CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 luglio 2018, n. 19632
Licenziamento – Alterazione manuale dei dati risultanti dalle timbrature del sistema di rilevazione automatica delle presenze – Copertura di assenze – Condotta fraudolenta – Accertamento
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Milano ha respinto il reclamo proposte dalla C. s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Milano che aveva accertato la illegittimità del licenziamento intimato dalla società a L. F. e, dichiarata la risoluzione del rapporto di lavoro, aveva condannato la società al risarcimento del danno quantificato in 14 mensilità di retribuzione.
2. La Corte territoriale, per quanto qui interessa, al pari del primo giudice, ha ritenuto pacifica in causa l’alterazione manuale dei dati risultanti dalle timbrature del sistema di rilevazione automatica delle presenze. Per contro l’ha ritenuta generica nella parte in cui contesta che le modifiche sarebbero state finalizzate ad ottenere il pagamento di compensi non dovuti facendo figurare fittiziamente la presenza in azienda negli orari oggetto dell’arbitraria modificazione, sicché la lavoratrice non sarebbe stata posta in condizione di replicare puntualmente a tali addebiti. Secondo il giudice di appello infatti una cosa sarebbe l’alterazione delle timbrature, altra invece la copertura di assenze dal servizio con tali alterazioni.
Conseguentemente la Corte di merito ha verificato la proporzionalità della sanzione con riguardo alla contestazione ritualmente formulata e l’ha esclusa avendo accertato che nella specie non era ravvisabile la condotta fraudolenta contestata il che esonerava la Corte dal confrontarsi con la censura con la quale era evidenziata la vincolatività della sanzione prevista dalla contrattazione collettiva.
3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la C. s.p.a. con otto motivi ai quali resiste con controricorso L. F.
Ragioni della decisione
4. I motivi di ricorso:
4.1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 7 comma 2 della legge 20 maggio 1970 n. 300 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ.. Ad avviso della società ricorrente erroneamente la Corte di appello ha ritenuto generica la contestazione sebbene questa contenesse una dettagliata descrizione degli addebiti rispetto ai quali la lavoratrice nel corso del procedimento disciplinare si era compiutamente difesa.
4.2. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ.. Sostiene la ricorrente che la Corte non avrebbe potuto rilevare la genericità della contestazione in assenza di una eccezione della parte nella specie insussistente.
4.3. Il terzo motivo di ricorso ha ad oggetto la violazione dell’art. 229 del c.c.n.l. del settore commercio, dell’art. 3 del codice disciplinare aziendale e dell’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 1970 e si deduce che il fatto contestato alla lavoratrice era pacificamente punibile con il licenziamento.
4.4. Il quarto, motivo denuncia la violazione dell’art. 18 comma 6 della legge n. 300 del 1970 e dell’art. 7 della legge citata atteso che ove pure ammessa la genericità della contestazione dell’addebito si tratterebbe di un vizio procedurale sanzionabile con il solo risarcimento nella misura non superiore a dodici mensilità di retribuzione ai sensi del sesto comma del citato art. 18.
4.5. Con il quinto motivo poi si evidenzia che i giudici di merito, nel ritenere che era stata contestata alla lavoratrice solo una falsità materiale delle timbrature e non anche quella ideologica, avrebbero omesso di esaminare la lettera di contestazione degli addebiti nella sua interezza trascurando di considerare che, al contrario, alla lavoratrice era stato mosso anche il rilievo di aver modificato le timbrature per ottenere il pagamento di compensi non dovuti certificando falsamente la sua presenza in azienda.
4.6. Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 2697 secondo comma cod. civ, per avere la Corte di appello ritenuto provata la assenza di dolo da parte della lavoratrice, l’esistenza di una prassi aziendale circa la rettifica delle timbrature ed il malfunzionamento del computer senza che al riguardo la lavoratrice, che ne era onerata, avesse offerto alcuna prova.
4.7. Nel settimo motivo di ricorso la società si duole della mancata ammissione delle prove testimoniali chieste tese a dimostrare che con le correzioni apportate la lavoratrice aveva falsamente attestato la sua presenza in ufficio, tanto in violazione dell’art. 183 settimo comma cod. proc. civ..
