CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 dicembre 2019, n. 34166
Tributi – Redditi di impresa – Spese per organizzazione di sfilate di moda ed altri eventi di richiamo, destinati alla collocazione dei prodotti – Qualificazione come spese di rappresentanza
Fatti di causa
1. M. S. ricorre con quattro motivi avverso l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n.587/04/12 della Commissione Tributaria Regionale della Campania, sezione staccata di Salerno (di seguito C.T.R.), emessa il 15/10/2012, depositata il 16/11/2012 e non notificata, che ha parzialmente accolto l’appello dell’Ufficio, rigettando l’appello incidentale del contribuente, in controversia relativa all’impugnativa dell’avviso di accertamento, con cui l’Amministrazione Finanziaria aveva determinato maggiori Irpef ed Irap per l’anno d’imposta 2006.
2. Con la sentenza impugnata, la C. T. R. riteneva che i costi oggetto di recupero a tassazione fossero inerenti all’attività imprenditoriale svolta dal contribuente, ma fossero qualificabili quali spese di rappresentanza, e non di pubblicità, con conseguente deducibilità nella misura del 30% del loro ammontare.
Inoltre, il giudice di appello, quanto all’appello incidentale del contribuente, riteneva che le spese sostenute da un soggetto estraneo (la figlia dell’imprenditore) non potessero considerarsi attinenti all’attività imprenditoriale, rilevando che la carta di credito utilizzata non risultava riferibile all’azienda.
3. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso e spiega ricorso incidentale, affidato a due motivi, cui a sua volta il sig. M. S. resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo del ricorso principale, M. S. denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 108 e 109 d.P.R. n.917/86, nonché la violazione degli artt.1321 e 1322 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
Secondo il ricorrente, la C.T.R. avrebbe erroneamente qualificato come spese di rappresentanza, e non di pubblicità, i costi, per pranzi, viaggi, ospitalità, omaggi, sostenuti dal contribuente per l’attività d’intermediazione commerciale nel campo della moda, ritenendo che, ai fini della completa deducibilità di tali costi, fosse necessaria la prova, assente nel caso di specie, dell’esistenza di specifici contratti onerosi stipulati con i terzi fornitori dei servizi contestati.
Deduce, invece, il ricorrente che alle spese suddette doveva riconoscersi carattere pubblicitario perché, indipendentemente dal ricorso ad imprese terze, appositamente ingaggiate, esse erano finalizzate alla promozione delle vendite ed all’acquisizione dei clienti, sia pure al di fuori di una specifica trattativa già avviata, in occasione di sfilate ed eventi, oppure ad avviare una trattativa, “stringere i tempi” o “migliorare il clima” per il raggiungimento di un accordo negoziale.
Inoltre, il ricorrente rileva l’infondatezza dell’argomentazione della C.T.R., che ha rilevato che con tali spese l’agente commerciale M. avrebbe favorito la vendita di prodotti di terzi, poiché, in definitiva, egli avrebbe incrementato il proprio volume d’affari e le provvigioni maturate per l’attività di intermediazione commerciale.
Infine, secondo il ricorrente, il giudice di appello, in violazione delle norme di cui agli artt. 1321 e 1322 c.c., non avrebbe considerato la circostanza che alcuni contratti (come quello concluso con la Falber s.r.l.) prevedevano che l’agente dovesse sopportare le spese inerenti alla promozione delle vendite, per cui le prestazioni contestate costituivano un doveroso adempimento negoziale, a fronte del quale percepiva un compenso, quindi un costo interamente deducibile.
1.2. Il motivo è infondato e va rigettato.
1.3. La fattispecie trae origine dall’avviso di accertamento con cui l’Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione costi per un importo di euro 82.576,00, perché non inerenti all’attività d’impresa e riferibili al consumo personale o familiare dell’imprenditore, o, comunque, estranei all’attività esercitata (nel caso di specie di intermediazione commercio di tessile, abbigliamento e calzature).
