CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 aprile 2018, n. 8972

Cartella esattoriale – Contributi omessi – Benefici ex legge 223/1991 per l’assunzione di lavoratori dalle liste di mobilità di lavoratori – Contratto di affitto di azienda – Obbligo di riassunzione dei lavoratori già licenziati che lavoravano presso la stessa azienda fallita – Articolo 15 della Legge n. 264/1949 – Interpretazione – Diritto di precedenza esteso ai lavoratori licenziati per cessazione di attività – Correlato obbligo di assunzione gravante anche sull’imprenditore succeduto nella medesima attività

Fatti di causa

La Corte di Appello di Brescia, con sentenza n. 239/2011, rigettava parzialmente l’appello proposto da M.T. srl avverso la sentenza con cui era stata respinta l’opposizione a cartella esattoriale con la quale le era stato intimato di pagare l’importo di € 26.454,17 a titolo di contributi omessi per aver illegittimamente usufruito dei benefici ex lege 223 del 1991 per l’assunzione di lavoratori dalle liste di mobilità di lavoratori, già licenziati il 9.8.2003 dal curatore fallimentare e poi riassunti in data 1.9.2003 a seguito di contratto di affitto di azienda del 15.11.2002, relativamente alle imprese S. Srl e M. srl dichiarate fallite il 9.8.2002.

A fondamento della sentenza la Corte territoriale affermava che, alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, i benefici contributivi ex I. 223/91 non potessero spettare alla ricorrente essendo necessario che fosse accertata la cessazione effettiva, totale o parziale, dell’attività dell’azienda di provenienza e l’assunzione presso altra azienda (che non rientri fra quelli di cui al comma quattro bis) per esigenze economiche proprie di quest’ultima. In contrario non poteva invocarsi l’articolo 47, comma 5 della legge n. 428/90 che ha per oggetto esclusivamente la disciplina della cessione ex lege dei rapporti di lavoro; e non si riferisce mai ai rapporti che intercorrono con gli enti previdenziali o alla materia dei benefici contributivi (Cass.17071/2007). Inoltre, i benefici in questione non erano applicabili ai datori di lavoro obbligati alla riassunzione ex comma 1 dello stesso art. 8 ed ex articolo 15 della legge n. 264/1949, poiché quest’ultima disposizione doveva essere interpretata nel senso che hanno diritto alla riassunzione i lavoratori che erano occupati prima del licenziamento presso la medesima azienda, intesa in senso oggettivo, che procede a nuove assunzioni. La Corte riteneva altresì che il curatore del fallimento non avrebbe potuto, ai sensi dell’articolo 3, comma 3 della legge numero 223/91 nemmeno collocare in mobilità i lavoratori, essendo dimostrato dall’accordo sindacale intervenuto nel corso della procedura fallimentare che la M.T. srl li avrebbe occupati nelle stesse aziende prese in affitto.

Infine, anche a voler escludere che vi fosse stata una preordinazione dell’intera operazione per poter fruire del beneficio contributivo, sussisteva – a giudizio della  Corte – il requisito della assunzione presso la medesima azienda nel termine di sei mesi dal licenziamento poiché i lavoratori erano stati assunti dalle liste di mobilità l’1 settembre 2003. Da ciò la conseguenza della legittimità del disconoscimento da parte dell’INPS del diritto ai benefici.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso la M.T. srl domandandone la cassazione per quattro motivi; mentre l’INPS ha resistito con controricorso.

Ragioni della decisione

1.- Con il primo motivo il ricorso denuncia nullità della sentenza in relazione all’articolo 112 c.p.c. Violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’articolo 24, comma 3 decreto legislativo 46/1999. Omessa motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio vero circa l’avvenuta o meno impugnazione da parte di M.T. dell’accertamento effettuato dall’Inps. A giudizio della ricorrente, avendo essa impugnato una prima cartella esattoriale, davanti al giudice competente con domanda contenente anche l’accertamento negativo delle pretese formulate dall’Istituto con lo stesso verbale ispettivo del 10 maggio 2004 e con il successivo provvedimento 25 settembre 2004 dai quali scaturiva anche la pretesa contenuta nella cartella in oggetto, ne scaturiva la nullità del ruolo e della cartella; con la conseguente nullità della sentenza d’appello per l’omessa pronuncia sulla relativa questione o in alternativa la violazione dell’articolo 24, comma 3 d.lgs. n. 46 del 1999 che inibisce l’iscrizione a ruolo nel caso in cui l’accertamento effettuato dall’ufficio sia impugnato davanti all’autorità giudiziaria.

