CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 febbraio 2022, n. 3824
Licenziamento collettivo – Comunicazione – Determinazione dei lavoratori coinvolti nella procedura – Qualificazione della sostanziale unicità della struttura aziendale
Rilevato che
1. il giudice di primo grado, accertata la sussistenza di un unico complesso aziendale fra M.F. s.p.a. (poi divenuta A.I. s.p.a.) e A.I. s.p.a. (poi divenuta A.I.F.M.C. s.p.a.), ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore all’esito della procedura di licenziamento collettivo attivata da M.F. s.p.a., formale datrice di lavoro, e condannato le società, in solido, alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori, detratto l’aliunde perceptum e l’aliunde percipiendum, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali;
2. la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado nel resto confermata, ha respinto le domande del lavoratore nei confronti della società A. s.p.a. e ha dichiarato che nulla andava detratto, a titolo di aliunde perceptum e percipiendum, dalla indennità risarcitoria rideterminata in misura pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
3. per quel che ancora rileva, la Corte di merito ha confermato la valutazione di primo grado circa la configurabilità di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro tra M.F. s.p.a. e A.I. s.p.a. ed osservato che ciò comportava la necessità che la verifica degli esuberi, in relazione alla procedura collettiva attivata da M.F., dovesse essere svolta tenendo conto della complessiva platea e quindi anche dei lavoratori in forza alla (allora) società A.I. s.p.a. e non solo di quelli della società formale datrice di lavoro, come in concreto avvenuto; in assenza di allegazioni e deduzioni probatorie in primo grado, da parte delle società convenute, circa i presupposti della invocata delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare ai soli dipendenti di M.F., il coinvolgimento nella procedura collettiva del solo organico di quest’ultima società, quale affermato autonomo ramo aziendale distinto rispetto a A.I., non era giustificata; tale difetto di allegazioni si riscontrava nella comunicazione di cui all’art. 3, comma 9, l. n. 223/1991 di avvio della procedura collettiva che concerneva unicamente i dipendenti di M.F., senza che fossero esplicitate le ragioni del mancato coinvolgimento dell’organico di A.I. s.p.a.; la detraibilità dall’indennità risarcitoria dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum, disposta dal giudice di primo grado in termini del tutto generici, era preclusa dalla carenza di specifica deduzione fattuale sviluppata a riguardo nella memoria di costituzione di primo grado delle società convenute; né poteva attribuirsi rilevanza all’impiego a termine offerto al lavoratore dalla (allora) società A.I., impiego che, per la sua ridotta durata a fronte del periodo di estromissione dal lavoro seguito al licenziamento oggetto di causa, risultava inidoneo ad intaccare il limite massimo di dodici mensilità posto dalla legge all’indennità risarcitoria;
4. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso con unico atto A.I. s.p.a. (già M.F.) e A.I.F.M.C. s.p.a.- AIFMC (già A.I. s.p.a., da ora AIFMC) sulla base di cinque motivi; S.B. ha resistito con controricorso;
5. A.I. s.p.a. (già M.F.) in liquidazione e A.I.F.M.C. s.p.a.- AIFMC (già A.I. s.p.a., da ora AIFMC) in liquidazione hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ..
