CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 gennaio 2020, n. 1892
Licenziamento per giusta causa – Direttore dell’esecuzione del contratto di appalto – Periodo di aspettativa per gravi motivi privati – Svolgimento di un’attività lavorativa subordinata – Contrasto con il Codice Etico aziendale – Obblighi di chiara, veritiera e completa informazione della società datrice
Fatti di causa
Con sentenza in data 31 luglio 2018, la Corte d’appello di Roma rigettava il reclamo proposto da R. A. avverso la sentenza di primo grado, che aveva, respingendone l’opposizione e accogliendo invece quella della datrice A. s.p.a., dichiarato legittimo il licenziamento intimatogli dalla seconda il 4 luglio 2016 per giusta causa, così revocando l’ordinanza dello stesso Tribunale ai sensi dell’art. 1, quarantanovesimo comma I. 92/2012, che lo aveva ritenuto illegittimo, disponendo la reintegrazione del lavoratore e la condanna della società al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva la violazione datoriale del principio di immutabilità della contestazione, con nota 27 maggio 2016, seguita da nota 20 giugno 2016 di “opinamento di destituzione ai sensi dell’art. 53, quinto comma Reg. all. A R.D. 148/1931”, confermata dalla successiva del 4 luglio 2016, per avere R. A. (direttore dell’esecuzione del contratto di appalto del “Servizio triennale di pulizia vetture, impianti ed attività di supporto presso i depositi di superficie di A. s.p.a.) prestato, anche durante il periodo di aspettativa per gravi motivi privati (dal 21 settembre 2015 al 18 maggio 2016), un’attività lavorativa subordinata quale Direttore Generale in favore di E. Distribuzione s.p.a., esercente attività commerciale di sostituzione, riparazione e manutenzione di pneumatici, controllata ed avente gli stessi soci di G. Italia s.r.I., fornitrice di A. s.p.a. E ciò in contrasto con il Codice Etico aziendale e l’art. 5 Reg. all. A R.D. 148/1931, entrambi applicabili anche al lavoratore in aspettativa non retribuita, per avere egli contravvenuto agli obblighi di chiara, veritiera e completa informazione della società datrice (tenuta all’oscuro del rapporto, per la giustificazione dell’aspettativa con gravi e documentabili motivi familiari e la generica rappresentazione dell’intenzione di valutare la possibilità di eventuali rapporti di collaborazione occasionale e non subordinata con aziende terze), esercitando la suindicata attività in assenza di autorizzazione, in conflitto di interessi e con vantaggio personale non consentito.
La Corte capitolina riteneva i fatti contestati documentalmente provati e legittimo il licenziamento per giusta causa, per la proporzione della sanzione espulsiva applicata, in conseguenza dell’irrimediabile rottura del vincolo fiduciario tra le parti.
Con atto notificato il 27 settembre 2018 il lavoratore ricorreva per cassazione con quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui la società datrice resisteva con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Per evidenti ragioni di pregiudizialità logico-giuridica, occorre avviare l’esame dal quarto motivo, con il quale il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 24 all. A r.d. 148/1931, 12 disp. prel. c.c. e in subordine dell’art. 18, quarto comma I. 300/1970 con riferimento agli artt. 5, 24, 37, 43, n. 5) r.d. 148/1931, per erronea interpretazione dell’aspettativa accordata per motivi privati, non quale causa di interruzione del servizio a tutti gli effetti (e pertanto anche di obbligo di osservanza delle disposizioni regolamentari), ma soltanto ai fini dell’anzianità, al contrario (“invece”) dell’aspettativa per le diverse causali di motivi di salute, di servizio militare, di cariche sindacali, di misure cautelari penali dipendenti dal servizio; in assenza in ogni caso di una condizione di conflitto di interessi, comportando l’eventuale violazione delle suddette norme regolamentari una sanzione di tipo conservativo.
1.1. Esso è infondato.
1.2. L’art. 24 all. A r.d. 148/1931 definisce, al primo comma, l’aspettativa quale “esenzione temporanea dal servizio degli agenti stabili” (da intendere, a norma dell’art. 1 come personale di ruolo), regolamentandone la concessione, il trattamento a seconda delle ipotesi e dell’anzianità di servizio.
Esso distingue poi, al decimo comma, il tempo trascorso in aspettativa per motivi di salute, per servizio militare obbligatorio, anche nella M.V.S.N., per cariche sindacali che comportino l’allontanamento temporaneo dall’azienda o quando si tratti di aspettativa in dipendenza di provvedimenti preventivi giudiziari dipendenti da cause di servizio, da computare per intero agli effetti dell’anzianità, a differenza da quella accordata per motivi privati, che costituisce invece interruzione di servizio (undicesimo comma).
Ma è evidente che l’interruzione del servizio non possa essere intesa a tutti gli effetti, alla stregua di una cessazione del rapporto con assolvimento da ogni obbligo ad esso inerente. Perché una tale circostanza si verifica soltanto con l’esonero definitivo dal servizio”, previsto “allo scadere del servizio, ove perdurino le cause che la motivarono” (tredicesimo comma).
1.3. E la Corte territoriale ha esattamente interpretato la normativa denunciata per le ragioni esposte (ai tre ultimi capoversi di pg. 6, richiamate al terzo capoverso, in esordio del p.to 2.6. di pg. 8 della sentenza).