A seguito di tempestivo ricorso del contribuente, la C.T.P. di Avellino annullava in parte l’accertamento, confermando la non deducibilità dei soli costi indicati nell’allegato al P.V.C. n.23, in quanto il pagamento era avvenuto con carta di credito intestata ad Alessandra M., figlia del contribuente.
L’Ufficio proponeva appello avverso la sentenza di primo grado, contestando, in via principale, l’inerenza dei costi recuperati a tassazione e deducendo, in via subordinata, la loro natura di spese di rappresentanza e non di pubblicità.
Anche il contribuente promuoveva appello incidentale per il riconoscimento della deducibilità dei costi pagati tramite carta di credito intestata alla figlia Alessandra.
La C.T.R. rigettava in toto l’appello incidentale ed accoglieva la domanda subordinata dell’appello principale, qualificando le spese come di rappresentanza e non di pubblicità.
Secondo la ricostruzione in fatto del giudice di appello, il contribuente, per finalità aziendali, era solito organizzare, in appositi spazi espositivi, sfilate di moda ed altri eventi di richiamo, destinati alla collocazione dei prodotti. Le spese oggetto di contestazione, pur non presentando una stretta correlazione temporale con eventi e commissioni, potevano essere ritenute inerenti all’attività d’impresa, riguardando beni e servizi offerti a terzi (modelle, vip, stilisti e fornitori), e potevano essere considerate quali spese di rappresentanza.
Secondo un ormai consolidato orientamento di questa Corte, “in tema di redditi d’impresa, il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato negli obbiettivi, anche strategici, perseguiti mediante le stesse, che, nella prima ipotesi, coincidono con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio, nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società, mentre, nell’altra, consistono in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto” (Sez. 5, Sentenza n. 12676 del 23/05/2018).
Nella motivazione della sentenza citata, la Corte ha anche chiarito che “costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta (Cass. n. 10910 del 27/05/2015 e Cass.n.8121 del 22 aprile 2016). In definitiva, si ritiene che debbano farsi rientrare nelle spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vadano, invece, considerate spese di pubblicità o propaganda quelle altre sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali (Cass. 7803/2000). Il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, può farsi coincidere con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio, nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto (Cass. 3433/2017; conf. da ultimo 21977/2015)”.
Alla stregua dei principi richiamati, nel caso di specie, avendo il giudice escluso che il contribuente abbia dimostrato uno stretto collegamento temporale tra le spese e le commissioni o gli eventi documentati, esse vanno ricondotte a finalità di rappresentanza, dovendosi escludere uno scopo diretto di promozione e di incremento commerciale.
In tal senso depone anche la natura della spesa (relativa a viaggi, alberghi, ristoranti, acquisti di beni di consumo costosi, trasporti, abbonamenti calcistici), che non tende alla promozione della commercializzazione di un prodotto, alla conquista di un mercato o alla diffusione di una specifica immagine commerciale, ma piuttosto alla crescita d’immagine ed al maggior prestigio dell’impresa, nonché al potenziamento delle sue possibilità di sviluppo.
D’altronde tale conclusione trova riscontro, a contrario, nella sentenza n. 24227 del 29/11/16, con cui la Cassazione ha stabilito che, ai sensi dell’art. 108, co.2, del Tuir, devono qualificarsi come spese di pubblicità (interamente deducibili) quelle sostenute da un’azienda di moda (in quel caso produttrice di capi di abbigliamento) per offrire vitto e alloggio a propri agenti e clienti in occasione di un meeting (nella specie, una sfilata di moda), in quanto diretta a incrementare le vendite.
In tale decisione la Corte fa presente che l’obiettivo perseguito con le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente concernente la produzione realizzata in un determinato contesto, laddove, invece, le spese di rappresentanza coincidono con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società. In quel caso, è stato ritenuto che la spesa sostenuta per la presentazione dei predetti capi da parte della società produttrice ad una clientela selezionata di soggetti operanti nel settore e probabili acquirenti, costituisca spesa destinata ad incrementare le vendite presso i predetti clienti e, quindi, spesa di natura pubblicitaria.
