CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 febbraio 2019, n. 5760
Licenziamento per giusta causa – Ammanco di cassa – Carattere ritorsivo – Genericità della contestazione disciplinare
Fatti di causa
1. Con sentenza del 28/02/2017 la Corte d’appello di Bologna ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Ferrara ed ha escluso l’ingiuriosità del licenziamento intimato dal dott. O. F., titolare di farmacia, alla dott.ssa M.G. in data 08/03/2011, ritenendo comunque insussistente la giusta causa e riducendo l’indennità risarcitoria di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966 da sei a cinque mensilità; ha altresì respinto il carattere ritorsivo del licenziamento per giusta causa intimato dal dott. F. alla dott.ssa G. B. in data 22/03/2011, dichiarandone comunque l’illegittimità per assenza di causale ed escludendo tuttavia la condanna alla relativa indennità risarcitoria per mancata proposizione in grado di appello della domanda subordinata avanzata in prime cure.
2. In relazione al licenziamento della dott.ssa M., la Corte territoriale ha ritenuto illegittimo il licenziamento in considerazione della genericità della contestazione disciplinare concernente un ammanco di cassa ma insussistente un profilo di ingiuriosità in considerazione delle concrete circostanze (contestazione disciplinare in presenza del legale del datore di lavoro e immediata sospensione cautelare dal servizio) con cui lo stesso era stata intimato; ha motivato la riduzione dell’indennità risarcitoria ex art. 8 della legge n. 604 del 1966 in relazione all’anzianità di servizio ed alle modeste dimensioni dell’azienda. In relazione al licenziamento della dott.ssa G., la Corte territoriale ha negato il carattere ritorsivo del recesso sottolineando l’assenza di funzioni e incarichi sindacali della G. e dunque escludendo interferenze tra parole di solidarietà adottate a favore della collega di lavoro e relativo procedimento disciplinare, rilevato altresì che, in ogni caso, la presenza di due contestazioni disciplinari escludeva l’unicità del motivo ritorsivo; in assenza di riproposizione della domanda di indennità risarcitoria ex art. 8 della legge n. 604 del 1966, la Corte si è limitata ad escludere profili di nullità del licenziamento senza adottare una pronuncia di illegittimità del licenziamento posto che “l’ingiustificatezza rappresenta un alterius rispetto alla nullità per ritorsività e non già un mero minus.
3. Le due lavoratrici hanno proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, illustrati da memoria. Il dott. F. ha depositato controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si deduce vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato – con riguardo al licenziamento della dott.ssa M. – che la lettera di contestazione imputava alla lavoratrice l’adozione di una condotta penalmente rilevante ove si deduceva che la stessa era responsabile di “un ammanco di cassa …. di 29.444,24”. Invero, dagli elementi istruttori, di fonte testimoniale, emergeva che la dott.ssa M. raramente si era occupata della chiusura serale della cassa e che, in realtà, il motivo concorrente del licenziamento consisteva nell’aver fatto “troppo nero” ossia trascurato di aver emesso lo scontrino fiscale in un numero di casi eccessivi rispetto a quelli raccomandati dal datore di lavoro.
2. Con il secondo motivo – sempre in relazione al licenziamento della dott.ssa M. – si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, nel commisurare l’indennità risarcitoria conseguente all’illegittimità del licenziamento, considerato solamente alcuni elementi (anzianità di servizio e requisito occupazionale), trascurando la condotta tenuta dal datore di lavoro (che dopo aver invitato le proprie dipendenti a “fare nero” negli incassi procedeva al licenziamento della dipendente più solerte).
3. Con i successivi tre motivi di ricorso – che concernono il licenziamento della dott.ssa G. – si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2726, 2729, 2697 cod.civ. 115 cod.proc.civ. (“ex art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.”), 1345 e 1418 cod.civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.), 112 e 436 cod.proc.civ. e 8 della legge n. 604 del 1966 (ex art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ.). Invero, le frasi rivolte dalla lavoratrice al datore di lavoro ed oggetto della prima lettera di contestazione (“A seguito della sospensione della dott.ssa M., Ella mi ha ripetutamente sollecitato, nei giorni 3 e 4 marzo c.a., a rivedere la mia posizione nei confronti della collega sospesa, prospettandomi che, in caso contrario, avrebbe testimoniato a mio sfavore nel contezioso con la medesima M. G.”) nonché della seconda lettera (“Qui si sta perdendo il lume della ragione”, “Datti una calmata”) non sono mai state pronunciate e le sono state attribuite da un testimone totalmente “inaffidabile” (teste L.P., di cui – unitamente ad altri testimoni – vengono riportate le dichiarazioni rese in primo grado). La Corte distrettuale ha, inoltre, errato ad escludere l’unicità del motivo ritorsivo, arrestandosi alla verifica dell’assenza di un inconferente requisito (la mancanza di cariche sindacali della G.) e trascurando una serie di elementi, quali l’assoluta inesistenza dei motivi addotti e la chiara reazione alla mera preoccupazione della G. riguardo alle sorti della collega M.. Infine, con il quinto motivo, il ricorrente rileva che in sede di costituzione in appello si era censurata la illegittimità oltre che la ritorsività del licenziamento e, dunque, il pagamento dell’indennità ex art. 8 della legge n. 604 del 1966 doveva ritenersi una conseguenza sanzionatoria implicita; del pari, doveva ritenersi conseguenza implicita anche l’indennità sostitutiva del preavviso.
