CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 settembre 2018, n. 22672
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Processo di riorganizzazione aziendale – Accertamento – Obbligo di repechage
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Roma con sentenza resa pubblica il 4/4/2016, rigettava il reclamo proposto da A.M. nei confronti di C.G. s.r.l. avverso la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in data 10/4/2014 .
A fondamento del decisum, in estrema sintesi, la Corte distrettuale, ritenuta in via di premessa ammissibile la domanda riconvenzionale proposta dal lavoratore in sede di giudizio di opposizione, volta a conseguire l’accertamento della illegittimità del processo di riorganizzazione aziendale, argomentava in ordine alla effettività e non pretestuosità della stessa, nonchè al rapporto di causalità fra tale esigenza ed il licenziamento concretamente operato, essendo emerso quale dato incontestato, che l’agenzia di scommesse sportive R.S. cui il ricorrente era preposto, presentava da tempo risalente un risultato economico di gestione negativo, registrando anche nell’anno anteriore al licenziamento, una chiusura di esercizio connotata da grave disavanzo.
Escludeva il giudice del gravame, che la circostanza potesse ritenersi contrastata dal rilievo della generale situazione finanziaria del gruppo riconducibile alla Holding C. s.p.a., non reputando che la intercorrenza di un collegamento di natura economico-produttiva fra le società facenti parte del medesimo gruppo, consentisse di configurare un unico soggetto giuridico o un centro di imputazione di rapporti autonomo.
Reputava, quindi, assolto l’obbligo di repechage da parte datoriale, che aveva formulato due interpelli in data 18 e 21 novembre 2013 con i quali era stata prospettata ai dipendenti della sede, nella imminenza della sua chiusura, anche la possibilità di accedere alle posizioni inferiori di IV e V livello presso sedi pugliesi e lombarde.
Avverso tale decisione A.M. interpone ricorso per cassazione affidato a sei motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.
Resiste con controricorso la società, che spiega ricorso incidentale affidato ad unico motivo. E’ stata infine, depositata memoria con la quale l’intimata ha dato atto della intervenuta fusione per incorporazione nella S. s.p.a.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, sotto il profilo di error in judicando – per violazione degli artt. 3 L. 604/66 e 18 L. 300/70, degli artt. 2094, 2727, 2729, 2697, 1414, 1344, 2359 c.c., nonché dell’art. 30 d. Ivo n. 276/2003 e degli artt. 115- 116 c.p.c. – e con il secondo motivo, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 comma primo n.5 c.p.c., il ricorrente stigmatizza la sentenza impugnata per avere interpretato i dati istruttori acquisiti in senso confermativo delle ragioni di crisi aziendale, escludendo l’unicità del centro di imputazione di interessi derivante dalla unitarietà della struttura organizzativa, e produttiva, dalla integrazione fra le attività di impresa, dal coordinamento tecnico-organizzativo e dalla utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società.
2. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi siccome connessi, vanno disattesi.
Non può sottacersi che le critiche formulate — che si riferiscono indistintamente a violazioni prospettate come violazione di legge e come vizio di motivazione – sono volte nella sostanza, a sindacare un accertamento condotto dal giudice del merito, che ha portato lo stesso a ritenere non fosse stata dimostrata l’esistenza di un unico soggetto giuridico ovvero di un centro di imputazione di rapporti autonomo rispetto alla società stessa, tale da consentire di ipotizzare una rinnovata collocazione lavorativa nell’ambito di un più ampio assetto organizzativo.
La Corte di merito, vagliato il quadro istruttorio di riferimento, ha escluso la ricorrenza, nella specie, di alcuno degli elementi indicatori della fattispecie simulatoria prospettata, ritenendo neanche dedotto da parte appellante l’elemento, ad esso coessenziale, dell’intento fraudolento. Gli approdi ai quali si è pervenuti, sono del resto conformi a diritto perché coerenti con i dicta di questa Corte, ai quali va data continuità, secondo i quali il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è, di per sé solo, sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò venga rivelato dai seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (vedi ex plurimis, da ultimo, Cass. 31/7/2017 n. 19023); elementi questi, ritenuti dai giudici del gravame insussistenti, alla stregua di uno scrutinio delle allegazioni di parte appellante che non appare sindacabile in questa sede di legittimità. Il ricorrente si è infatti limitato a proporre una diversa valorizzazione degli elementi probatori raccolti, senza neanche specificamente riportare per esteso il testo dei documenti sui quali la censura risulta fondata (bilancio C., visure Camera di Commercio, organigramma C. s.p.a…), in violazione del principio di specificità dei motivi che governa il ricorso per cassazione ex art. 366 n. 6 c.p.c. di cui il principio di autosufficienza è corollario. La statuizione impugnata resiste, dunque, alla censura all’esame.
