CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 luglio 2019, n. 19264
Rapporto di lavoro – Illecito disciplinare – Licenziamento – Violazione del dovere di fedeltà
Fatto
Con sentenza del 7 febbraio 2018, la Corte d’appello di Bologna rigettava i reclami principale e incidentale rispettivamente proposti da Studio Z. s.r.l. e C. S. avverso la sentenza di primo grado, che, ritenuta la sussistenza dell’illecito disciplinare contestato (con lettera 24-29 luglio 2014) di accesso non autorizzato della seconda (dipendente della società con rapporto di apprendistato e inquadramento al V livello come addetta allo sviluppo e al controllo delle pagine internet) a files contenenti dati riservati, con esclusione pertanto della natura ritorsiva del licenziamento intimatole il 5 agosto 2014 ma in difetto di adeguata prova della loro stampa o scarico dalla lavoratrice e pertanto ritenuta sproporzionata la sanzione alla condotta, aveva annullato il licenziamento per giusta causa e condannato la datrice, siccome priva del requisito dimensionale stabilito dall’art. 35 I. 300/1970, al pagamento, in favore della predetta a titolo di indennità di preavviso e di indennità ai sensi dell’art. 8 I. 604/1966, delle rispettive somme di € 7.008,15 e di € 17.521,20 commisurata a cinque mensilità: così modificando l’ordinanza resa dallo stesso Tribunale, all’esito della fase sommaria del procedimento, di rigetto delle domande della lavoratrice.
A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva provato l’illecito disciplinare della lavoratrice del solo illegittimo accesso ad alcuni files aziendali, ma non anche di scarico o di stampa contestatile, con la conseguente violazione del dovere di fedeltà, ma non lesione irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti, ben sanzionabile in via conservativa secondo la previsione dell’art. 9 CCNL applicabile e non con il licenziamento con preavviso stabilito dall’art. 10, in esito a critica comparazione; essa escludeva poi la natura ritorsiva del licenziamento per l’illegittimità della condotta della lavoratrice, né, quand’anche assunto con intento di rappresaglia ad essa, qualificabile come motivo unico né determinante. Ritenuta quindi l’ammissibilità con il rito Fornero della domanda di illegittimità del licenziamento ai sensi dell’art. 8 I. 604/1966, in quanto fondata sui medesimi fatti costitutivi di quella ai sensi dell’art. 18 I. 300/1970, la Corte felsinea condivideva la liquidazione delle indennità sostitutiva del preavviso (per la novità, in violazione dell’art. 345, secondo comma c.p.c., della contestazione dell’inclusione nella base di calcolo del rateo di T.f.r.) e risarcitoria ai sensi dell’art. 8 I. cit., nella corretta valutazione dei requisiti di sua determinazione. Ed infine, pure la statuizione sulle spese del giudizio di primo grado, per l’irrilevanza a tali fini della soccombenza della lavoratrice, avendo essa accettato, al contrario della società datrice, le proposte conciliative formulate dal giudice nelle fasi sommaria e ordinaria, di entità inferiore a quanto poi riconosciutole.
Con atto notificato il 3 aprile 2018, Studio Z. s.r.l. ricorreva per cassazione con sei motivi, cui resisteva C. S. con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2119, 2104, 2105, 2106 c.c., 3 I. 604/1966, in relazione agli artt. 1453, 1455 c.c., 9 e 10 CCNL metalmeccanica confindustria, 1362, 1363 c.c., per esclusione della giusta causa di licenziamento a ragione di una ravvisata sproporzione qualificata per erronea interpretazione delle norme contrattuali collettive denunciate, che non prevedono alcuna sanzione conservativa per il fatto specifico contestato alla lavoratrice, neppure specificamente indicata quella di riferimento.
2. Con il secondo, essa deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2104, 2105, 2106 c.c., 30 d.lg. 196/2003, 9 e 10 CCNL metalmeccanica confindustria, delle disposizioni del disciplinare interno sul rispetto delle misure minime di sicurezza in ambito privacy e del regolamento aziendale, per una mancata valutazione in concreto della gravità della condotta illecita della lavoratrice, nella consapevole inosservanza delle disposizioni, con trasgressione delle regole di accesso anche in relazione ai dati personali violati e attuazione di un comportamento, sia per disvalore ambientale sia per sintomaticità di una futura dubbia correttezza di adempimento di obblighi di fedeltà e diligenza essenziali nello svolgimento delle mansioni assegnate, tale da ledere irreparabilmente il rapporto di fiducia tra le parti (anche con ampi richiami dell’indirizzo giurisprudenziale di legittimità al riguardo).
