CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 ottobre 2022, n. 30957
Lavoro – Dipendenti occupati in turni continuativi ed avvicendati – Differenze retributive – Crediti di lavoro – Prescrizione – Requisito della stabilità reale – Assenza – Decorrenza dalla cessazione del rapporto di lavoro
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che, in accoglimento del ricorso proposto da A.B. ed altri sette dipendenti di A. s.p.a., aveva condannato la società datrice di lavoro al pagamento delle differenze retributive derivanti dall’applicazione delle maggiorazioni per lavoro notturno e notturno festivo nella misura prevista dall’art. 11 comma 10 del c.c.n.I. per i dipendenti occupati in turni “continuativi ed avvicendati”. Aveva riproporzionato la retribuzione da corrispondere ai dipendenti in part-time rispetto a quella erogata a quelli a tempo pieno. Aveva ritenuto sussistente la violazione dell’art. 4 del d.lgs. n. 61 del 2000 sul divieto di discriminazione. Aveva rigettato l’eccezione di prescrizione estintiva dei crediti azionati sul presupposto che, per effetto delle modifiche apportate all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 dalla c.d. Legge Fornero, non potesse essere ritenuta sussistente la stabilità del rapporto di lavoro.
2. Per quanto qui ancora interessa la Corte territoriale ha ritenuto che per effetto delle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012 all’art. 18 della legge n. 300 del 1970 non sarebbe più possibile ritenere che i rapporti di lavoro, ai quali pure si applica la citata disposizione, siano in senso sostanziale assistiti da stabilità reale. Ha rammentato che la prescrizione dei crediti di lavoro decorre in corso di rapporto solo qualora all’annullamento del licenziamento dichiarato illegittimo segua la completa reintegrazione del lavoratore nella posizione giuridica preesistente poiché solo in tal caso è possibile affermare che non sussista per il lavoratore quel timore di essere licenziato che lo induca a rinunziare ai propri diritti ed il nuovo assetto dell’art. 18 dello statuto, che prevede la reintegrazione al di fuori dei casi di licenziamenti nulli o discriminatori, solo in ipotesi limitate non assicurerebbe perciò la ricordata stabilità del rapporto che consenta di ritenere che la prescrizione possa decorrere anche in corso di rapporto secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata data all’art. 2948 c.c..
3. Per la cassazione della sentenza ricorre A.I. s.p.a. con un unico motivo al quale resistono con controricorso i lavoratori. Il Procuratore Generale, ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176 e succ. mod., ha concluso per il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
4. Con l’unico motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 c.c. e si deduce, in estrema sintesi, che non vi sarebbero motivi per una diversa applicazione dell’art. 2948 c.c., come risultante dai noti interventi della Corte Costituzionale prima, in generale, con le sentenze rin. 63 del 1966 e 143 del 1969 e poi con le decisioni n. 86 del 1971 e 174 del 1972 che si sono occupate dell’incidenza sul sistema creatosi dell’art. 18 della legge 30 maggio 1970 n. 300. Rammenta che l’orientamento tracciato dalla Corte Costituzionale aveva ricevuto conferma dalle sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 1268 del 12.4.1976 ed insiste nel ritenere che anche in esito alle modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto dalla legge n. 92 del 2012 il sistema della prescrizione dei crediti di lavoro, che matura in corso di rapporto, debba restare invariato stante la forza di resistenza da cui il lavoro subordinato privato resta assistito. Sottolinea infatti che permane la reintegrazione nel posto di lavoro non solo per i vizi più gravi (licenziamento discriminatorio e ritorsivo) ma anche quando il fatto contestato al lavoratore risulti insussistente o punibile con una sanzione conservativa ovvero sia manifesta l’insussistenza del fatto addotto in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In definitiva contesta che sia configurabile, in esito alla riforma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 una situazione di metus del lavoratore.