3. Il terzo motivo prospetta violazione degli artt. 3 L. 604/66 e 18 L. 300/70 nonché degli artt. 1175, 1375, 1326, 1362, 2697, 1414, 1344, 2359 c.c., degli artt. 115-116 c.p.c. Critica la sentenza impugnata per avere erroneamente ritenuto rispettato l’obbligo di repechage da parte datoriale, delineando anche a carico del lavoratore, un onere di indicazione di ulteriori posizioni lavorative equivalenti nelle quali poteva essere utilmente collocato.
4. Con il quarto motivo si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., stante la mera apparenza e la irriducibile contraddittorietà ed illogicità della sentenza, ex art. 360 comma primo n.4 c.p.c..Si prospetta in termini di illogicità, la statuizione della Corte di merito che ha interpretato l’opzione esercitata dal ricorrente in relazione alla qualifica superiore – in assenza di disponibilità ad occupare un posto fra quelli di livello inferiore offerti – in termini di indisponibilità ad un demansionamento.
Si deduce quindi, che l’accettazione da parte del lavoratore, del ruolo rispondente alla qualifica superiore di Product Manager Visual Sport vincolava la società all’assegnazione di tale posto.
5. Le censure, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, in quanto attinenti al mancato rispetto da parte datoriale dell’obbligo di repechage, non sono fondate.
Occorre premettere che nello specifico, non può ritenersi integrato il vizio denunciato di “mancanza della motivazione” agli effetti di cui all’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., che, secondo l’insegnamento di questa Corte, ricorre ove la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero quando essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del “decisum” (vedi Cass. 18/9/2009 n. 20112). E’ dunque configurabile l’ error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, la pronuncia non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento (cfr. Cass. S.U. 3/11/2016 n. 22232).
Orbene, il vizio evocato nei termini richiamati, non può ritenersi riscontrabile nella fattispecie scrutinata.
Vagliato il materiale probatorio, la Corte distrettuale ha infatti espresso l’argomentato convincimento circa l’insussistenza di una possibilità di reimpiego del lavoratore e la conformità della condotta di parte datoriale agli obblighi di repechage “nell’interpretazione rafforzata offerta dal giudice di legittimità”, da esplicarsi non solo con riferimento a mansioni equivalenti disponibili nell’impresa, ma anche rispetto a “mansioni inferiori da individuarsi in armonia con l’assetto organizzativo dell’impresa stessa (insindacabilmente stabilito dal suo titolare) e previo consenso del lavoratore interessato”.
Ha rimarcato come già il 13 novembre 2013, prima ancora che fosse diramato l’interpello, la chiusura della sede cui era preposto il ricorrente, era stata oggetto di specifico incontro in sede sindacale. Inoltre, anche la nota successiva del 18 novembre – con cui si deduceva che l’azienda avrebbe fornito a tutti i dipendenti la possibilità di richiedere il trasferimento presso le agenzie ivi indicate evocando la possibilità di trasferimenti d’ufficio – lasciava trasparire l’ineludibile necessità di dismettere la sede di R.S.
In tale prospettiva, con approccio coerente sotto il profilo logico, il giudice del gravame ha riscontrato che “la mancata partecipazione all’interpello dell’odierno reclamante, rispetto ai posti di inferiore inquadramento, assumeva l’univoco significato di mancato consenso al relativo demansionamento”. Ha quindi ulteriormente argomentato che, avviate le procedure di cui all’art. 7 L. 604/66, il ricorrente, avuta la certezza dell’imminente licenziamento, sino alla formale intimazione, avrebbe potuto prestare un tale consenso sui posti già indicati se ancora scoperti, o su altri eventuali; circostanza quest’ultima non verificatasi, neanche in sede di riunione presso la Direzione Territoriale del Lavoro di cui al comma 3 art. 7 L. 604/66.
Con condivisibile assunto, la Corte di merito ha quindi escluso la configurabilità di un obbligo per la parte datoriale, di conformarsi alla richiesta del lavoratore di collocazione nel posto di livello superiore, non solo perché l’obbligo di repechage – nella elaborazione giurisprudenziale definita in questa sede di legittimità – non ricomprende le posizioni di inquadramento superiore rispetto a quelle rivestite dal lavoratore, ma anche perché, nell’esercizio del potere organizzativo che fa capo all’imprenditore, va ricompreso il potere discrezionale di verifica della professionalità posseduta e di concreto riscontro di corrispondenza della stessa rispetto al profilo da ricoprire.
