CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 agosto 2020, n. 17325
Tributi – IRPEF – Previdenza complementare – Fondo previdenza integrativa aziendale – Dirigente – Somme erogate in un’unica soluzione in occasione della cessazione del rapporto di lavoro – Regime fiscale
Fatti di causa
F.G. ex dirigente E. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio n. 175/10/15 depositata il 21.1.2015.
La vicenda tra origine dal contrasto insorto in merito al regime fiscale da applicare agli importi corrisposti dall’ente suindicato, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro ai dipendenti con qualifica dirigenziale. Il ricorrente riteneva che dovessero essergli restituite le somme che l’E. aveva trattenuto quale sostituto d’imposta in misura superiore al dovuto. A tal fine aveva inoltrato, senza esito, domanda all’Agenzia delle Entrate.
Formatosi il silenzio rifiuto, il F. aveva adito la CTP di Roma che aveva accolto la domanda formulata in via subordinata, nel senso di ritenere applicabile l’aliquota del 12,50% sulla sola parte dell’incremento patrimoniale riconducibile al “rendimento” delle somme liquidate come indennità di natura assicurativa, in base all’accordo aziendale del 16 aprile 1986, istitutivo del fondo di Previdenza Integrativa Aziendale (PIA), restando la restante parte soggetta a tassazione separata.
L’Ufficio appellava la decisione di prime cure ed il contribuente, nel costituirsi, avanzava appello incidentale. La CTR, con la sentenza n. 207/4/07, accoglieva l’appello dell’Ufficio e respingeva quello incidentale. Il F. impugnava tale decisione per la sua cassazione e questa Corte, con ordinanza n. 4880/12, accoglieva l’impugnativa e rinviava alla CTR per nuovo giudizio, in base al principio di diritto con detta pronuncia affermato.
Il contribuente riassumeva la causa, decisa con la sentenza n. 175/10/2015, impugnata in questa sede con il ricorso in esame basato su cinque motivi.
Si è costituita l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
Ragioni della decisione
Tanto premesso si osserva:
Con il primo motivo, il ricorrente censura che la CTR abbia, errando, accolto l’originario appello dell’Amministrazione, dichiarato inammissibile il proprio appello incidentale, ritenendo inammissibile la produzione di nuovi documenti, invece, giustificata dalla novità del thema decidendum che il giudice di legittimità avrebbe introdotto e demandato al giudice del rinvio.
La premessa da cui muove il ricorrente non trova però riscontro nella richiamata pronuncia di legittimità n. 4880/12.
Infatti, in essa si legge al capo 5: ” la questione di diritto sottoposta alla Corte concerne il regime fiscale applicabile alle somme erogate in un’unica soluzione ai soggetti iscritti a forme di previdenza complementare in data anteriore al 28.4.. 1993 ex d.lgs n.14 del 1993″. Ed aggiungeva che “tale questione ha trovato recente soluzione nella sentenza della Corte a SS.UU. del 22.6.2011 n. 13642”, riportando alla lettera il passaggio della motivazione in cui essa individuava e circoscriveva la parte della corresponsione, soggetta alla più favorevole aliquota del 12,50%, in quella “proveniente dalla liquidazione del c.d. rendimento (dovendosi intendere per tale il rendimento netto imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato)”.
Tale, dunque, il perimetro in cui il giudice del rinvio doveva svolgere la sua cognizione, avendo, l’ordinanza n. 4880/12, ritenuto che la sentenza del giudice d’appello cassata avesse errato nell’escludere a priori che “i fondi pensione in questione abbiano impiegato i contributi accantonati, operando sul mercato degli investimenti finanziari al di fuori di contratti di assicurazione o di capitalizzazione”.
Il rinvio era, dunque, finalizzato alla verifica da parte del giudice regionale, se, attenendosi al principio di diritto enunciato dalla pronuncia delle SS.UU. n. 13642/2011, vi fosse stato o meno l’impiego dei fondi pensione in questione (nella specie quello PIA ) sul mercato degli investimenti finanziari, con esclusione, dunque, di ulteriori indagini.
In tale delimitata ottica doveva evolvere il nuovo giudizio. E’, infatti, giurisprudenza di questa Corte, cui s’intende dare ulteriore applicazione, che “I limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione, la quale non può essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio, neppure in caso di violazione di norme di diritto sostanziale o processuale o per errore del principio di diritto affermato, la cui giuridica correttezza non è sindacabile dal giudice del rinvio neppure alla stregua di arresti giurisprudenziali successivi della corte di legittimità” (Sez. 3, Sentenza n. 8225 del 04/04/2013; Sentenza n. 27343/2018).
