CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 maggio 2018, n. 12090
Lavoro – Contratto di collaborazione professionale continuativa – Compenso – Determinazione – Natura subordinata del rapporto – Accertamento
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 1132/2016, depositata il 5 marzo 2016, la Corte di appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame principale proposto da M. R. Z. ed in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma, condannava la S. R. S.p.A. a pagare alla stessa il compenso previsto dal contratto di collaborazione professionale continuativa di durata quinquennale, stipulato in data 1 marzo 2008 e avente ad oggetto la realizzazione, da parte dell’appellante principale, di progetti consistenti nell’ideazione e attuazione di percorsi clinici e nuovi modelli sanitari per i soggetti colpiti da gravi cerebrolesioni acquisite: compenso il cui importo era determinato in ragione del periodo compreso tra la data (17 dicembre 2009) di comunicazione del recesso della società e quella di naturale scadenza del rapporto.
2. La Corte di appello osservava in primo luogo, a sostegno della propria decisione, che era da escludersi la natura subordinata del rapporto, tenuto conto delle dichiarazioni rese dalla Z. in sede di interrogatorio formale, dichiarazioni che rendevano superfluo l’esame delle istanze istruttorie dalla medesima formulate; rilevava, d’altra parte, come l’appellante principale avesse diritto ai compensi, nella misura liquidata, posto che nel contratto era stato previsto soltanto il recesso per giusta causa, vale a dire per un fatto imputabile ad una delle parti, e che era da escludersi una impossibilità assoluta della prestazione, sia perché la società aveva motivato il proprio recesso soltanto sulla base di difficoltà di carattere economico legate ai contributi regionali, sia in relazione alla varietà dei compiti assunti dalla Z., indipendenti dall’erogazione di tali contributi; riteneva peraltro infondate le ulteriori richieste di condanna, osservando – quanto alle domande di risarcimento danni – la genericità delle relative allegazioni; rilevava infine che, trattandosi nella specie di rapporto di collaborazione compreso in quelli di cui all’art. 409 n. 3 cod. proc. civ., la clausola compromissoria era priva di effetti.
3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la S. R. S.p.A. con cinque motivi, cui ha resistito la Z. con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a sei motivi.
4. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la S. R. S.p.A. censura la sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.) per avere la Corte di appello qualificato il rapporto intercorso fra le parti come rientrante fra quelli di cui all’art. 409 n. 3 cod. proc. civ., anziché come collaborazione autonoma di natura libero professionale, senza peraltro indicare gli elementi a sostegno di tale qualificazione e, di conseguenza, rendendo impossibile il controllo circa l’esattezza e la coerenza logica delle argomentazioni che l’avevano portata al proprio convincimento; e per avere omesso ogni motivazione sul punto, essendosi la Corte limitata all’affermazione della riconducibilità del rapporto fra quelli “elencati nell’art. 409 n. 3 del c.p.c.”, senza ulteriori precisazioni o argomentazioni.
2. Con il secondo motivo, deducendo la violazione degli artt. 38 e 819 ter cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 n. 2, la società censura la sentenza per avere la Corte di appello ritenuto che il rapporto dovesse qualificarsi come di “parasubordinazione”, sebbene gli elementi portati alla sua attenzione ne suggerissero la natura libero professionale, sulla base di tale incongruo accertamento erroneamente privando di efficacia (per quanto disposto dall’art. 806, co. 2°, cod. proc. civ.) la clausola arbitrale inserita nel contratto.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 4, per avere la Corte di appello omesso di pronunciare sulla incompatibilità dell’intenzione delle parti di dar vita ad un rapporto libero professionale, quale risultante dalla documentazione prodotta, con la qualificazione del rapporto come di parasubordinazione.
4. Con il quarto motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza per avere omesso di esaminare i fatti, già specificamente indicati nella lettera di recesso, che le avevano reso impossibile dare attuazione all’oggetto del contratto, e fra questi, in particolare, la mutata normativa regionale di riferimento, in forza della quale era stata disposta l’attribuzione al settore sanitario pubblico dell’alta specialità neuroriabilitativa e la realizzazione delle unità per le gravi cerebrolesioni acquisite.
5. Con il quinto motivo, infine, la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione di varie norme di diritto (artt. 1256, 1324, 1362, 1363, 1366, 1369, 1463, 1464, 2222, 2909 cod. civ.; artt. 38, 112, 115, 324, 409 n. 3, 819 ter cod. proc. civ.; art. 10 D.P.R. n. 633/1972; art. 111, comma 6°, Cost.) sia in relazione alla qualificazione del rapporto, sia in relazione alle cause di recesso e all’oggetto del contratto, in particolare rilevando come la Corte avesse violato le regole di ermeneutica contrattuale nell’interpretare la lettera di recesso e le norme in materia di disponibilità delle prove.