5. Il motivo non può essere accolto.
6. Come affermato da questa Corte con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022, decisa nella medesima camera di consiglio della presente controversia, la questione, che è devoluta per la prima volta a questa Corte, è ben riassunta nell’affermazione della società ricorrente che ritiene che permanga (tuttora) la garanzia, nel rapporto di lavoro degli occupati in imprese aventi i requisiti dimensionali stabiliti dall’art.18 I. 300/1970, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 comma 42 della legge 92/2012 e dagli artt. 3 e 4 del decreto legislativo n. 23/2015, di quel regime di stabilità in presenza del quale l’art. 2948, n. 4 c.c., cosi come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 1966 e delle successive (in particolare: Corte Cost. 143 del 1969; n. 86 del 1971 e n. 174 del 1972), sicché sarebbe consentito il decorso della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro.
6.1. Ritiene il Collegio che si tratti di questione che ben può essere affrontata e risolta in continuità sostanziale con l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il cd. “diritto vivente”), nella responsabile consapevolezza dell’indubbio e significativo cambiamento operato dalle riforme intervenute sul sistema introdotto dalla legge n. 300 del 1970, cui non si può semplicemente replicare con argomenti che non tengano di ciò conto.
6.2. Se quella suindicata è la questione in esame, il suo focus è costituito dalla individuazione del termine di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4 c.c., in relazione all’art. 2935 c.c. (momento dal quale il diritto possa essere fatto valere), per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di (“adeguata”) stabilità o meno del rapporto di lavoro.
6.3. Ebbene, l’art. 2948, n. 4 c.c. deve essere letto (così come gli artt. 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c.) nella sua accezione costituzionalmente legittima, in esito ai noti interventi evolutivi della Corte costituzionale:
a) dapprima, di illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 36 Cost., limitatamente alla parte che consente la decorrenza della prescrizione del diritto alla retribuzione durante il rapporto di lavoro (Corte cost. 10 giugno 1966, n. 63), sulla base dell’esistenza di “ostacoli materiali”, individuati nella situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto … per timore del licenziamento; cosicché la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell’effetto che l’art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione” (sub punto 3 del Considerato in diritto);
b) successivamente, di delimitazione del perimetro della suddetta pronuncia, nel senso di non estensibilità ai rapporti di pubblico impiego (sia con lo Stato, sia con altri enti pubblici), per avere questi una particolare forza di resistenza, data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali avverso la sua illegittima risoluzione, tali da escludere che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti (Corte cost. 20 novembre 1969, n. 143, Considerato in diritto, punto 1);
c) quindi, in coerente sviluppo interpretativo del principio (di stabilità del rapporto) affermato da quest’ultima sentenza, fatto allora “valere per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo”, di “applicazione in tutti i casi di sussistenza di garanzie che si possano ritenere equivalenti a quelle disposte per i 5 rapporti medesimi e pertanto, verificandosi una siffatta analogia, a quei rapporti di lavoro, ai quali siano applicabili le leggi 15 luglio 1966, n. 604 e 20 maggio 1970, n. 300, “di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare” (Corte cost. 12 dicembre 1972, n. 174, Considerato in diritto, punto 3).
6.4. Nel solco dell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale, si è posta anche questa Corte di legittimità, che, con un noto arresto nella sua più autorevole composizione, ha ben chiarito la distinzione del doppio regime di (decorrenza della) prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro. Essa ha così enunciato il principio, poi costantemente seguito, di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità: dovendosi ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Il che, se per la generalità dei casi coincide(va) attualmente con l’ambito di operatività della legge 20 maggio 1970, n. 300 (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604), può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d’opera una tutela di pari intensità (Cass. s.u. 12 aprile 1976, n. 1268).
6.5. Appare evidente che la stabilità del rapporto di lavoro si fondi su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Al tempo stesso, come essa si saldi con la decorrenza della prescrizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2935 e (in particolare) 2948, n. 4 c.c. (nella sua lettura costituzionalmente legittima), nel corso del rapporto, a mano a mano che maturino i diritti che il lavoratore possa far valere; essa decorrendo invece dalla sua cessazione, qualora non vi sia stabilità del rapporto.