4. Il primo motivo del ricorso è inammissibile.
L’assunto secondo il quale la dott.ssa M. raramente si era occupata della chiusura serale della cassa e che, in realtà, il motivo concorrente del licenziamento consisteva nell’aver fatto “troppo nero” attiene a valutazioni di merito che non possono trovare ingresso nella presente sede di legittimità, dal momento che, nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le allegazioni e le prove offerte dalle parti.
Va, inoltre, rilevato che il controllo di logicità del giudizio di fatto è, nella presente fattispecie, consentito alla luce dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5 nella formulazione successiva alla novella introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. Nella L. n. 134 del 2012, trattandosi di sentenza depositata dopo il giorno 11 settembre 2012. Come precisato dalle Sezioni Unite (n. 8053/2014) è, in tal caso, denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. E tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. In particolare, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U. n. 22232 del 2016).
La Corte distrettuale ha rilevato che “la mera presenza dell’avvocato di fiduci o, al momento della consegna della lettera di contestazione (la fattispecie è frequente nella prassi alla luce dell’eventuale rifiuto di sottoscrivere la predetta consegna ed altre problematiche similari) o anche l’eventuale cognizione da parte dello stesso del contenuto, non concreta di per sé ingiuriosità. Anche il mero allontanamento dal luogo di lavoro, ove anche in una struttura di ristrette dimensioni percepibile dai colleghi, è conseguente alla disposta sospensione cautelare e non concreta, di nuovo, ad avviso del Collegio, di per sé solo, le particolari modalità ingiuriose richieste dal diritto vivente quale emergente dalla pronuncia [di legittimità, Cass. n. 6845 del 2010] sopra trascritta”
Questa Corte ha poi ripetutamente affermato che il licenziamento ingiurioso o vessatorio, lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore, che dà luogo al risarcimento del danno, ricorre soltanto in presenza di particolari forme o modalità offensive o di eventuali forme ingiustificate e lesive di pubblicità date al provvedimento, le quali vanno rigorosamente provate da chi le adduce, unitamente al lamentato pregiudizio (Cass. n. 23686 del 2015; Cass. n. 5885 del 2014, Cass. n. 17329 del 2012 , Cass. n. 21279 del 2010, Cass. n. 6845 del 2010; Cass. n. 15469 del 2008). La Corte d’appello, partendo dalle esposte premesse, ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte. E difatti, al fine di valutare la dedotta natura ingiuriosa del licenziamento, ha esaminato le circostanze attinenti alle modalità di comunicazione ed attuazione del procedimento disciplinare, concludendo – del tutto correttamente – che la condotta del datore di lavoro si era mantenuta nell’ambito degli usuali canoni comportamentali tipici della fase di estinzione del rapporto di lavoro.
5. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile.
Le circostanze indicate dalla legge come rilevanti per la determinazione della indennità sono state logicamente valutate dai Giudici di mento: la censura, attinente peraltro ad una sola mensilità, è inammissibile giacché è stato ritenuto (Cass. n. 107 del 2001, Cass. n. 13380 del 2006) che in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo per il quale non sia applicabile la disciplina della cosiddetta stabilità reale, la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità risarcitoria prevista dalla legge n. 604 del 1966, art. 8 (sostituito dalla legge n. 108 del 1990, art. 2), spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria.
Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha fornito adeguata motivazione (anche alla luce del novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.), ritenendo di rideterminare l’indennità risarcitoria (da sei mensilità, come disposto dal Tribunale a cinque mensilità) in considerazione dell’anzianità di servizio (circa sette anni) e della relativa “tenuità del requisito occupazionale (4 dipendenti).
6. I motivi dal terzo al quinto sono inammissibili.
Deve, in primo luogo, rimarcarsi che in tema di ricorso per cessazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. 16 luglio 2010 n. 16698; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).
Nella specie è evidente che il ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ., che – nella versione ratione temporis applicabile – lo circoscrive all’omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014).
Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori. La sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i fatti controversi ed accertato l’intimazione di due contestazioni disciplinari aventi ad oggetto espressioni verbali rivolte dalla G. al datore di lavoro, condotte accertate e ritenute dalla Corte distrettuale insufficienti ad integrare una giustificazione della sanzione più severa quale il recesso dal rapporto di lavoro, pur non integrando gli estremi di un licenziamento ritorsivo.
Come ripetutamente affermato da questa Corte l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata ( ex multis Cass. n. 1901 del 2017; Cass. n. 16056 del 2016).
Inoltre, la verifica in ordine all’attendibilità del testimone- che afferisce alla veridicità della deposizione resa dallo stesso – forma oggetto di una valutazione discrezionale che il giudice di merito compie alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), insindacabile in questa sede (Cass. n. 7623 del 2016). Nel caso di specie, le deposizioni testimoniali (aventi ad oggetto le affermazioni proferite dalla G. nei confronti ed alla presenza del datore di lavoro) sono state rese nel giudizio di primo grado e non risulta che il loro contenuto sia stato contestato nel giudizio di appello.
Infine, il quinto motivo è prospettato con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto (quantomeno per stralcio) della memoria di appello (ove si deduce sia stata invocata la illegittimità, oltre che la nullità, del licenziamento e chiesta la condanna ai sensi dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966), fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).
Deve richiamarsi, in ogni caso, l’orientamento di legittimità secondo cui, qualora il lavoratore agisca in giudizio deducendo il motivo discriminatorio del licenziamento, “..l’eventuale carenza di giusta causa, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore e non già compreso motivo di illegittimità del recesso come tale non rilevabile d’ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda” (Cass. 20742 del 2018; Cass. n.12898 del 2016; Cass. n.13673 del 2015).
7. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese di lite vanno regolate in base alla soccombenza come previsto dall’art. 91 cod.proc.civ.
8. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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