3. Con il terzo, la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c. ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per sostanziale ignoranza delle risultanze istruttorie, assolutamente chiare nel comprovare l’illecita condotta della lavoratrice, di cui in particolare omessa la valutazione degli elementi soggettivi e l’intensità del dato intenzionale, emergente dalla prodotta relazione tecnica di informatica forense, evidenziante la sistematica e deprecabile violazione delle regole di accesso a dati riservati e specialmente ai libri unici del lavoro di altri dipendenti, del tutto trascurata.
4. Con il quarto, essa deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2099, 2120, 2121 c.c., 8 l. 604/1966, 345 c.p.c., per erronea interpretazione della critica in sede di reclamo, in ordine alla contestata incidenza del rateo di T.f.r. sulla sola indennità ai sensi dell’art. 8 cit., in quanto di natura risarcitoria (con infondatezza del rilievo di novità) e non anche sull’indennità sostitutiva del preavviso, di cui omesso l’esame della dedotta non incidenza sulla base di computo del T.f.r.
5. Con il quinto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 8 I. 604/1966, 2119, 2106 c.c., per erronea liquidazione dell’indennità in cinque mensilità per non corretta valutazione di gravità della condotta della lavoratrice (che aveva pure infondatamente denunciato F. Z., socio e consulente della datrice), delle dimensioni aziendali e del numero di dipendenti occupati (dodici).
6. Con il sesto, essa deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. ed omessa valutazione di un fatto decisivo, in riferimento all’erronea condanna alla rifusione delle spese di primo grado per la valutazione non corretta della mancata accettazione dalla società delle proposte conciliative formulate dal giudice nelle due fasi per la pendenza del procedimento penale su denuncia della lavoratrice, poi archiviato.
7. Il primo motivo (violazione o falsa applicazione delle suindicate norme di legge e di contratto collettivo per esclusione della giusta causa di licenziamento per ravvisata sproporzione qualificata) può essere congiuntamente esaminato con il secondo (violazione e falsa applicazione delle suindicate norme di legge, di contratto collettivo e di regolamentazione interna per mancata valutazione in concreto della gravità della condotta illecita della lavoratrice, irreparabilmente lesiva del rapporto di fiducia tra le parti) e con il terzo (violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c.ed omesso esame di un fatto per sostanziale ignoranza delle risultanze istruttorie e mancata valutazione degli elementi soggettivi e dell’intensità intenzionale emergenti dalla relazione tecnica di informatica forense), per ragioni di stretta connessione.
7.1. A parte un profilo di difetto di specificità, per omessa precisa indicazione della sede di produzione del CCNL censurato nell’interpretazione, del disciplinare interno sul rispetto delle misure minime di sicurezza in ambito privacy, del regolamento aziendale e della relazione tecnica di informatica forense (Cass. 3 luglio 2010, n. 17915; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 10 agosto 2017, n. 19985), essi sono infondati.
7.2. In primo luogo, occorre premettere che la censura di violazione dell’art. 2119 c.c. deve investire (come in particolare ritenuto da: Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 2 settembre 2016, n. 17539; Cass. 10 luglio 2018, n. 18170) una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd. “elastica” (quale indubbiamente è la clausola generale della giusta causa), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico – sociale: ben potendo, in tal caso, il giudice di legittimità censurare la sussunzione di uno specifico comportamento del lavoratore nell’ambito della giusta causa (piuttosto che del giustificato motivo di licenziamento), in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514).
E ciò perché la Corte di cassazione può sindacare l’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e di mera contrapposizione, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).
7.3. La sanzione disciplinare deve poi essere proporzionale alla gravità dei fatti contestati, sia in sede di irrogazione da parte del datore nell’esercizio del suo potere disciplinare, avuto riguardo alle ragioni che lo hanno indotto a ritenere grave il comportamento del dipendente, sia da parte del giudice del merito, il cui apprezzamento di legittimità e congruità della sanzione applicata, se sorretto da adeguata e logica motivazione, si sottrae a censure in sede di legittimità (Cass. 8 gennaio 2008, n. 144; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1788; Cass. 25 maggio 2012, n. 8293; 26 settembre 2018, n. 23046).
7.4. Ebbene, la Corte territoriale ha compiuto un tale accertamento di (non) proporzionalità, con argomentazione adeguata (per le ragioni esposte dal primo al penultimo capoverso di pg. 10 della sentenza) e corretta applicazione dei principi in materia, in specifico riferimento alle ipotesi contrattuali di sanzione conservativa, nell’alveo della propria attività sussuntiva e valutativa quale giudice di merito (Cass. 16 aprile 2018, n. 9396; Cass. 26 ottobre 2018, n. 27238).
7.5. Non ricorre poi violazione né falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., inconfigurabile per erronea valutazione del materiale istruttorio da parte del giudice di merito, ma solo allorché rispettivamente si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. 27 dicembre 2016, n. 27000).