6.6. È risaputo che la prescrizione, in quanto modalità generale di estinzione (per non esercizio per un tempo determinato dalla legge) dei diritti, sia istituto che invera il principio di certezza del diritto, in riferimento particolare alla sua decorrenza, ossia al momento in cui il diritto medesimo possa essere fatto valere. Giova qui sottolinearne la fondamentale importanza, prima ancora che sul piano normativo ordinamentale, sul piano della stessa civiltà giuridica di un Paese, quale principio di affidabilità per tutti: sull’effettività dei diritti e sulla loro tutela, sulle relazioni familiari e sociali, sulle transazioni economiche e finanziarie. E come esso si rifletta sulla stessa attrattività di uno Stato, per investimenti e iniziative di intrapresa economica in senso lato, in un sistema di relazioni e di scambi internazionali da tempo strettamente interconnesso, nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese.
7. Se questo è allora il tema, occorre che sia garantita una conoscenza, in termini di generalità e di sicura predeterminazione, di quali siano le regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.
7.1. Pertanto, dovendo ora tali regole essere conformate ad una disciplina dei rapporti di lavoro (instaurati con datori in possesso dei requisiti dimensionali prescritti dall’art. 18, ottavo e nono comma l. 300/1970, nel testo novellato dall’art. 1, comma 42, lett. b) l. 92/2012 e pure richiamato dall’art. 1, terzo comma d.lgs. 23/2015) più flessibilmente modulata in ordine alle tutele previste, a seconda delle vari ipotesi di licenziamento (queste pure suscettibili di una diversa qualificazione, rispetto alla domanda, in sede giurisdizionale), il criterio di individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore deve soddisfare un’esigenza di conoscibilità chiara, predeterminata e di semplice identificazione.
7.2. Ciò presuppone che, fin dall’instaurazione del rapporto, ognuna delle parti sappia quali siano i diritti e soprattutto, per quanto qui rileva, quando e “fino a quando” possano essere esercitati: nel rispetto e nell’interesse del lavoratore, destinatario della previsione in quanto soggetto titolare dei diritti; ma parimenti del datore di lavoro, che pure deve conoscere quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti, per programmare una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d’impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino.
7.3. In realtà, si tratta di interessi (sia pure espressione di posizioni soggettive diversamente collocate nell’organizzazione dell’impresa, rette da un rapporto di subordinazione e tuttavia non antagoniste) largamente convergenti, in una prospettiva più ampia, che sempre andrebbe considerata nell’interpretazione e nella prassi operativa: perché i rapporti di lavoro sono intimamente implicati nella vita dell’impresa, di cui costituiscono componente intrinseca, costituendo essi stessi impresa. E si tratta di un’implicazione tale da modularne la disciplina, siccome decisivamente condizionata dal dato obiettivo dell’andamento dell’impresa medesima, in una sorta di comunione di destino.
8. Al riguardo, merita avere chiara la distinzione tra il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dalla Repubblica, la quale ne promuove (secondo un’evidente declinazione non già descrittiva, ma imperativa del verbo) le condizioni che lo rendano effettivo (art. 4, primo comma Cost.), dal diritto al posto di lavoro, invece oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa. Essa si constata con la massima evidenza nelle situazioni di crisi, nelle quali i due diritti si misurano in una naturale frizione, dovendo quasi sempre la tutela del posto di lavoro cedere a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell’occupazione possibile con la condizione di crisi data.
8.1. Ebbene, da tempo la Corte costituzionale ha letto in questa prospettiva l’art. 4, primo comma Cost.: ossia, nel senso che il diritto al lavoro riconosciuto ad ogni cittadino (pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione né, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto) debba essere considerato un diritto fondamentale di libertà, che lo Stato necessariamente riscontri con l’obbligo di indirizzo dell’attività dei pubblici poteri alla creazione di condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, onde l’esigenza che il legislatore, per quanto di sua competenza, introduca garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, punto 4). E questo insegnamento, secondo cui, non essendo il diritto al lavoro assistito dalla garanzia di stabilità dell’occupazione, spetta al legislatore, “nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale”, adeguare le tutele in caso di licenziamenti illegittimi, mantiene tutta la sua attualità nella sua recente ripresa da parte della stessa Corte costituzionale (sentenza 22 luglio 2022, n. 183, Considerato in diritto, punto 4.2.).