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso le società ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. e degli artt. 24, 4, e 5 l. n. 223/1991, nonché dell’art. 115 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto illegittimo il licenziamento in controversia sul presupposto che a fondare la contitolarità del rapporto di lavoro bastasse la integrazione fra le attività della controllante e le attività della controllata; ciò a prescindere dall’esame della posizione individuale del singolo lavoratore in rapporto al suo inserimento nella complessiva struttura aziendale e dal concreto accertamento dell’uso promiscuo della sua prestazione;
2. con il secondo motivo deducono violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 223/1991 nonché dell’art. 115 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata in base alla considerazione che, anche a voler considerare unitariamente la struttura delle società M.F. s.p.a. e A.I. s.p.a., l’individuazione dei lavoratori in esubero non poteva che avvenire in relazione alle esigenze tecniche, organizzative e produttive manifestatesi nel perimetro aziendale della prima società; ciò tanto più in considerazione del fatto che il lavoratore non aveva neppure allegato e provato l’utilizzo promiscuo della sua prestazione lavorativa da parte delle due società; in ogni caso, anche a voler considerare le esigenze tecniche, organizzative e produttive in questione nell’ambito dell’intero gruppo M.F./A.I., la scelta dei dipendenti da licenziare non poteva che avvenire all’interno del solo personale navigante di M.F.; le due società, infatti, avevano mantenuto strutture autonome, dotate di propri beni, risorse, licenze di esercizio ecc. e la struttura in crisi che aveva generato gli esuberi sin dal 2011 era quella facente capo a M.F.; al fine della configurabilità di un unico centro di imputazione non poteva prescindersi, oltre che dai parametri rappresentati dalla unicità della struttura organizzativa e produttiva, dalla stretta connessione funzionale tra imprese, dal coordinamento tecnico-amministrativo e finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faceva confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune, anche dall’ulteriore parametro rappresentato dall’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari di distinte imprese; nel caso in esame era mancato l’accertamento, e ancor prima l’allegazione e prova della circostanza che la prestazione lavorativa fosse stata svolta in favore di entrambe le aziende;
3. con il terzo motivo di ricorso deducono violazione degli artt. 2359, 2947 e segg. cod. civ., degli artt. 776 e 779 cod. nav. nonché del Regolamento europeo n. 859/2008 (capo C) OPS 1.185 punto 5 e Appendice 2 dell’OPS 1.175 punti a) e b), del Regolamento europeo n. 1008/2008, art. 2 (nn. 1, 8 e 25), art. 3 (n. 2), art. 4 punto e), del Regolamento Europeo n. 965 del 2012 – Allegato 3 Capo CC Sezione 1 ORO. CC. 125; il giudice di appello ha trascurato di considerare che nel settore aeronautico, governato da pregnanti e minuziose disposizioni normative contenute, tra l’altro, nei suddetti Regolamenti, era impossibile, sia di fatto che di diritto, che il servizio di trasporto aereo fosse svolto da due società attraverso una struttura aziendale unitaria con uso promiscuo dei naviganti e dei responsabili delle varie attività; neppure poteva essere valorizzato nel senso dell’unitarietà della struttura l’utilizzazione dell’aeromobile mediante contratti di wet lease, circostanza che non implicava alcuna confusione tra le separate strutture organizzative facenti capo alle società;
4. con il quarto motivo di ricorso deducono violazione degli artt. 2697 e 1321 cod. civ., dell’art. 115 cod. proc. civ. e dell’art. 30 d. lgs. n. 276/2003, censurando la sentenza impugnata sul rilievo che l’utilizzo dell’istituto del distacco e l’utilizzo del job posting – quest’ultimo caratterizzato dalla risoluzione consensuale del contratto di lavoro con (la allora) M.F. e dalla successiva assunzione alle dipendenze di A.I. s.p.a., mai impugnate dai lavoratori – escludevano l’uso promiscuo della forza lavoro; nella sentenza impugnata era mancata una attenta disamina sull’utilizzo comune e promiscuo delle risorse lavorative, elemento imprescindibile per pervenire alla configurazione di un unico centro di imputazione del rapporto; era inoltre da escludere che con il distacco si realizzasse, in contrasto con la previsione dell’art. 30 d.lgs n. 276/2003, un’ipotesi di uso comune e promiscuo del dipendente;