4.8. Con l’ultimo motivo di ricorso, infine, è denunciata la violazione degli artt. 91 e 92 secondo comma cod. proc. civ. in relazione all’avvenuta condanna della società al pagamento delle spese che avrebbero dovuto essere compensate stante il mancato accoglimento della richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro.
5. I primi due motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente, sono in parte inammissibili ed in parte infondati.
5.1.Va rammentato che ai sensi dell’art. 7 comma 2 della legge n. 300 del 1970 ai fini della legittima irrogazione di una sanzione disciplinare si impone la previa contestazione dell’addebito, da intendersi come esposizione dei dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale posto a base della sanzione da irrogare. La contestazione disciplinare deve delineare l’addebito, come individuato dal datore di lavoro, e quindi la condotta ritenuta disciplinarmente rilevante, in modo da tracciare il perimetro dell’ immediata attività difensiva del lavoratore. Conseguentemente per essere specifica deve fornire le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari (cfr. tra le tante Cass. 21/04/2017 n. 10154, 13/06/2013 n. 14880, 06/05/2011 n. 10015). Si tratta evidentemente di un accertamento che richiede un’indagine di fatto che è censurabile in sede di legittimità nei limiti dettati oggi dal testo novellato dall’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., ratione temporis applicabile nel caso in esame (cfr. Cass. ult. cit.).
5.2. Tanto premesso va rammentato che, nella specie, l’addebito non si sostanziava solo nell’alterazione delle timbrature degli orari di entrata e di uscita, ma anche nell’essersene avvantaggiato per ottenere un indebito pagamento di compensi non dovuti. E’ con riguardo a tale ultimo e decisivo profilo fattuale che la Corte di merito ha motivatamente ravvisato una genericità della contestazione. Ed infatti il giudice di appello ha proceduto ad un analitico esame della contestazione disciplinare ed ha accertato che la stessa conteneva una articolata descrizione dell’addebito consistito nella alterazione manuale dei dati risultanti dalle timbrature del sistema di rilevazione automatica delle presenze. Ha poi evidenziato che la norma collettiva invocata (l’art. 229 del c.c.n.l.) e la disposizione del codice disciplinare che la società ha inteso applicare (art. 3 del codice disciplinare), comminano il licenziamento nel caso in cui l’alterazione sia volta a far risultare una fittizia presenza sul luogo di lavoro. Ha quindi sottolineato che la contestazione di addebito, se era dettagliata nell’indicare le date e gli orari che erano risultati alterati, non lo era altrettanto con riguardo alla fittizietà e fraudolenza di tali timbrature alterate. Nel rammentare che in tal modo la ricorrente non era stata posta in grado di comprendere quali fossero le alterazioni che erano da ricollegare ad un fraudolento occultamento dell’assenza dal luogo di lavoro, e quindi di predisporre una difesa circostanziata, ha concluso per la parziale genericità della contestazione.
5.3. Ciò posto, la censura con la quale si lamenta l’erroneità della decisione che ha ritenuto generica la contestazione, nonostante questa contenesse una dettagliata descrizione degli addebiti rispetto ai quali la lavoratrice nel corso del procedimento disciplinare si era compiutamente difesa, non coglie il senso della decisione e si limita ad opporre una sua lettura della contestazione disciplinare, di cui assume la specificità, senza tuttavia in nessun modo scardinare la ricostruzione operata dalla Corte di appello, aderénte al contenuto dell’addebito e rispettosa della regola dettata dall’art. 7 comma 2 dello Statuto dei lavoratori.
5.4. Quanto alla denunciata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. osserva il Collegio che dalla sentenza della Corte di appello risulta che il tema della inadeguata contestazione di alcuni dei fatti contestati apparteneva al processo già nel giudizio di opposizione e dunque la società ricorrente avrebbe dovuto specificare nel suo motivo di ricorso in che termini esattamente la questione era stata sollevata così da consentire a questa Corte di apprezzare l’esistenza del vizio denunciato. Alla genericità del motivo formulato consegue allora la declaratoria di inammissibilità dello stesso.
6. Il terzo, il quinto, il sesto ed il settimo motivo di ricorso, che attengono sotto vari profili all’esatta ricostruzione del fatto addebitato alla lavoratrice ed al conseguente giudizio di gravità, devono essere esaminati congiuntamente e non possono essere accolti perché inammissibili (il quinto che mira ad una diversa ricostruzione dei fatti) e comunque per alcuni aspetti infondati (il sesto non essendo stato affatto invertito l’onere della prova nel dimostrare l’esistenza della prassi aziendale di procedere alla correzione manuale in caso di malfunzionamenti del sistema informatico atteso che la Corte si è basata sulle dichiarazioni rese da alcuni dei testi escussi nel corso del giudizio).