9. Ora, perché del regime di stabilità o meno del rapporto lavorativo, ai fini di immediata e semplice individuazione del termine di decorrenza della prescrizione (in costanza di rapporto, nel primo caso; ovvero soltanto dalla sua cessazione, nel secondo), si abbia una chiara conoscibilità, in via di generale predeterminazione, occorre che esso risulti:
a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato (in caso di successione di due o più contratti di lavoro a termine legittimi, per la decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi previsto dagli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c. dal giorno della loro insorgenza, nel corso del rapporto lavorativo e alla cessazione del rapporto, per quelli che maturino da tale momento, in ragione dell’autonoma e distinta considerazione dei crediti originati da ogni contratto, senza alcuna sospensione della prescrizione negli intervalli di tempo tra l’uno e l’altro, per la tassatività delle cause sospensive previste dagli artt. 2941 e 2942 c.c.; non sussistendo in tali casi il metus del lavoratore verso il datore, siccome presupposto da un rapporto a tempo indeterminato non assistito da alcuna garanzia di continuità: Cass. s.u. 16 gennaio 2003, n. 575; Cass. 5 agosto 2019, n. 20918; Cass. 19 novembre 2021, n. 35676);
b) ovvero, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all’esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post (Cass. s.u. 28 marzo 2012, n. 4942; Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774).
9.1. Infatti, l’individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, ai fini qui d’interesse, in base alla qualificazione ad esso attribuita dal giudice, con un giudizio necessariamente ex post, contraddice radicalmente quei requisiti di chiara e predeterminata conoscibilità ex ante, coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, per l’affidamento di una tale selezione, delicata e fondamentale, al pernicioso criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale, fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema.
10. A questo punto, occorre allora verificare quale sia il regime attuale di stabilità del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, oggetto dell’odierna controversia, una volta che si dia atto del superamento, per effetto delle significative riforme sopravvenute, della esclusività della tutela reintegratoria dell’originario testo dell’art. 18 I. 300/1970, che detta stabilità ha garantito con la rimozione degli effetti di un’illegittima risoluzione del rapporto (come illustrato al superiore punto 6.3.).
10.1. Non è dubbio che le modifiche apportate dall’art. 1 comma 42 della legge n. 92 del 2012, e poi dagli artt. 3 e 4 del decreto legislativo n. 23 del 2015, all’art.18 della legge n. 300 del 1970 abbiano comportato il passaggio da un’automatica applicazione, nel vigore del suo precedente testo, ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile con certezza (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell’ultima retribuzione globale di fatto) ad un’applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. “piena” o “forte”, ovvero “attenuata” o “debole”) assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, punto 9.2).
10.2.Sicché, a seguito del modificato regime sanzionatorio, il giudice deve, come è noto secondo il consolidato insegnamento di questa Corte (bene esemplificato, in particolare da: Cass. 9 maggio 2019, n. 12365, in motivazione, al punto 5, con ampio richiamo di precedenti), procedere ad una valutazione più articolata in ordine alla legittimità dei licenziamenti disciplinari (o per giustificato motivo oggettivo), rispetto al periodo precedente; specialmente, accertando se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 “modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla legge n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo” (così: Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, punto 8). Nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, il giudice deve quindi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dall’art. 18, quarto comma per accedere alla tutela reintegratoria (“insussistenza del fatto contestato” ovvero fatto rientrante “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”): dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal quinto comma dell’art. 18, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale” {ancora Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, punto 10.).
10.3. Al di là della natura eccezionale o meno della tutela reintegratoria, non è seriamente controvertibile che essa, rispetto alla tutela indennitaria e tanto più per effetto degli artt. 3 e 4 d.lgs. 23/2015, abbia ormai un carattere recessivo.
11. Né tale quadro normativo si è qualitativamente modificato a seguito delle recenti pronunce della Corte Costituzionale, con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del novellato testo dell’articolo 18, settimo comma I. 300/1970, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l’insussistenza “manifesta” del fatto posto alla base del recesso (Corte cost. 7 aprile 2022, n.125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere “può” come “deve”), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte cost. 24 febbraio 2021, n. 59).
11.1. Infatti, tali pronunce hanno certamente esteso le ipotesi in cui può essere disposta la reintegrazione, ma non hanno reso quest’ultima la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.