Anche l’acquisto e la cessione di beni (oggetti di notevole valore commerciale, come orologi e foulard di marca pregiata), in alcun modo ricollegabili ai prodotti commercializzati dall’agente, non può ricadere nell’ambito delle spese pubblicitarie, mancando un collegamento obiettivo ed immediato con la promozione di un prodotto o di una produzione e con l’aspettativa diretta di un maggior ricavo.
2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la motivazione omessa o insufficiente su di un punto controverso e decisivo del giudizio.
Il ricorrente, sul presupposto che non sia applicabile al processo tributario la nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n.5, c.p.c., introdotta dall’art. 54 del d.l. 83/ 2012, censura la motivazione omessa, o solo insufficiente, della sentenza impugnata, in relazione alle specifiche ragioni per le quali sono state disattese le giustificazioni in ordine all’esistenza di clausole contrattuali, che ponevano a carico dell’agente le spese di promozione delle vendite delle imprese committenti.
Inoltre il contribuente deduce che, come riferito da numerosi dipendenti e clienti, i costi contestati attenevano all’allestimento di quattro show rooms, dotati di cucina e personale specializzato stabilmente assunto, nonché all’organizzazione di sfilate ed altri eventi, anche all’improvviso per l’arrivo imprevisto di clienti, con la presenza del titolare e l’aiuto della figlia Alessandra.
Con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la motivazione omessa o insufficiente su di un punto controverso e decisivo del giudizio.
In particolare, il ricorrente deduce che la C.T.R., nel rilevare che la carta di credito intestata alla figlia del contribuente, Alessandra M., non fosse ricollegabile all’attività di impresa del padre, non ha motivato in ordine alla documentazione bancaria prodotta dal contribuente, dalla quale sarebbe emerso che le spese della carta, formalmente intestate ad Alessandra, ricadevano sul conto corrente acceso come “M. S. rappresentanze”.
Con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la violazione dell’art.36 n.4 d.lgs. n.546/92 in relazione all’art. 111 Cost., poiché la sentenza impugnata sarebbe del tutto priva di motivazione.
2.2. Il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili ed il quarto è infondato.
2.3. Nella fattispecie trova applicazione ratione temporis ( ai sensi dell’art. 54 co. 3 d.l. n.83/2012) il nuovo testo dell’art. 360 co.l nr. 5 c.p.c., in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata in data successiva all’11 settembre 2012, sicché il vizio della motivazione è deducibile soltanto in termini di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
“Le disposizioni sul ricorso per cassazione, di cui all’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, circa il vizio denunciatale ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ed i limiti d’impugnazione della “doppia conforme” ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 348-ter cod. proc. civ., si applicano anche al ricorso avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, atteso che il giudizio di legittimità in materia tributaria, alla luce dell’art. 62 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non ha connotazioni di specialità. Ne consegue che l’art. 54, comma 3-bis, del d.l. n. 83 del 2012, quando stabilisce che le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al d. Igs. 31 dicembre 1992, n. 546, si riferisce esclusivamente alle disposizioni sull’appello, limitandosi a preservare la specialità del giudizio tributario di merito” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 nr. 19881 ; Cass. S.U. 7.4.2014 nr. 8053 citata) la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d. l. 83/ 2012 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
E’ pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
Inoltre, l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.
Nel caso di specie, il ricorrente non individua un fatto decisivo, di cui la C.T.R. avrebbe omesso l’esame, ma, inammissibilmente, deduce la mera insufficienza motivazionale, non più censurabile, sollecitando, in maniera altrettanto inammissibile, una diversa valutazione degli elementi di fatto, già oggetto di esame da parte del giudice appello, che, in base ad essi, ha ritenuto di qualificare le spese come di rappresentanza e di escludere l’inerenza di alcune di esse (quelle effettuate con carta di credito intestata alla figlia del contribuente) all’attività imprenditoriale, perché disposte da un soggetto estraneo all’impresa.
3.1. Passando al ricorso incidentale, con il primo motivo, l’Agenzia delle Entrate denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt.108 e 109 T.u.i.r. e dell’art.2697 c.c., in relazione all’art.360, comma 1, n.3, c.p.c.