Quanto alla valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., bensì un errore di fatto, da censurare attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, primo comma 1, n. 5 c.p.c., come riformulato dall’art. 54 d.l. 83/2012, conv. con mod. dalla I. 134/2012.
7.6. In realtà, i motivi in esame si risolvono nella contestazione dell’accertamento in fatto del giudice di merito, sulla base delle risultanze istruttorie così come apprezzate, indebitamente sollecitando una rivisitazione del merito; ma essa, come noto, è indeferibile in sede di legittimità. Né poi si configura omissione di esame di alcun fatto storico, neppure individuato dal generico e inammissibile riferimento alle risultanze istruttorie, esorbitante dall’ambito devolutivo del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.; neppure la motivazione offerta dalla Corte nissena, più che adeguata, integra quella violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma Cost., individuabile nelle ipotesi (che si convertono in violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza) di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile” (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940).
7.7. Infine, giova pure sottolineare la ricorrenza nel caso di specie dell’ipotesi di cd. “doppia conforme” prevista dall’art. 348ter, quinto comma c.p.c. (qui applicabile ratione temporis), non avendo la parte ricorrente indicato, per evitare l’inammissibilità del motivo stabilita dal novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrandone la diversità (Cass. 10 marzo 2014, n. 5528; Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774).
8. Il quarto motivo, relativo a violazione e falsa applicazione di nome per erronea interpretazione della critica di contestata incidenza del rateo di T.f.r. sulla sola indennità ai sensi dell’art. 8 I. 604/1966 e non anche sull’indennità sostitutiva del preavviso, è inammissibile.
8.1. Esso difetta di specificità, in violazione del principio prescritto dall’art. 366, co. primo comma, n. 4 c.p.c., che esige l’illustrazione del motivo, con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustifichino la cassazione della sentenza (Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 22 settembre 2014, n. 19959): posto che non confuta puntualmente (all’ultimo capoverso di pg. 48 e al primo di pg. 49 del ricorso) la ratio decidendi di novità della questione dedotta (ultimi sette alinea di pg. 12 e primi sei di pg. 13 della sentenza).
Ma il motivo difetta pure di specificità, in violazione del principio prescritto dall’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c., sotto il profilo di omessa trascrizione della parte del reclamo d’interesse (Cass. 19 maggio 2006, n. 11886; Cass. 23 marzo 2010, n. 6937; Cass. s.u. 22 maggio 2012, n. 8077; Cass. 7 giugno 2017, n. 14107; Cass. 13 marzo 2018, n. 6014): risultando anzi la contestata quantificazione anche dell’indennità sostitutiva del preavviso (all’ultimo alinea di pg. 47 del ricorso), né essendo chiaro ma piuttosto non pertinente il rilievo di omesso esame della sua non incidenza sulla base di computo del T.f.r. (all’ultimo capoverso di pg. 49 del ricorso).
9. Il quinto motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 8 l. 604/1966, 2119, 2106 c.c. per erronea liquidazione dell’indennità risarcitoria in cinque mensilità, è parimenti inammissibile.
9.1. E’ noto infatti che, in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo per il quale non sia applicabile la disciplina della cosiddetta stabilità reale, la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 8 l. 604/1966 (sostituito dall’art. 2 della legge n. 108 del 1990) è incensurabile in sede di legittimità, siccome spettante al giudice di merito, in quanto sia congruamente argomentata (Cass. 8 giugno 2006, n. 13380; Cass. 22 gennaio 2014, n. 1320), come nel caso di specie (dal sesto al ventesimo alinea di pg. 13 della sentenza).
10. il sesto motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. ed omessa valutazione di un fatto decisivo, in riferimento all’erronea condanna alla rifusione delle spese di primo grado, è infondato.
10.1. La liquidazione delle spese processuali rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, potendo essere denunziate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza o liquidazioni che non rispettino le tariffe professionali, con obbligo, in tal caso, di indicare le singole voci contestate, in modo da consentire il controllo di legittimità senza necessità di ulteriori indagini (Cass. 4 luglio 2011, n. 14542; Cass. 16 marzo 2018, n. 6594).
10.2. Sicché, nel caso di specie il criterio della soccombenza non è stato violato, per l’argomentata e plausibile giustificazione della Corte territoriale nel porre le spese del giudizio di primo grado a carico della società datrice soccombente, per la ritenuta irrilevanza della soccombenza della lavoratrice, in relazione alle proposte conciliative giudiziali, accettate da questa ma non dalla prima: così valutando negativamente la sua condotta processuale (all’ultimo capoverso di pg. 13 della sentenza), pure in assenza di specifica indicazione dalla ricorrente del “dove” abbia allegato la circostanza di fatto denunciata di omissione, in violazione del paradigma deduttivo prescritto dal novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053).
11. Dalle superiori argomentazioni discende allora il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio, secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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