Il motivo è infondato. In primo luogo perché non risulta trascritto quando e come la ricorrente abbia sollevato, nei precedenti gradi di giudizio, la medesima questione di cui la sentenza impugnata non si occupa. In secondo luogo, perché il divieto di iscrizione a ruolo previsto dall’art. 24, comma 3 d.lgs. 46/1999 nasce solo dalla impugnazione del preliminare verbale di accertamento e non dalla domanda di accertamento negativo contenuta in un’opposizione avverso una prima cartella esattoriale scaturente da un medesimo verbale afferente ad un più ampio periodo.

Pertanto, quand’anche vi fosse stata omissione di pronuncia, il contenuto dell’eccezione formulata dalla ricorrente si rivelerebbe infondato e quindi inidoneo a condurre alla cassazione della sentenza, essendo in tal caso inutile il ritorno della causa alla fase di merito, anche alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. (Cass. n.5729/2012).

2.- Col secondo motivo viene sollevata la violazione e falsa applicazione degli articoli 8, comma 1, 4 e 4bis della legge n. 223/1991; articolo 15 comma 6 della legge numero 264 del 1949; articoli 2555, 2561 e 2562 c.c.; articolo 2112 c.c. e 47, comma 5 legge n. 428 del 1990; artt. 90 e 105 Regio decreto n. 267/1942; articoli 3 commi 2 e 3 legge numero 223/91; articolo 8 comma 4 legge n. 160/1988. Omessa motivazione circa fatto controverso decisivo per il giudizio ovvero circa il fatto che quando M.T. ha assunto dalla mobilità i dipendenti ex S. e M., i rispettivi fallimenti non erano più proprietari e comunque non erano più gestori da più di sei mesi delle aziende delle Società fallite, perché le avevano già affittate a M.T. da quasi un anno. Osservava inoltre come la tesi espressa dalla corte d’appello fosse fondata sul presupposto che la vita economica dell’azienda, deputata a ricevere sempre in ogni caso e comunque la prestazione di lavoro dei dipendenti, potesse svolgersi indipendentemente dall’imprenditore che la organizza. Sosteneva che l’acquisto dell’azienda dell’imprenditore fallito, da parte di un nuovo imprenditore azienda, che in assenza di esercizio provvisorio disposto dal tribunale fallimentare è cessata definitivamente ed i cui dipendenti sono in CIGS concorsuale, prodromica alla loro messa in mobilità sarebbe così caratterizzato dalla cesura di tutti i rapporti giuridici preesistenti; perchè così prevede la regola generale della legge fallimentare ed anche dei rapporti di lavoro ai sensi dell’articolo 47 comma 5° della legge 428/1990.

2.1. Il motivo è infondato. Come risulta da orientamento consolidato, nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi che i benefici degli sgravi per l’assunzione dalle liste di mobilità non possano spettare al datore di lavoro tenuto ad un obbligo di riassunzione nei confronti dei lavoratori già licenziati che lavoravano presso la stessa azienda. E la regola vale, in base alla legge, in senso oggettivo ovvero non solo per chi licenzia, ma anche per chi subentra nella gestione dell’azienda. Sia che si tratti dell’obbligo di riassunzione nei sei mesi dal licenziamento, previsto dall’art. 8, comma 1 l. 223/1991 che richiama l’articolo 15, comma 6 della legge 264/1949; sia che si tratti dell’analogo obbligo stabilito “entro un anno dalla data del trasferimento” anche per chi rileva aziende in crisi, in base all’art. 47, comma 6 della legge n. 428/1998.

2.2. Si tratta di orientamento risalente, già affermato con sentenza n. 9785 del 18/06/2003 nella quale era stato chiarito che “Il sesto comma dell’art. 15 della legge n. 264 del 1949, il quale prevede che i lavoratori licenziati da un’azienda per riduzione di personale hanno la precedenza nella riassunzione presso la medesima azienda entro sei mesi, richiamato dall’art. 8, commi primo e quarto, della legge n. 223 del 1991, si interpreta nel senso che il diritto di precedenza deve essere riconosciuto anche ai lavoratori licenziati per cessazione di attività e che il correlativo obbligo di assunzione grava non solo sull’imprenditore che abbia proceduto al licenziamento ma anche sull’imprenditore che gli sia succeduto nella medesima attività aziendale, sicché deve escludersi che possa usufruire dei benefici contributivi previsti dal citato art. 8, comma quarto, il datore di lavoro che proceda alla assunzione di lavoratori che hanno il diritto di precedenza nella riassunzione in quella azienda.” Più di recente tale orientamento è stato ribadito con la sentenza Cass. 10428/2017 con la quale è stato precisato che “non rileva che la cessione sia avvenuta nell’ambito di una procedura fallimentare, in quanto il fallimento della società  non determina, di per sé, il venir meno del bene giuridico “azienda” inteso come complesso di elementi materiali e giuridici organizzati al fine dell’esercizio dell’impresa”.

