CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 giugno 2018, n. 15083
Rapporto di lavoro – Subordinazione “attenuata” – Accertamento – Criteri
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 7554/2012, depositata l’11 ottobre 2012, la Corte di appello di Roma rigettava il gravame di G.P. e confermava la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Roma ne aveva respinto la domanda volta all’accertamento, nei confronti di E.I. s.r.l., della natura subordinata del rapporto, con qualifica di quadro CCNL Terziario, intercorso fra le parti dal 2002 al 2008.
2. La Corte di appello osservava a sostegno della propria decisione come, pur in presenza di una subordinazione “attenuata”, quale configurabile in un rapporto caratterizzato da una particolare qualificazione professionale, non fosse stata dimostrata dall’appellante la necessaria sussistenza di indici o elementi fattuali, riscontrabili nel concreto svolgimento del rapporto medesimo, che risultassero incompatibili con la qualificazione contrattuale attribuita dalle parti (e cioè di contratto di collaborazione professionale), stante anche la inidoneità al riguardo delle allegazioni e dei capitoli di prova dedotti con il ricorso di primo grado.
3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la P. con due motivi, assistiti da memoria.
4. La società ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con i motivi proposti la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dei principi in tema di discrimine tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo, degli artt. 2094, 2222, 2697, 2727-2729 cod. civ. e degli artt. 115, 116, 183 e 187 cod. proc. civ., nonché omesso esame di fatti decisivi della controversia (art. 360 n. 3 e n. 5 cod. proc. civ.): osserva che la Corte di appello, con la sentenza impugnata, non ha fatto seguire, al richiamo degli esiti giurisprudenziali in materia, un adeguato e corretto esame degli elementi di fatto portati alla sua attenzione, elementi che avrebbero consentito di qualificare il rapporto come subordinato, in contrasto con la denominazione formale allo stesso attribuita nel contratto stipulato dalle parti, in particolare trascurando di valutare il continuo assoggettamento della ricorrente agli ordini e ai controlli dell’amministratore delegato e degli altri soggetti in posizione sovraordinata all’interno dell’organizzazione aziendale e la continua messa a disposizione delle sue energie lavorative a favore dell’impresa, anche per lo svolgimento di compiti e di attività estranei all’oggetto del contratto, oltre alla sussistenza, nella fattispecie concreta, degli indici sintomatici della subordinazione, come individuati dalla giurisprudenza e dalla dottrina.
2. I motivi cosi proposti, da esaminarsi congiuntamente (e peraltro già oggetto, nella parte espositiva del ricorso, di trattazione unitaria), non possono trovare accoglimento.
3. Quanto alla denunciata violazione di norme di diritto, si deve premettere che, secondo consolidato orientamento, il vizio di cui all’art. 360 n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366, 1° co., n. 4, cod. proc. civ., deve essere, a pena di inammissibilità, dedotto non soltanto con l’indicazione delle norme di diritto che si reputano violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto, contenute nella sentenza impugnata, che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla Corte di legittimità di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunciata violazione: cfr., fra le numerose conformi, Cass. n. 16038/2013 (ord.).
4. Nella specie, la ricorrente non ha enucleato le affermazioni in diritto della sentenza impugnata, che risulterebbero in contrasto con le norme richiamate, né le ha discusse sotto il profilo di un eventuale contrasto con tali norme e con l’interpretazione datane dalla giurisprudenza o dalla dottrina, secondo il canone precisato da questa Corte per la corretta formulazione del motivo, sembrando anzi condividere la cornice giuridica entro la quale il giudice di appello si è mosso nell’analisi e nella ricostruzione della fattispecie concreta (cfr. ricorso, p. 69).
5. Ne consegue l’inammissibilità del motivo in esame, dovendosi comunque rilevare che la sentenza impugnata ha fatto applicazione di principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte.
5.1. In particolare, per il caso di una prestazione caratterizzata da un’accentuata o peculiare professionalità, come la Corte di appello ha accertato essere stata quella dedotta in giudizio, è stato ripetutamente affermato che il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari, che il giudice deve individuare in concreto – con accertamento di fatto incensurabile in cassazione, se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato – accordando prevalenza ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento del rapporto (Cass. n. 5886/2012; conforme Cass. n. 4770/2003).