Corollario delle superiori argomentazioni, era dunque, da ritenersi la conformità della condotta di parte datoriale, ai principi di correttezza e buona fede che presiedono al comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche al recesso di una di esse, nell’adempimento dell’obbligo di repechage.
Nell’ottica descritta, la critica formulata da parte ricorrente con riferimento alla prospettata violazione dei principi di recente affermati da questa Corte, secondo cui spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repechage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, non coglie nel segno, giacchè la Corte ha proceduto ad un accertamento in concreto – ampio, articolato e coerente per quanto sinora detto – che investe pienamente la quaestio facti, e rispetto al quale il sindacato di legittimità si arresta entro il confine segnato dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 7 aprile 2014, che non consente una diversa ricostruzione della vicenda storica.
6. Con la quinta critica il ricorrente denuncia violazione degli artt. 437, 421, 115- 116 e 244 c.p.c. Si duole della mancata ammissione delle istanze istruttorie articolate, con riferimento anche alla dimostrazione della disponibilità ad accettare anche una collocazione in posizioni lavorative inferiori a quella occupata, sul rilievo che fossero state ritenute erroneamente irrilevanti dalla Corte di merito.
7. La critica non è condivisibile.
Come affermato da questa Corte in numerosi approdi, la censura inerente alla omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento (cfr. Cass. 7/3/2017 n. 5654). E’ necessaria quindi la dimostrazione sia dell’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza ed il rigetto della pretesa azionata, sia dell’errore addebitato al giudice e che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (vedi Cass. 4/10/2017 n. 23194).
Nello specifico, le prove articolate non appaiono assistite dal requisito della decisività, vertendo su circostanze (quali la richiesta di essere addetto alla posizione di Product Manager Virtual Sports, ovvero lo svolgimento di un colloquio presso altra sede senza aver avuto cognizione dell’esito, ovvero che altri dipendenti fossero transitati presso altre sedi…), che indubbiamente, si palesavano inidonee ad apportare ulteriori elementi tali da consentire di addivenire ad una soluzione della controversia, la quale riposava su dati documentali già riscontrati dalla Corte di merito e ritenuti dalla stessa esaustivi, con valutazione che si palesa immune dalle formulate censure.
8. Il sesto motivo prospetta violazione artt. 3 L. 604/66 e 18 L. 300/70 nonché della L. 223/91 e dell’art. 1175 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si critica la pronuncia impugnata per aver ritenuto che fosse conforme ai criteri di correttezza e buona fede, la scelta aziendale di limitare il licenziamento ai soli dipendenti della agenzia di via S. senza attenersi ai criteri di scelta previsti dalla l. 223/91. Illegittima era dunque l’opzione di limitare la scelta ai lavoratori ad detti al singolo settore se non erano dotati di specifica professionalità.
9. Il motivo è del pari infondato.
La sentenza impugnata ha infatti congruamente evidenziato come qualora la ristrutturazione aziendale sia riferita ad una specifica attività produttiva, contestualmente soppressa, non appaia contraria a buona fede la scelta aziendale di limitare agli addetti della predetta unità la platea dei lavoratori colpiti dal licenziamento, ove risulti, come nella specie, l’effettiva impossibilità di utile collocazione nell’assetto organizzativo aziendale. Non vi è pertanto, necessità di prova ulteriore a carico del datore in ordine ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, e ciò sia per l’assenza dell’occasione di una scelta (essendo stati licenziati tutti i lavoratori addetti alla stessa sede), sia, più a monte, per la non automatica applicabilità dei criteri di scelta previsti dalla legge n. 223 del 1991 per i licenziamenti collettivi a licenziamenti individuali plurimi (vedi in motivazione, Cass. 23/9/2015 n. 18780), che possono invece soccorrere nelle ipotesi in cui il giustificato motivo oggettivo di licenziamento si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale assolutamente omogeneo e fungibile.
7. In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso principale va respinto, restando logicamente assorbito il ricorso proposto in via incidentale dalla società, con il quale si denuncia violazione e falsa applicazione dell’arti c. 49 e 51 L. 92/2012, 2909 c.c. artt. 3 e 111 cost. per avere la Corte di merito ritenuto non precluso il riesame della domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 L. 300/70 proposta dal lavoratore, nonostante la mancata proposizione di un’opposizione ai sensi dell’art. 1 comma 51 L. 92/2012. Il governo delle spese del presente giudizio di legittimità, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art.1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale. Condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
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