insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo, non avendo la Ctr adeguatamente esposto i motivi per cui ha ritenuto di non disapplicare le sanzioni.
I primi due motivi- da esaminare congiuntamente poiché tra loro connessi- sono inammissibili perché non decisivi, nel senso che la Ctr ha pronunciato con una premessa sull’abuso del diritto irrilevante ai fini della decisione della causa in quanto le motivazioni sui singoli capi d’appello riguardano questioni non riferibili a tale fattispecie.
II terzo motivo è inammissibile poiché tendente al riesame del merito,in ordine alla qualificazione delle spese sostenute per l’acquisto dei capi d’abbigliamento se di rappresentanza o di pubblicità; il motivo è comunque infondato, in applicazione del principio affermato dalla Corte per cui in tema d’irpeg, ai sensi dell’art. 74 (ora 108), comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, i costi sostenuti per la cessione gratuita a v.i.p. dei capi d’abbigliamento griffati di produzione del contribuente, senza alcun obbligo giuridico d’indossarli in manifestazioni pubbliche, integrano spese di rappresentanza, solo parzialmente deducibili e non di pubblicità o propaganda, interamente deducibili, mancando un collegamento obiettivo ed immediato con la promozione di un prodotto o di una produzione e con l’aspettativa diretta di un maggior ricavo (Cass., n. 8121/16, relativa a una causa promossa dalla medesima ricorrente Givi H. s.p.a.).
Al riguardo, secondo costante orientamento della Corte, costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta. In definitiva, si ritiene che debbano farsi rientrare nelle spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vadano, invece, considerate spese di pubblicità o propaganda quelle altre sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali (Cass. 7803/2000). Il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, può farsi coincidere con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale (Cass., n. 21977/15; n. 3433/12).
Ora, la cessione gratuita a v.i.p. di capi d’abbigliamento griffati, pacificamente effettuata al di fuori di ogni patto contrattuale e di ogni consequenziale obbligo giuridico d’indossarli in manifestazioni pubbliche, resta sicuramente estraneo alla fattispecie legale della pubblicità o propaganda di cui all’art. 74 TUIR mancando l’obiettività di un collegamento immediato con la promozione di un prodotto o di una produzione e con l’aspettativa diretta di un maggior ricavo. Inoltre, non solo manca ogni dovere – se non quello morale – d’indossare gli indumenti griffati in situazioni di pubblica visibilità, ma, a ben vedere, può mancare persino l’immediata percezione e quindi il diretto riferimento del capo alla griffe per il grande pubblico, se il tutto non sia accompagnato da ben diverso e ficcante messaggio integrativo.
Ciò vale in disparte la gratuità stessa della cessione che per taluna giurisprudenza di legittimità assume connotazione rilevante come spesa di mera rappresentanza (Cass. 10910/2015).
Nel caso concreto, non è stato dimostrato il collegamento obiettivo ed immediato della spesa sostenuta per i capi d’abbigliamento con la promozione di un prodotto e con l’aspettativa di un maggior ricavo, in quanto la parte ricorrente si è limitata a rilevare che i capi d’abbigliamento donati ai personaggi dello spettacolo erano pubblicizzati in riviste del settore e visionati alle sfilate dai principali compratori. Ciò, però, non implica che i costi in questione siano funzionali alla pubblicità.
Il quarto motivo è inammissibile in quanto tende al riesame dei fatti (se D. V. avesse sostenuto le spese in questione a titolo personale o in funzione dell’attività sociale); in ogni caso, la parte ricorrente avrebbe dovuto dimostrare il ruolo di D. V. all’interno della società.
Il quinto motivo è del pari inammissibile, per difetto di autosufficienza, non avendo la ricorrente riprodotto il testo del contratto richiamato, essendo dunque preclusa la verifica della lamentata omessa pronuncia sulla domanda subordinata (fondata appunto sul predetto contratto di consulenza stilistica).
Il motivo è comunque infondato, in quanto la Ctp, seppure in forma succinta, ha pronunciato sul capo d’impugnazione in questione ritenendo che anche le spese per i servizi di trucco e cura dell’immagine siano spese di sponsorizzazione e non di pubblicità.
Il sesto motivo è fondato.
La ricorrente ha dedotto che la Ctr non ha pronunciato sul capo dell’appello – riprodotto nel ricorso- concernente la legittimità della detrazione delle spese inerenti ai costi delle locazioni sostenute per i collaboratori; la sentenza non ne fa alcuna menzione, emergendo dunque l’omessa pronuncia su tale motivo d’appello.
Gli ultimi due motivi- da trattare congiuntamente poiché tra loro connessi- sono infondati.
Il settimo motivo non può essere accolto. Occorre premettere che non può essere condiviso l’assunto della Ctr secondo cui la ricorrenza dei presupposti normativi dell’esimente, di cui all’art. 8 del d.lgs. n.546/92, era da escludere richiamando l’orientamento di questa Corte in tema di abuso di diritto, in quanto tale richiamo non è pertinente alla questione concreta.
Tuttavia, la parte ricorrente ha genericamente lamentato la violazione del detto art. 8, senza indicare gli elementi da cui desumere la portata dell’incertezza interpretativa delle norme sulle questioni dapprima esaminate.
Le argomentazioni espresse in precedenza inducono, comunque, ad escludere che sulle questioni oggetto dei vari motivi formulati sussista una oggettiva, inevitabile incertezza circa il contenuto delle norme tributarie applicate.
Al riguardo, giova richiamare l’orientamento della Corte secondo cui, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, alla stregua dell’art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 212 del 2000 e dell’art. 8 del d.lgs. n. 546 del 1992, postula una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già ad un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, né all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (Cass., n. 23845/16).
L’ottavo motivo è parimenti infondato, poiché la Ctr ha comunque esposto chiaramente la portata applicativa delle norme tributarie applicate, in ordine alla corretta qualificazione delle spese di rappresentanza, escludendo ogni profilo di oggettiva incertezza che avrebbe potuto legittimare l’applicazione dell’esimente di cui al predetto art. 8.
Pertanto, la sentenza impugnata va cassata, limitatamente al sesto motivo, con rinvio alla Ctr, anche per le spese.
P.Q.M.
Accoglie il sesto motivo del ricorso e rigetta i restanti.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Ctr della Lombardia, in diversa composizione, anche per le spese.
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