2.3. Inoltre, va evidenziato che una pronuncia dello stesso tenore è stata già adottata da codesta Corte di Cassazione con la sentenza n. 18402/2016, resa nei confronti della stessa società odierna ricorrente per una precedente quota di contributi omessi nell’ambito del medesimo contratto di affitto di azienda del 15.11.2002. Essendosi pure ivi messo correttamente in evidenza che la M.T. fosse subentrata nel medesimo complesso produttivo e che l’assunzione dei lavoratori fosse avvenuta in data 1.9.2003 ovvero a meno di un anno dal contratto di affitto relativo alle aziende fallite datato 15.11.2002. Ed inoltre, può aggiungersi, a meno di sei mesi dal loro licenziamento avvenuto il 9.8.2003. Talchè del tutto correttamente è stato escluso il diritto agli sgravi ai sensi dell’art. 8, 4 comma I. 223/1991 il quale li riconosce soltanto a chi assume ” senza esservi tenuto”.

2.4. Può essere anche chiarito come l’aporia, esistente nell’ottica dell’immediato rilancio occupazionale, discendente dal negare lo sgravio, solo per un certo periodo di tempo (pari a quello di durata dell’obbligo di assunzione), anche ad un imprenditore effettivamente terzo, che nulla abbia a vedere con l’impresa precedente (ai sensi del comma 4bis dell’art. 8 della legge 223/1991 che da rilievo all’aspetto soggettivo della frode), e che rilevi l’azienda da impresa effettivamente decotta, sia conseguente ad una scelta discrezionale del legislatore, ispirata allo scopo di salvaguardare – anche nell’ambito della procedura fallimentare – la regolare circolazione delle aziende, rispetto a possibili manovre frodatorie perseguite con il licenziamento di lavoratori e la loro successiva riassunzione a più buon mercato, ed il cui costo verrebbe a pesare sostanzialmente sulla pubblica finanza.

3.- Con il terzo motivo si deduce la violazione degli articoli 112 c.p.c.; 116, comma otto lettera a ) e b) legge numero 388/2000 in relazione al corretto calcolo delle somme aggiuntive, contestate in primo grado ed in appello, nella misura ex art. 116 lett. a ) I. n. 388/2001 applicata in cartella e che la Corte territoriale senza che vi fosse una domanda dell’Inps aveva ricondotto alla più grave ipotesi di evasione di cui alla lett. b).

3.1. Il motivo è infondato nei limiti di seguito indicati. Anzitutto perché la sentenza della Corte d’Appello risponde in realtà anche alla doglianza sollevata in primo grado ed in appello sotto il profilo del quantum, laddove rilevava che l’ammontare delle sanzioni fosse il risultato di un’operazione matematica e che non fosse perciò sufficiente una mera contestazione del dovuto, che si limitasse genericamente a pretendere dall’Inps un conteggio analitico, senza allegare alcun errore di calcolo.

3.2. Dopodiché è anche vero che la stessa Corte d’appello abbia affermato che le sanzioni da applicare fossero riconducibili alla fattispecie dell’evasione di cui alla lettera b) dell’articolo 116, comma 8 della legge numero 388/2000. Ma in realtà tale affermazione, viziata in mancanza di una qualsiasi domanda, non si è tradotta in alcuna conseguenza di rilievo, essendosi la stessa Corte limitata a respingere l’opposizione ed a confermare la cartella anche in relazione alle sanzioni ed al loro conteggio che, come si afferma ripetutamente nel presente ricorso, erano state computate nella cartella proprio con riferimento all’ipotesi di cui alla lettera a).

4.- Va affermato, in conclusione, che la sentenza di merito si sottrae alle censure esposte col ricorso, il quale deve essere quindi rigettato. Le spese seguono la soccombenza nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in complessive € 3200 di cui € 3000 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali ed oneri accessori di legge.