6. Il primo, il secondo e il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi per l’elemento comune e unificante di una critica sostanziale (oltre che, nel primo, anche formalmente enunciata) al percorso motivazionale seguito dalla Corte di merito nel confermare la riconducibilità del rapporto di collaborazione professionale continuativa, già in essere fra le parti, all’area dei rapporti di cui all’art. 409 n. 3.
7. Su tale premessa, i motivi in esame risultano, in primo luogo, inammissibili ex art. 348 ter, co. 5°, cod. proc. civ., a fronte di giudizio di appello introdotto con ricorso depositato il 22 ottobre 2012 e, pertanto, in data successiva al trentesimo giorno dall’entrata in vigore della I. 7 agosto 2012, n. 134 di conversione del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, con il quale è stata introdotta la disposizione in esame (art. 54, comma 1, lett. a) e comma 2).
8. Né la società, al fine di evitare l’inammissibilità del ricorso, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014; conformi: Cass. n. 19001/2016; Cass. n. 26774/2016).
9. D’altra parte, diversamente da quanto dedotto, sia nel primo che nel secondo motivo, deve escludersi che il giudice di appello sia incorso in una motivazione omessa o apparente, la conclusione della riferibilità del rapporto a quelli compresi nell’art. 409 n. 3 cod. proc. civ. (cfr. sentenza, p. 12, ultimo capoverso) dovendo essere integrata, in una necessaria lettura complessiva dell’iter motivazionale, con il richiamo al nomen iuris dato al rapporto dalle stesse parti e alle dichiarazioni rese dall’appellante principale (pp. 9- 10): elementi questi che, unitariamente valutati, rendono chiaramente percepibile il fondamento della decisione assunta e ne permettono la verifica in sede giudiziale (Sez. U n. 22232/2016).
10. Ove poi i motivi in esame si volgano ad una censura di carenza di motivazione, sotto il profilo dell’adeguatezza e della coerenza logica, allora è da rilevare come essi non si conformino al modello legale del nuovo art. 360 n. 5 cod. proc. civ., quale risultante dalla novella legislativa del 2012 e dalle pronunce di questa Corte a Sezioni Unite n. 8053 e n. 8054 del 2014, che hanno precisato condizioni e perimetro applicativo del riformulato vizio “motivazionale”, in presenza di sentenza di appello pubblicata il 5 marzo 2016.
11. Con riferimento al terzo motivo, si deve comunque osservare che, ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia, non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria – come più volte precisato dalla giurisprudenza di questa Corte – la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; con la conseguenza che il vizio in esame non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (cfr., fra le molte, Cass. n. 10636/2007; Cass. n. 5351/2007), dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata con il capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass. n. 16788/2006).
12. Parimenti inammissibili risultano il quarto e il quinto motivo.
13. In relazione al quarto, si deve ribadire quanto già osservato sub 10, posto che, con il motivo in esame, la società ricorrente si duole di una motivazione carente e incompleta del giudice di merito, che non avrebbe considerato molteplici elementi e circostanze, già presenti nella lettera di recesso e successivamente ripresi in sede di memoria in grado di appello.
14. Al riguardo giova sottolineare che le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, già sopra citate, hanno precisato che l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come riformulato a seguito dei recenti interventi legislativi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.
15. Nella specie, non risulta specificamente dedotta, né comunque dimostrata, dalla ricorrente la “decisività” – intesa nel senso precisato dalla giurisprudenza – dei fatti che il giudice di appello avrebbe trascurato nella sua valutazione delle ragioni di recesso (ne è, al contrario, evidenziata la mera “rilevanza”, in vari luoghi del ricorso: pp. 28, 29, 30, 32 e, per un giudizio di sintesi conclusivo, p. 34).
16. In sostanza, la società ricorrente sollecita, con il motivo in esame, una revisione del ragionamento decisorio, sottolineando la validità di un’opzione ricostruttiva diversa da quella adottata dal giudice di merito (e, cioè, proponendo un nuovo giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità), a fronte di motivazione della sentenza di secondo grado che ha posto in rilievo, attraverso un esame , del regolamento contrattuale esteso alla molteplicità di reciproci interessi e di finalità in esso compresenti, come il contratto non contenesse “alcun accenno, neppure indiretto, ai finanziamenti regionali ed al fatto che l’attività della ricorrente dipendesse da tali contributi, tanto più che essa riguardava sia il settore clinico sia l’attività di formazione di tutte le figure professionali come pure anche il settore di ricerca e che non si doveva svolgere in via esclusiva presso la struttura di Montecompatri” e che ha altresì accertato come la Regione Lazio non avesse “del tutto interrotto i finanziamenti in favore dell’appellante incidentale, ma bensì” avesse “soltanto ridotto l’ammontare dei medesimi”: ciò che, nella ricostruzione della Corte di appello, portava ad escludere la sussistenza di una fattispecie di impossibilità assoluta della prestazione, tenuto conto della configurazione di tale nozione nella giurisprudenza di legittimità (cfr. sentenza, pp. 10-11), convergendo semmai gli elementi evidenziati nella direzione di una sopravvenuta maggiore onerosità del contratto.