5. con il quinto motivo di ricorso deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 4 , l. n. 300 del 1970, per avere il giudice di appello escluso la detraibilità dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum dall’indennità risarcitoria; tale esclusione era frutto dell’errata interpretazione dell’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970, nel testo novellato dalla l. n. 92/2012, con il quale il legislatore aveva inteso, in applicazione del principio civilistico della compensatio lucri cum damno, evitare un ingiusto arricchimento del soggetto leso e sterilizzare gli effetti di una durata anomala del processo; alla luce del mutato contesto normativo l’aliunde perceptum e l’aliunde percipiendum non si configurano come oggetto di eccezione della quale è onerata la parte datrice ma quali fattori indispensabili per la quantificazione della indennità dovuta, elemento imprescindibile per la stessa affermazione della sussistenza di un danno risarcibile; la Corte di merito ha inoltre errato, in contrasto con il dato letterale e la ratio ispiratrice della norma, nel ritenere che compensi percepiti per periodi di ridotta durata non potessero intaccare il limite risarcitorio massimo delle dodici mensilità con la conseguenza di avere, in tal modo, determinato in concreto la trasformazione di tale limite massimo in un limite minimo irriducibile;
6. i primi quattro motivi di ricorso, da trattare congiuntamente per la reciproca connessione, sono infondati, per le ragioni già espresse da questa Corte nella sentenza n. 29212 del 2021 (e nelle successive conformi nn. 36233, 35877, 35586, 35585, 35183, 34563, 34562, 34561, 34560, 33800, 33799, 33798, 32561, 32476, 32475, 32474 del 2021), che si richiama, anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., e ai cui principi il Collegio ritiene di dare continuità, non risultando prospettati nel ricorso argomenti che possano indurre a disattenderli;
6.1. la sentenza impugnata, con accertamento di fatto riservato al giudice di merito ed in questa sede neppure astrattamente incrinabile dalla deduzione di omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, deduzione in concreto preclusa ai sensi dell’art. 348 ter, ultimo comma cod. proc. civ. dalla esistenza di <<doppia conforme>>, ha ritenuto che gli elementi di collegamento fra le società avessero travalicato, per caratteristiche e finalità, le connotazioni di una mera sinergia fra consociate per sconfinare in una compenetrazione di mezzi e di attività, sintomatica della sostanziale unicità soggettiva ai fini per cui è causa;
6.2. la Corte di merito, sulla base di plurimi dati probatori (l’assegnazione di quasi tutta la operatività di volo da M.F. ad A.I., che l’aveva gestita mediante anomali contratti cd. di wet lease su tratte e bande orarie della prima sostenendo direttamente i costi necessari; l’utilizzo da parte di A.I. di slot facenti capo a Meridiana; la stipula di un contratto tra M.F. e A.I. con il quale la prima si impegnava a prestare a A.I. i servizi di gestione amministrativa e finanziaria inclusi gli adempimenti civilistici e fiscali, il controllo di gestione compresa la pianificazione economica, finanziaria e patrimoniale, l’analisi preventiva e consuntiva per gli investimenti, la gestione del personale e delle relazioni industriali; l’utilizzazione da parte di A.I. di personale proveniente da M.F., attraverso l’istituto del distacco e mediante job posting, cioè l’assunzione ex novo previa risoluzione del contratto con M.F.; l’utilizzo da parte di A.I. di equipaggi misti; la dichiarata finalizzazione di tutta l’operazione alla riduzione del costo del lavoro), è pervenuta, in applicazione dei principi affermati in materia da questa S.C. (v. Cass. n. 1507 del 2021; n. 267 del 2019; n. 7704 del 2018; n. 19023 del 2017; n. 13809 del 2017; n. 26346 del 2016; n. 3482 del 2013; n. 6707 del 2004), alla qualificazione della sostanziale unicità della struttura aziendale, valorizzando la mera apparenza della pluralità di soggetti giuridici a fronte di un’unica sottostante organizzazione di impresa, intesa come unico centro decisionale (v. Cass. n. 7704 del 2018 cit.; n. 25270 