La CTR si è correttamente ad essa conformata ritenendo che dalle risultanze non era possibile desumere che vi fosse stato un impiego sul mercato, da parte del Fondo gestore, del capitale accantonato e quale fosse stato il rendimento in tal modo conseguito.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo.
Il motivo è da ritenere inammissibile. Con esso, infatti la parte mirava a provare aspetti che esulavano dall’ambito della cognizione demandata dall’ordinanza di cassazione al giudice del rinvio. Questi, come detto, avrebbe dovuto verificare se, in base alle prove di cui il ricorrente/creditore era onerato, i fondi riconducibili alla PIA, fossero stati oggetto di effettivo investimenti sul mercato, avendo ritenuto, l’ordinanza n.4880/12, non potesse escludersi, anche per il fondo PIA, la possibilità di siffatte forme di impiego degli accantonamenti.
Non è perciò ravvisabile alcuna omissione nel momento in cui la CTR ha limitato il proprio esame al suddetto ambito, con l’esito esplicitato nella motivazione.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta il mancato esame complessivo e non parcellizzato della documentazione prodotta. Esame che, se complessivo avrebbe consentito al giudice regionale di enucleare il rendimento netto anche del patrimonio PIA, in quanto inglobato nel patrimonio complessivo dell’E. Tal che l’impiego di questo implicava anche l’impiego di quello.
Il motivo appare, però inammissibile in quanto non è coerente all’oggetto della cognizione demandata al giudice del rinvio, che, come detto, avrebbe dovuto verificare se il ricorrente avesse provato l’avvenuto effettivo investimento, degli accantonamenti PIA, sul mercato, nonché la misura dell’eventuale rendimento che ne era scaturito.
Lo stesso motivo in esame, del resto, non specifica quali investimenti sul libero mercato risulterebbero, dalla documentazione prodotta, in concreto effettuati con le somme accantonate sul fondo in questione. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato che “in tema di fondi di previdenza complementare aziendale, il meccanismo impositivo di cui all’art. 6 della l. n. 482 del 1985 si applica sulle somme percepite dai soggetti iscritti, maturate fino al 31 dicembre 2000, provenienti dalla liquidazione del “rendimento netto”, imputabile alla gestione sul mercato finanziario del capitale accantonato da parte del Fondo, il quale non corrisponde alla redditività ottenuta sul mercato dall’intero patrimonio E. – ovvero il rapporto tra il margine operativo lordo e il capitale investito -, per essere quest’ultima dipendente da predeterminati calcoli di matematica attuariale e non già frutto di investimento di accantonamenti sul libero mercato (Sez. 5, Ord. n. 5152 del 26/02/2020; Cass. n.24525 del 2016; Cass. n.2600 del 2016).
E’ da ricordare che la giurisprudenza successiva alla richiamata pronuncia delle SS.UU., ha poi chiarito che il riferimento ad investimenti sul mercato non implica necessariamente un impiego sul solo mercato finanziario, ma anche altre forme purché implicanti il ricorso alle dinamiche di mercato (ad esempio quello immobiliare). Con conseguente esclusione, come detto, di rendimenti di polizza calcolati attraverso l’adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico attuariali di capitalizzazione, (ex multis Cass. n.27610/2018; Cass. n.23870/2019; Cass. 5666/2020).
Il quarto motivo, è infondato in quanto con esso si lamenta il mancato ricorso della Commissione all’utilizzazione dei suoi poteri istruttori ex art.7 del d.lgs n546 del 1992. In tal modo, però, il ricorrente trasferisce tout court sul giudicante l’onere (neanche parzialmente assolto) di provare la sua pretesa creditoria, mentre i poteri istruttori del giudice tributario hanno solo carattere integrativo. Questa Corte ha più volte affermato che “In tema di contenzioso tributario, l’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, che attribuisce al giudice il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova, dev’essere interpretato alla luce del principio di terzietà sancito dall’art. 111 Cost., il quale non consente al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori: tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto ove sussista un’obiettiva situazione di incertezza, al fine d’integrare gli elementi di prova già forniti dalle parti, e non anche nel caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della controversia. (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 4762 del 24/02/2020).
Infine, con il quinto, il ricorrente lamenta che la CTR non avesse motivato in merito al mancato riconoscimento degli interessi maturati sulla maggior imposta versata, già chiesti con l’appello incidentale avverso la sentenza di primo grado.
Il motivo è assorbito dal rigetto del ricorso.
Le spese possono essere compensate in quanto la giurisprudenza sulla complessa problematica ha assunto un assetto stabile solo progressivamente e in un non breve arco di tempo. Ricorrono i presupposti per il versamento del c.d. doppio contributo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Spese compensate.
Si dà atto, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002 della sussistenza dei presupposti per il versamento dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, per il ricorso introduttivo, se dovuto.
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