17. Per ciò che attiene al quinto motivo, si osserva, in primo luogo, che la ricorrente, cumulando una pluralità di riferimenti normativi disgiunti dall’esposizione di specifiche censure ad essi riconducibili, non si è attenuta all’orientamento, per il quale “il ricorso per cassazione richiede, da un lato, per ogni motivo di ricorso, la rubrica del motivo, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui il motivo medesimo – tra quelli espressamente previsti dall’art. 360 cod. proc. civ. – è proposto; dall’altro, esige l’illustrazione del singolo motivo, contenente l’esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza” (Cass. n. 18421/2009).
18. Si deve inoltre osservare che la ricorrente, nel censurare l’applicazione delle regole di cui agli artt. 1362 e segg. cod. civ., si è limitata a contrapporre una propria e diversa interpretazione, tanto in ordine al contratto quanto in ordine ai motivi di recesso, agli esiti cui è pervenuto il giudice di appello, là dove la Corte territoriale ha ritenuto di ascrivere all’ambito dell’art. 409 n. 3 cod. proc. civ. il rapporto intercorso sulla scorta della stessa qualificazione contrattualmente attribuita dalle parti e dei coerenti elementi fattuali desunti dalle dichiarazioni rese dalla Z. in sede di interrogatorio formale (cfr. sentenza, p. 9 cit.); là dove, inoltre, la Corte ha escluso, esaminato l’art. 5 del contratto, la sussistenza di una giusta causa di recesso, rilevandone la natura di fatto imputabile ad una delle parti, ed escluso la sussistenza di una fattispecie di impossibilità sopravvenuta, alla luce – come già rilevato sub 16 – di una più ampia e articolata lettura delle previsioni contrattuali.
19. In ciò la ricorrente non si è uniformata al consolidato e risalente orientamento di questa Corte, per il quale la parte che intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nella interpretazione di un contratto da parte del giudice di merito “non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., ma deve specificare i canoni in concreto violati ed il punto ed il modo in cui il giudice di merito si sia da essi discostato perché in caso diverso la critica della ricostruzione della volontà contrattuale operata dal giudice e la proposta di una diversa interpretazione investe il merito delle valutazioni del giudice ed è, perciò, inammissibile in sede di legittimità” (cfr., fra le molte, Cass. n. 7641/1994).
20. E’ stato altresì più di recente precisato che “l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile , in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, nonché, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, ancorché la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire. La denuncia del vizio di motivazione deve essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra” (Cass. n. 4178/2007).
21. In conclusione, il ricorso principale della S. R. S.p.A. deve essere dichiarato inammissibile.
22. Ne consegue che il ricorso incidentale è privo di efficacia (art. 334, comma 2°, cod. proc. civ.).
23. Esso, infatti, risulta notificato in data 6 giugno 2016 e, pertanto, oltre il termine di sessanta giorni decorrente dalla notificazione della sentenza di secondo grado, avvenuta l’8 marzo 2016.
24. E’ invero consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio, secondo il quale, in tema di decorrenza del termine breve per l’impugnazione, il co. 1° dell’art. 326 cod. proc. civ. deve essere interpretato nel senso che, pur in mancanza di un’espressa previsione al riguardo, i termini di cui all’art. 325 decorrono dalla notificazione della sentenza non solo per il soggetto cui la notificazione è diretta, ma anche per il notificante, attesa la comunanza ad entrambe le parti del termine stesso e non potendo dubitarsi che la parte, che provvede alla notifica della sentenza, non solo abbia piena conoscenza legale della stessa, ma soprattutto subisca anch’essa gli effetti di quell’attività sollecitatoria ed acceleratoria (espressamente individuata dal primo comma dell’art. 326 nella notificazione della sentenza) che impone all’altra parte (Cass. n. 191/2001; conforme, fra le molte, n. 13732/2007).
25. La società ricorrente è tenuta al pagamento, a favore della controparte, delle spese di 1 giudizio (Cass. n. 4074/2014), liquidate come in dispositivo.
26. Non ricorrono le condizioni per il versamento del doppio del contributo unificato a carico della ricorrente incidentale (Cass. n. 18348/2017).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso principale e inefficace quello incidentale; condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 8.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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