Secondo l’Agenzia ricorrente, la C.T.R., nel riconoscere la deducibilità nella misura del 30% delle spese di rappresentanza, ha violato l’art.108 T.u.i.r., che prevede la deducibilità di tali spese nella misura pari al terzo del loro ammontare, per quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi.
Inoltre, la C.T.R. avrebbe errato nel ritenere che le spese (almeno quelle effettuate con la carta di credito intestata alla figlia del contribuente), tutte riferibili a beni o prestazioni suscettibili di uso privato (quali viaggi, alberghi, ristoranti, acquisti di beni di consumo costosi, trasporti, abbonamenti calcistici), fossero inerenti all’attività di impresa, in assenza di idonea documentazione attestante la loro effettiva destinazione, con ciò violando l’art. 109 T.u.i.r e l’art.2697 c.c. in tema di riparto dell’onere probatorio.
Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia l’insufficiente motivazione su di un fatto decisivo e controverso, non avendo la C.T.R. esplicitato in base a quali elementi aveva ritenuto che il contribuente avesse assolto all’onere di provare l’inerenza delle singole spese contestate.
3.2. I motivi sono in parte inammissibili ed in parte infondati e vanno rigettati.
Il comma 2 dell’art.108 T.u.i.r., vigente ratione temporis, recitava: “Le spese di pubblicità e di propaganda sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi. Le spese di rappresentanza sono ammesse in deduzione nella misura di un terzo del loro ammontare e sono deducibili per quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi. Si considerano spese di rappresentanza anche quelle sostenute per i beni distribuiti gratuitamente, nonché se recano emblemi, denominazioni o altri riferimenti atti a distinguerli come prodotti dell’impresa, e i contributi erogati per l’organizzazione di convegni e simili. Le predette limitazioni non si applicano ove le spese di rappresentanza siano riferite a beni di cui al periodo precedente di valore unitario non eccedente euro 25,82”.
La C.T.R., nel riconoscere la deducibilità delle spese di rappresentanza nella misura del 30%, ha fatto comunque riferimento a quanto previsto dall’art. 108 T.u.i.r., che prevede, non solo la entità delle spese deducibili, ma anche le modalità di deduzione, che devono intendersi richiamate con il rinvio alla normativa in materia.
Per quanto riguarda, poi, la violazione dell’art.109 T.u.i.r., che prevede il requisito dell’inerenza ai fini della deducibilità delle spese, e dell’art. 2697 c. c., sul riparto dell’onere probatorio, deve rilevarsi che per le spese di rappresentanza l’inerenza va valutata in base ad un criterio di ragionevolezza, secondo cui la spesa deve essere ragionevole e coerente in funzione dell’obiettivo aziendale e con gli usi e pratiche commerciali del settore in cui l’impresa opera.
Nel caso di specie, la C.T.R. ha ritenuto in fatto che le spese fossero inerenti ed avessero finalità di rappresentanza, pur non presentando una stretta correlazione temporale con eventi e commissioni, in quanto riguardavano beni e servizi offerti a terzi del settore (modelle, vip, stilisti e fornitori) ed erano, quindi, finalizzate alla crescita d’immagine ed al maggior prestigio dell’impresa, nonché al potenziamento delle sue possibilità di sviluppo.
L’accertamento in fatto del giudice di appello (che evidentemente non riguarda le spese della figlia Alessandra, per le quali la C.T.R. ha escluso l’inerenza all’attività d’impresa) non appare adeguatamente impugnato per vizio di motivazione, poiché l’Agenzia delle entrate non indica un fatto decisivo, di cui la C.T.R. avrebbe omesso l’esame, ma inammissibilmente deduce la mera insufficienza motivazionale, non più censurabile, sollecitando genericamente, in maniera altrettanto inammissibile, una diversa valutazione degli elementi di fatto, già oggetto di esame da parte del giudice appello.
Per quanto fin qui detto il ricorso principale e quello incidentale vanno rigettati.
La reciproca soccombenza giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensando le spese del giudizio di legittimità;
sussistono i requisiti per porre a carico del ricorrente principale il pagamento del doppio contributo, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d. P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012.
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