11.2. Neppure si traggono argomenti significativi, ai fini qui in esame, dall’avere la Corte costituzionale ritenuto che anche l’indennità risarcitoria, prevista dall’art. 3, primo comma d.lgs. 23/2015, sia idonea “a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente” (Corte cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, punto 12.3).
11.3. Per una sua corretta comprensione in via interpretativa, tale affermazione deve essere evidentemente collocata nel contesto del percorso argomentativo seguito dalla Corte, per fondare la pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma d.lgs. 23/2015 (sia nel testo originario sia in quello modificato dall’art. 3, primo comma d.l. 78/2018, conv. con mod. nella I. 96/2018), limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
11.4. Ebbene, il contesto è quello di un ripristino dell’indennità forfettizzata stabilita dalla disposizione normativa denunciata, stimata quale irragionevole rimedio, così come in essa prevista, “rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato … suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto” (Corte cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, punto 12.2), proprio in quella funzione di adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore e di adeguata dissuasione del datore.
11.5. Sul presupposto dell’espressa negazione, da parte della medesima Corte, “che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto)”, essa ha pertanto ribadito come ben possa “il legislatore … nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, «non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme» (sentenza n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto)” (Corte cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, punto 9.2).
11.6. Sicché, appare evidente come nemmeno la sentenza ora scrutinata, così come le altre più recenti della Corte costituzionale prima richiamate, modifichi il quadro normativo attuale, anzi confermandolo nell’adeguatezza dell’indennità risarcitoria, come resa costituzionalmente legittima, quale legittimo ed efficace rimedio a protezione del lavoratore nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento previste dal legislatore, accanto alla reintegrazione, pertanto non più forma di tutela ordinariamente affidata al giudice per rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.
12. Ebbene, così ricostruito il quadro normativo, significativamente modificato rispetto all’epoca in cui la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha individuato (ai superiori p.ti 4 e 4.1.) l’essenziale dato di stabilità del rapporto nella tutela reintegratoria esclusiva dell’art. 18 l. 300/1970, non pare che esso assicuri, sulla base delle necessarie caratteristiche scrutinate, una altrettanto adeguata stabilità del rapporto di lavoro.
12.1. Sicché, deve essere ribadito che la prescrizione decorre, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell’art. 18, anteriore alla legge n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d’impiego pubblico.
12.2. Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la legge n. 92 del 2012 (art. 18, primo comma), tanto con il d.lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, primo comma), per il licenziamento ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. (non necessario per il licenziamento discriminatorio: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575; Cass. 7 novembre 2018, n. 28453).
12.3. Non si tratta di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obiettiva di metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un’immediata e diretta correlazione eziologica tra l’esercizio (obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa.
12.4. Un tale ragionamento reputa dotato di stabilità adeguata un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in assenza di una tutela reintegratoria nelle ipotesi diverse di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione di effettive ragioni organizzative e produttive dell’impresa, ovvero di licenziamento disciplinare, per grave inadempimento degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore, fino alla rottura irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti.
12.5. Un tale procedimento argomentativo si fonda sul presupposto che tali ragioni non mascherino in realtà ragioni ritorsive (eventualmente per rivendicazioni retributive in corso di rapporto), comportanti il ripristino della tutela reintegratoria, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, in riferimento ad un’ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo, in realtà per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c.; Cass. 22 giugno 2016, n. 12898, in riferimento ad ipotesi di licenziamento intimato per giusta causa).
12.6. Tuttavia, esso rivela come l’individuazione del regime di stabilità sopravvenga ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all’esito di un accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex posi: così affidandone l’identificazione, o meno, al criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale fonte, come si è più sopra ricordato (cfr. punto 9.1. in fine) di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema.
13. In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.
13.1. Da ciò consegue, non già la sospensione, a norma dell’art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012.
14. Dalle superiori argomentazioni discende il rigetto del ricorso e l’affermazione del seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
14.1. La novità delle questioni trattate, che vengono come si è ricordato all’attenzione di questa Corte per la prima volta, autorizza la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.F\R. n. 115 del 2002 va poi dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della società ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.