del 2011; n. 5496 del 2006; n. 11275 del 2000; v. anche Cass. n. 4274 del 2003 in cui, in una fattispecie di più imprese formalmente distinte, ma con un’unica organizzazione imprenditoriale, intesa anche come unico centro decisionale -le tre società convenute gestivano un’unica azienda costituita da un unico complesso aziendale, avevano in comune gli organi direttivi e una serie di servizi, si scambiavano i dipendenti, utilizzati indifferentemente per i vari servizi e spostati di anno in anno da una società all’altra- ha ritenuto che i requisiti dimensionali e quantitativi prescritti dall’art. 24 della legge n. 223 del 1991 ai fini dell‘applicabilità della disciplina dei licenziamenti collettivi dovessero essere riferiti all’unico complesso aziendale costituito dalle predette imprese);
6.3. questa S.C. ha ritenuto possibile concepire un’impresa unitaria anche in presenza di gruppi genuini, in condizione di codatorialità che “presuppone l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione economica complessiva a cui appartiene il datore di lavoro formale nonché la condivisione della prestazione del medesimo, al fine di soddisfare l’interesse di gruppo, da parte delle diverse società, che esercitano i tipici poteri datoriali e diventano datori sostanziali, anche ai fini dell’applicazione delle disposizioni in tema di licenziamento collettivo” (Cass. n. 267 del 2019);
6.4. l’accertamento fattuale che sorregge la decisione impugnata, in merito alla compenetrazione tra le strutture aziendali formalmente facenti capo a distinte società, implica la riferibilità della prestazione di lavoro ad un soggetto sostanzialmente unitario; questo accertamento assorbe il requisito dell’uso promiscuo dell’attività dei lavoratori da parte delle due società e consente di superare il dato formale rappresentato dal titolo giuridico in base al quale i dipendenti di M.F. venivano utilizzati da A.I., vale a dire il distacco ed il ricorso al job posting, come peraltro imposto dal principio di effettività, che permea il diritto del lavoro e che trova espressione in numerose disposizioni normative (v., ad esempio, gli artt. 27, 29 e 30 del d.lgs. n. 276 del 2003 e succ. modif.; l’art. 8 della legge n. 223 del 1991), a cominciare dall’art. 2094 cod. civ. (Cass. n. 4274 del 2003 cit.); l’accertamento della sostanziale unitarietà della struttura imprenditoriale costituita da M.F. – A.I. esclude inoltre che possa assumere rilevanza decisiva la verifica circa la concreta, effettiva, utilizzazione da parte di entrambe le società delle prestazioni rese dal singolo lavoratore, la cui attività deve comunque ritenersi prestata nell’interesse – indifferenziato – delle due società solo formalmente distinte; l’applicazione nella decisione impugnata di principi già pacifici nella giurisprudenza di legittimità porta ad escludere la sussistenza dei presupposti per la rimessione della questione alle Sezioni Unite di questa Corte, come sollecitato nella memoria depositata dalle società ricorrenti;
6.5. conseguenza ineludibile della configurabilità in concreto di un unico soggetto datoriale è la necessità che la procedura collettiva attivata da M.F. coinvolgesse i lavoratori in organico non solo alla detta società ma anche alla società A.I., cioè tutti i lavoratori dell’unico complesso aziendale risultante dalla integrazione delle due società, non essendo ritualmente dedotti e comprovati i presupposti per la delimitazione della platea dei lavoratori da licenziare al solo organico di M.F., con conseguente assorbimento dell’ulteriore profilo, sottolineato dalla Corte distrettuale e non validamente censurato con il ricorso per cassazione, rappresentato dalla mancata esplicitazione, nella comunicazione ex art. 4, comma 3 l n. 223 71991, delle ragioni che avrebbero giustificato la restrizione del perimetro dei licenziandi ai soli dipendenti formalmente in forza a M.F.;
6.6. la Corte di merito ha valutato l’applicazione dei criteri di scelta rispetto all’intero e unitario complesso aziendale, in aderenza al consolidato orientamento di legittimità (v. tra le altre, Cass. 01/08/2017, n. 19105; Cass. 16/09/2016, n. 18190; Cass. 12/01/2015 n. 203; Cass.03/05/2011 n. 9711; Cass. 23/06/2006, n. 14612);