5.2. E’ stato inoltre precisato che quando il vincolo della subordinazione – che costituisce il principale elemento distintivo fra lavoro subordinato ed autonomo – risulti attenuato, a causa del concreto atteggiarsi del rapporto, occorre far riferimento ai criteri, sussidiari e complementari, da valutarsi peraltro nell’ambito di un apprezzamento globale della vicenda (cfr. già Cass. n. 4515/1987 e successive numerose conformi).
5.3. E’ altresì consolidato e risalente il principio, espressamente richiamato in sentenza dalla Corte territoriale, per il quale il vincolo di dipendenza caratteristico del rapporto di lavoro subordinato deve essere ravvisato nella permanente disponibilità del lavoratore ad eseguire le istruzioni del datore di lavoro (Cass. n. 8260/1995).
6. Quanto al dedotto vizio di motivazione, si deve rilevare che esso non si conforma al modello normativo del nuovo art. 360 n. 5 cod. proc. civ., quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella I. 7 agosto 2012, n. 134, pur a fronte di sentenza depositata l’11 ottobre 2012 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore della novella legislativa.
6.1. Al riguardo le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come riformulato, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; ne consegue che “nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.
7. E’ peraltro da rilevare che la sentenza impugnata, pur pervenendo ad una soluzione ricostruttiva (delle modalità di svolgimento e, quindi, della natura del rapporto) difforme dalla tesi della ricorrente, non risulta avere trascurato né il profilo dell’assoggettamento alle direttive e ai controlli datoriali, secondo i principi da lungo tempo elaborati dalla giurisprudenza e sopra sinteticamente richiamati sub 5.1., 5.2. e 5.3, né gli ulteriori elementi e circostanze di fatto idonei ad integrare o meno gli indici “sintomatici” della subordinazione.
8. In particolare, la sentenza ha motivatamente ritenuto di escludere, anche sulla scorta delle molte e-mail intercorse fra la ricorrente ed altri soggetti all’interno dell’azienda, che la ricorrente versasse in uno stato di sottoposizione gerarchica, concludendo, in esito alla propria analisi delle modalità del rapporto (orario e luogo di lavoro; assenze e relative eventuali comunicazioni o autorizzazioni; modalità del compenso e del rimborso spese) nel senso che l’attività della stessa si configurasse nei termini di un “mero coordinamento” rispetto agli altri apporti, anche tenuto conto dei peculiari tratti di professionalità che vi si potevano riscontrare (pp. 3-4).
9. Tale conclusione è ribadita in sentenza anche con riguardo alle prestazioni indicate dalla ricorrente come ulteriori, in rapporto all’oggetto degli accordi formalizzati nel contratto, e tali da determinare un progressivo ed esteso ampliamento dell’attività originariamente definita, previo esame, da parte della Corte, del contratto fra le parti, delle stesse allegazioni dell’attrice, del nuovo regolamento contrattuale del 2004, che aveva visto anche un’importante riduzione del compenso globale (p. 5).
10. In realtà, il motivo in esame abbandona il terreno del controllo motivazionale, nei termini risultanti dalla modifica introdotta nel 2012 (e cioè di un sindacato avente ad oggetto l’omissione o meno in grado di appello dell’esame di fatti storici aventi rilievo decisivo ai fini della risoluzione della controversia) per svolgere un completo riesame del merito, al fine di sostenere una lettura dei fatti di causa alternativa a quella compiuta dalla Corte di appello.
11. Tuttavia, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto del giudice di merito, al quale – come più volte sottolineato nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo, fra le molte conformi, Cass. n. 9097/2017) – resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tal fine, di valutare le prove, controllarne attendibilità ed efficacia dimostrativa e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a comprovare i fatti in discussione.
12. D’altra parte, a fronte del rilievo della sentenza, per il quale nel caso di specie non è possibile dare ingresso ad una prova testimoniale “che, così come articolata nel ricorso introduttivo, non (potrebbe) condurre comunque a dimostrare il detto stravolgimento del rapporto formalizzato” (p. 5), non risultano specificamente assolti, anche in relazione alla indispensabilità di una valutazione complessiva della vicenda, come sottolineato dalla giurisprudenza, gli oneri di allegazione necessari a individuare la decisività dei mezzi istruttori richiesti (Cass. n. 8204/2018): decisività cui deve ascriversi un qualificato status di attitudine dimostrativa, idoneo a condizionare definitivamente le scelte del giudice con portata risolutiva tra più opzioni.
13. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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