6.1. Va rilevato che una volta espunta dalla contestazione, a cagione della genericità dell’indicazione, la condotta ulteriore rispetto all’alterazione di alcuni cartellini di presenza, correttamente la Corte territoriale ha valutato i soli fatti correttamente contestati alla lavoratrice e, con una ricostruzione che non è incisa dalle censure formulate nel ricorso, ne ha escluso sia la riconducibilità alla fattispecie delineata dalla norma collettiva ( )’art. 229 c.c.n.l. del settore commercio) ed a quella indicata dall’art. 3 del codice disciplinare aziendale. In realtà la censura tende, ancora una volta, ad ottenere dalla Corte di legittimità una riconsiderazione dei fatti non consentita. Quanto ai dedotti vincoli alla valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto al fatto comunque accertato va rilevato che la Corte di merito nella sua valutazione si è attenuta vi principi affermati dalla Cassazione che ha in più occasioni affermato che la valutazione della legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore per una condotta contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa deve essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della “non scarsa importanza” dettata dall’art. 1455 c.c. (cfr. Cass. 05/04/2017 n. 8826, 04/03/2013 n. 5280, 19/08/2004 n. 16260).
6.2. Quanto alla mancata ammissione delle prove testimoniali chieste tese a dimostrare che con le correzioni apportate la lavoratrice aveva falsamente attestato la sua presenza in ufficio la censura è inammissibile poichè con essa il ricorrente si duole della valutazione rimessa al giudice del merito, quale è quella di non pertinenza della denunciata mancata ammissione della prova orale rispetto ai fondamenti della decisione, senza allegare le ragioni che avrebbero dovuto indurre ad ammettere tale prova, né adempiere agli oneri di allegazione necessari a individuare la decisività del mezzo istruttorio richiesto e la tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione (cfr. in termini recentemente Cass. sez. VI-L ord. 04/04/2018 n. 8204 ma già Cass. 23/04/2010 n. 9748) 7. Il quarto motivo di ricorso con il quale è denunciata la violazione dell’art. 18 comma 6 della legge n. 300 del 1970 e dell’art. 7 della legge citata sul rilievo che, ove pure ammessa la genericità della contestazione dell’addebito, allora trattandosi di un vizio procedurale la Corte avrebbe dovuto applicare la tutela dettata dal sesto comma dell’art. 18, non coglie il senso della decisione che, limitata l’analisi della legittimità al solo addebito ritualmente contestato, avendo accertato la sproporzione della sanzione ha, in adesione ai principi dettati in proposito da questa Corte correttamente applicato la tutela indennitaria forte (cfr. con riguardo alle nuove tutele di cui all’art. 18 dello Statuto nel testo novellato dalla legge n. 92 del 2012 Cass. 25/05/2017 n. 13178).
8. Anche l’ultimo motivo che investe il capo delle spese è infondato. 8.1. Costituisce principio ripetutamente affermato da questa Corte dal quale non vi sono ragioni di discostarsi quello secondo cui “in tema di spese processuali, la valutazione della opportunità della compensazione totale o parziale delle stesse rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, potendo essere denunciate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza (consistente nel divieto di condanna alle spese della parte che risulti totalmente vittoriosa), o liquidazioni che non rispettino le tariffe professionali, con obbligo, in tal caso, di indicare le singole voci contestate, in modo da consentire il controllo di legittimità senza necessità di ulteriori indagini (ex plurimis: Cass. 29 aprile 1999, n. 4347; Cass. 14 aprile 2000, n. 4818; Cass. 2 febbraio 2001, n. 1485; cfr. pure Cass. 4 luglio 2011, n. 14542). In particolare, poiché il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, esula dai limiti commessi all’accertamento di legittimità e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (cfr. Cass.19 giugno 2013, n. 15317).” (cfr. Cass. 05/07/2016 n. 13660).
9. In conclusione, per le ragioni sopra esposte, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 5000,00 per compensi professionali, €200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R.
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