6.7. la ricostruzione fattuale alla base del decisum di secondo grado e le conseguenze giuridiche che ne sono state tratte, in termini di necessità di estensione della platea dei lavoratori anche ai lavoratori formalmente dipendenti da A.I., non sono incrinate dalle deduzioni oggetto del terzo motivo di ricorso, intese a denunciare la violazione di normativa specifica di fonte europea e del codice della navigazione, le cui disposizioni operano sul piano, affatto diverso, inerente ai presupposti di sicurezza della navigazione aerea;
7. neppure il quinto motivo di ricorso può trovare accoglimento;
7.1. anzitutto, il semplice dato della esplicitazione, nell’art. 18, comma 4, l. n.300 del 1970, come riformulato dalla l. n. 92 del 2012, della detraibilità dell’aliunde perceptum e percipiendum, non altera la natura dei compensi percepiti nello svolgimento di altre attività lavorative, quali fatti impeditivi della domanda risarcitoria del lavoratore, (v. Cass. n. 1636 del 2020; n. 30330 del 2019), da veicolare nel processo sotto forma di eccezioni, sia pure in senso lato (v. Cass. n. 21919 del 2010; n. 5610 del 2005; n. 10155 del 2005);
7.2. deve quindi ribadirsi l’onere, del datore di lavoro che contesti la pretesa risarcitoria del lavoratore illegittimamente licenziato, di provare, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, l’aliunde perceptum o percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (Cass. n. 22679 del 2018; n. 9616 del 2015; n. 23226 del 2010);
7.3. nel caso in esame, non è specificamente censurata la affermazione del giudice di appello, configurante nell’economia della motivazione autonoma ratio decidendi alla base della statuizione che esclude la detraibilità dell’aliunde perceptum e percipiendum, rappresentata dalla carenza di specifica deduzione fattuale a riguardo nella memoria difensiva di primo grado delle odierne ricorrenti; né ha fondamento la censura di rigetto dell’istanza di ordine di esibizione, di cui all’art. 210 c.p.c.; tale ordine, in base ai precedenti di questa S.C., ha carattere discrezionale, è svincolato da ogni onere di motivazione, non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte instante non abbia, come invece accade nel caso di specie, finalità esplorativa (v. Cass. n. 9615 del 2015; n. 24188 del 2013);
7.4. neppure può trovare accoglimento la censura delle società ricorrenti per non avere la Corte di merito detratto, dall’indennità risarcitoria di dodici mensilità, l’aliunde percipiendum, in relazione all’impiego a termine offerto alla lavoratrice da parte di A.I.;
7.5. l’art. 18, comma 4, prevede che il giudice “annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”;
7.6. la Corte di merito si è attenuta al disposto normativo che descrive con precisione la sequenza volta a determinare l’indennità risarcitoria, attraverso il calcolo della retribuzione globale di fatto spettante al lavoratore per l’intero periodo di estromissione, e la successiva detrazione, dall’importo così ottenuto, dell’aliunde perceptum e percipiendum; per contro, il tetto massimo previsto per l’indennità risarcitoria, come pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, rappresenta un limite che il legislatore ha posto al quantum del risarcimento dovuto dal datore di lavoro rispetto all’importo risultante dalla differenza tra la retribuzione spettante per tutto il periodo di estromissione e l’aliunde perceptum o percipiendi, ove superiore al detto tetto massimo;
7.7. al riguardo, deve precisarsi che nessuna rilevanza può attribuirsi alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel periodo di estromissione, trattandosi di elemento in nessun modo desumibile dalla disposizione in esame e non coerente con il principio della compensatio lucri cum damno, di cui l’aliunde perceptum e percipiendum costituiscono applicazione, che presuppone una valutazione complessiva sia del danno e sia dell’incremento patrimoniale, causalmente ricollegabili al medesimo fatto illecito (v. Cass. n. 16702 del 2020; Cass., S.U., ud. 22.5.2018 nn. 12564, 12565, 12566, 12567; con specifico riferimento all’aliunde perceptum, v. Cass. n. 7453 del 2005; n. 2529 del 2003);
7.8. l’aliunde perceptum e percipiendum comportano la riduzione corrispondente (nell’art. 18, comma 4 cit., senza il limite minimo delle cinque mensilità di retribuzione globale di fatto) del risarcimento del danno, subito dal lavoratore per il licenziamento, che va commisurata alle retribuzioni percepite o percepibili nel periodo intercorrente tra il licenziamento e l’effettiva reintegra;
