CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 giugno 2018, n. 16939
Rapporto di lavoro subordinato – Accertamento – Contratto ad intermittenza – Simulazione
Fatti di causa
Il Tribunale di Como, accogliendo parzialmente il ricorso proposto da M.B., nei confronti della S. S.p.A. – di cui la stessa assumeva di essere stata <<dipendente non regolarizzata>> dall’11.10.2004 al 30.11.2006 -, aveva accertato che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato relativamente al predetto periodo ed aveva condannato la datrice di lavoro a corrispondere alla lavoratrice la somma di Euro 20.000,00, liquidata in via equitativa, dichiarando, invece, inammissibile la richiesta della ricorrente con riferimento al periodo per il quale il rapporto era stato formalizzato come contratto ad intermittenza, in quanto non era stata espressamente proposta, al riguardo, una domanda di simulazione.
La Corte territoriale di Milano, in parziale riforma della pronunzia, con sentenza depositata il 21.12.2011, accertava la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato inter partes dall’1.10.2004 al 31.7.2008 (recte: 31.7.2007) e, detratte le somme richieste a titolo di lavoro straordinario, ritenute sfornite di prova, condannava la società a corrispondere alla B. la somma complessiva di Euro 13.658,11, oltre accessori di legge.
Per la cassazione della sentenza ricorre la S. S.p.A. articolando due motivi cui resiste M.B. con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si deduce, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., <<la insufficiente e contraddittoria motivazione per carenza di prova circa il fatto costitutivo del diritto ex adverso avanzato e travisamento della prova>>. In particolare, la società ricorrente lamenta che la Corte di Appello di Milano avrebbe disatteso il motivo di gravame con il quale si censurava la decisione del primo giudice nella parte in cui aveva ritenuto provata la sussistenza di un rapporto di lavoro tra le parti nel periodo compreso tra l’1.10.2004 ed il 30.11.2006, ed avrebbe erroneamente reputato che l’istruttoria espletata avesse confermato la tesi della lavoratrice, così come aveva erroneamente concluso pure il Tribunale. A parere della ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe fondato il suo convincimento su elementi di fatto che, non solo non sarebbero risultati sufficientemente provati in giudizio, ma che sarebbero stati addirittura contraddetti dalle risultanze istruttorie, al punto da concretizzare un travisamento delle prove, denunciarle in sede di legittimità ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
2. Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., perché la Corte di merito, incorrendo in un vizio di ultrapetizione, avrebbe erroneamente accolto l’appello incidentale della B., rilevando che <<il principio di effettività che caratterizza il diritto del lavoro consente di accertare la reale natura del rapporto di lavoro subordinato, anche contro l’apparenza di un diverso tipo contrattuale, senza necessità di impugnare quest’ultimo con azione di simulazione, essendo sufficiente un accertamento meramente incidentale, da ritenersi senz’altro compreso nella domanda principale svolta dalla lavoratrice>>.
3. Il primo motivo non è meritevole di accoglimento.
Al riguardo, va, infatti, ribadito che i difetti di omissione e di insufficienza della motivazione sono configurabili solo quando, dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza oggetto del giudizio, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando si evinca l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito finalizzata ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014).
Nel caso di specie, i giudici di seconda istanza, attraverso un percorso motivazionale ineccepibile sotto il profilo logico-giuridico, sono pervenuti alla decisione oggetto del presente giudizio, dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell’istruttoria espletata in primo grado; pertanto, le doglianze articolate dalla parte ricorrente come vizio di motivazione – che, in sostanza, risolvono in una ricostruzione soggettiva del fatto, tesa a condurre ad una valutazione difforme rispetto a quella cui è pervenuta la Corte distrettuale, sulla base di una diversa lettura del materiale probatorio – appaiono inidonee, per i motivi anzidetti, a scalfire la coerenza della sentenza oggetto del giudizio di legittimità.
4. Neppure il secondo motivo può essere accolto. Invero, perché possa utilmente dedursi in sede di legittimità la violazione dell’art. 112 c.p.c. – fattispecie riconducibile ad una ipotesi di error in procedendo ex art. 360, n. 4, c.p.c. – sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, deve prospettarsi, in concreto, la pronunzia su una domanda non proposta; la qual cosa non si profila nel caso di specie, in cui, nella sostanza, viene in considerazione l’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza della domanda; attività, quest’ultima, che integra un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, insindacabile in Cassazione, se non sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (cfr., tra le molte, Cass. nn. 7932/2012; 20373/2008).
Il giudice, infatti, ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen iuris diverso da quello indicato dalle parti, purché non sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificando i fatti costitutivi e fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio. Nel caso di specie, i giudici di secondo grado non hanno introdotto nel processo una causa petendi diversa da quella enunciata dalla parte a sostegno della domanda, ma, facendo corretta applicazione del principio iura novit curia di cui all’art. 113, primo comma, c.p.c., da porre in immediata correlazione con quello sancito al precedente articolo, hanno assegnato una diversa qualificazione giuridica ai rapporti dedotti in lite ed all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla fattispecie (cfr., tra le altre, Cass. nn. 13945/2012; 25140/2010; 18249/2009) ed effettuando, appunto, una operazione di qualificazione giuridica del rapporto, correttamente e motivatamente ritenuto di lavoro subordinato a tempo indeterminato anche relativamente al periodo successivo al 30.11.2006 e sino al 31.7.20017, durante il quale lo stesso era stato formalizzato come contratto ad intermittenza.
Ciò precisato, è da aggiungere che, in ordine alla questione relativa alla qualificazione del rapporto contrattualmente operata dalle parti, alla stregua dell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, onde pervenire alla identificazione della natura del rapporto di lavoro, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l’altro tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell’esercizio della loro autonomia contrattuale.
Pertanto, il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell’art. 1362, secondo comma, c.c.), ma anche ai fini dell’accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto medesimo e diretta a modificare singole sue clausole, e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista. Del resto, come è stato osservato, il ricorso al dato della concretezza e della effettività appare condivisibile anche sotto altro angolo visuale, ossia in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro (al riguardo, e per ciò che più specificamente attiene agli indici di subordinazione, cfr. Cass. n. 7024/2015).
5. Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.
6. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
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