7.9. la compensatio lucri cum damno, alla quale va ricondotto il principio in esame, trova applicazione solo se – e nei limiti in cui – sia il danno (damnum) che l’incremento patrimoniale o, comunque, il vantaggio (lucrum) siano conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto, il quale abbia in sé l’idoneità a produrre entrambi gli effetti (v. Cass. n. 7453 del 2005 cit.). Si è, ad esempio, affermato che il compenso percepito dal lavoratore, per attività di lavoro subordinato o autonomo nel periodo di estromissione, comporti la corrispondente riduzione del risarcimento del danno per licenziamento illegittimo solo se – e nei limiti in cui – quel lavoro, essendo incompatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito del licenziamento, supponga, appunto, l’intimazione del licenziamento medesimo (v. Cass. n. 17051 del 2021; n. 7453 del 2005 cit.; n. 6439 del 1995);
7.10. in virtù dei principi richiamati, che trovano fondamento normativo nel disposto degli artt. 1223 e 1227 cod. civ., l’ammontare del risarcimento non può superare quello del danno effettivamente prodotto, così che occorre tener conto anche degli elementi idonei a provocare una riduzione del danno, causalmente riferibili al medesimo fatto illecito, e che quindi debbano essere valutati in diminuzione del risarcimento.
7.11. nel sistema delineato dall’art. 18, comma 4 cit., il computo dell’indennità risarcitoria deve essere eseguito in relazione all’importo delle retribuzioni perse e di quelle aliunde percepite o percepibili, e non in base al dato temporale riferito ai periodi di inoccupazione oppure di occupazione lavorativa;
7.12. le somme aliunde percepite o percepibili dal lavoratore nel periodo di estromissione vanno quindi sottratte, con un semplice calcolo aritmetico, dall’ammontare complessivo del danno subito per effetto del recesso e pari, secondo il disposto normativo, alle retribuzioni spettanti per l’intero periodo dal licenziamento alla reintegra; se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all’importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l’indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo;
7.13. in altri termini, la previsione normativa del tetto massimo delle dodici mensilità non incide sul sistema di calcolo del danno effettivamente subito dal lavoratore per effetto del licenziamento (pari alle retribuzioni perse nel periodo di estromissione, depurate di quanto aliunde percepito o percepibile), e rileva solo all’esito del conteggio eseguito, in termini di limite massimo entro cui l’indennità risarcitoria può essere riconosciuta;
7.14. non può pertanto essere condivisa la tesi su cui insistono le società datrici di lavoro, secondo cui l’aliunde perceptum o percipiendum debba essere detratto dal tetto massimo delle dodici mensilità, e neppure la diversa opzione, sostenuta dei lavoratori, per cui la detrazione dell’aliunde perceptum o percipiendum è preclusa qualora l’attività svolta aliunde non si sovrapponga al periodo di inoccupazione risarcito;
7.15. per le ragioni esposte, il motivo di ricorso deve essere respinto;
7.16. deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “In base all’art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1 comma 42, l. n. 92 del 2012, la determinazione dell’indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo dell’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, a titolo di aliunde perceptum o percipiendum, e, comunque, entro la misura massima corrispondente a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, senza che possa attribuirsi rilievo alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel corso del periodo di estromissione; se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all’importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l’indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo;
8. per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto;
9. le spese del giudizio di legittimità sono regolate secondo il criterio di soccombenza nei confronti della lavoratrice, e liquidate come in dispositivo. Non si provvede sulle spese nei confronti di A. s.p.a. che non ha svolto difese;
10. ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna le ricorrenti alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.