2. Con il primo motivo, il ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in riferimento agli artt. 112 e 277 c.p.c. e violazione e falsa applicazione degli artt. 7 I. 300/1970 e 2 I. 604/1966, per la non consentita modificazione della contestazione disciplinare, lesiva del diritto di difesa del lavoratore, in quanto recante originariamente l’indicazione, quale affidataria dell’appalto con A., di G Italia s.r.l. e non dell’effettiva titolare G. s.r.l. (con denuncia della relativa immutazione nel ricorso introduttivo della fase sommaria e non come erroneamente ritenuto dalla Corte d’appello, nel giudizio di opposizione, nel quale invece A. s.p.a. aveva introdotto il fatto nuovo e diverso del conflitto di interessi con G. s.r.I.), con il conseguente venir meno dello stesso, assunto a fondamento della sentenza impugnata, così residuando la sola assunzione di incarico di direttore generale di E. Distribuzione s.p.a., senza la preventiva autorizzazione, sanzionabile in via conservativa.
2.1. Esso è inammissibile.
2.2. E’ noto che, in tema di licenziamento disciplinare, la necessaria correlazione dell’addebito con la sanzione deve essere garantita e presidiata, in chiave di tutela dell’esigenza difensiva del lavoratore, anche in sede giudiziale, non dovendo le condotte del medesimo, sulle quali è incentrato l’esame del giudice di merito, differire nella sostanza fattuale da quelle poste a fondamento della sanzione espulsiva (Cass. 9 luglio 2018, n. 17992; Cass. 18 aprile 2019, n. 10853); sicché, il principio di immutabilità della contestazione (da considerarsi violato qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in lesione del diritto di difesa, implichino una diversa valutazione dei fatti addebitati, ma non circostanze confermative, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, ovvero che non modifichino il quadro generale della contestazione: Cass. 17 luglio 2018, n. 19023; Cass. 25 marzo 2019, n. 8293) è funzionale alla garanzia dell’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato (Cass. 22 marzo 2011, n. 6499; Cass. 10 novembre 2017, n. 26678).
2.3. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha compiuto un accurato accertamento in fatto (al p.to 1.1. a pgg. 2 e 3 della sentenza), condividendo con il Tribunale l’esclusione di una modificazione o ampliamento del fatto contestato, comportante, sotto il profilo di omesso esame della censura, l’inammissibilità per la ricorrenza dell’ipotesi di cd. “doppia conforme” prevista dall’art. 348ter, quinto comma c.p.c., in difetto di indicazione dalla parte ricorrente delle ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrandone la diversità (Cass. 10 marzo 2014, n. 5528; Cass.22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 17 gennaio 2019, n. 1197).
In particolare riferimento alla dedotta violazione di norme di diritto, essa ha rilevato la mancata specificazione dal lavoratore di elementi di fatto comportanti la violazione del suo diritto di difesa, con argomentazione (al terz’ultimo capoverso di pg. 3 della sentenza), che neppure è stata confutata dal ricorrente: con evidente riflesso sulla genericità del motivo, in violazione della prescrizione di specificità posta, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c. (Cass. 6 luglio 2007, n. 15952; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 22 settembre 2014, n. 19959).
3. Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2359 c.c. e 18, quarto comma l. 300/1970, per l’insussistenza di una situazione di controllo né di collegamento societario di G. s.r.l. (titolare di una quota soltanto del 5% di partecipazione in E. Distribuzione s.p.a.) nei cui confronti potenzialmente configurabile (al contrario di G. Italia s.r.I., titolare all’epoca del recesso di una quota di partecipazione nella stessa società del 30%), non potendo poi darsi una situazione di collegamento societario a livello di gruppo delle società della famiglia M. – E., per la tipicità delle ipotesi di rilevanza del gruppo di imprese e in assenza dei requisiti di un unico centro di gestione dell’attività: con la conseguente insussistenza del fatto contestato, privo del carattere di illiceità.
4. Con il terzo, egli deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2105 c.c., anche con riiferimento agli artt. 1175, 1375 c.c. e violazione dell’art. 18, quarto comma I. 300/1970, per la rilevanza del conflitto di interessi soltanto in concreto, e non in modo indiretto, eventuale e potenziale come ritenuto dalla sentenza impugnata, con la conseguente insussistenza del fatto contestato, privo del carattere di illiceità.
5. Essi sono congiuntamente esaminabili, per ragioni di stretta connessione e sono infondati.
5.2. Non si configura, innanzi tutto, la denunciata violazione dell’art. 2359 c.c., in difetto dei requisiti suoi propri, posto che il vizio di violazione di legge è integrato dalla deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e ne implica necessariamente un problema interpretativo; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155).
Nel caso di specie, l’individuazione di una situazione integrante o meno un collegamento societario per esercizio di un’influenza notevole di una su altra società (Cass. 1 aprile 2011, n. 7554) importa, non già per un’autonoma rilevanza in se stessa, quanto piuttosto in via strumentale all’accertamento di una condizione di compartecipazione societaria ad un’attività potenzialmente in conflitto con quella di altra impresa, in cui sia coinvolto il lavoratore subordinato di quest’ultima, sua datrice, per verificarne una posizione conflittuale integrante violazione del suo dovere di diligenza.
5.3. E la Corte territoriale ha accertato una tale situazione, sulla scorta delle risultanze delle visure camerali (al p.to 2.4. di pg. 5 della sentenza), in esito ad una critica e argomentata ricostruzione del quadro di collegamento societario, in particolare sottolineando come A. s.p.a. avesse affidato la gestione dell’attività di fornitura e servizio di gestione in full service dei pneumatici dell’intero parco mezzi a G. s.r.l. e questa a propria volta a G. Italia s.r.l. (socia del 30% in E. Distribuzione s.p.a. e presso cui era stato assunto come direttore generale il dipendente A. s.p.a.), per effetto di concessione in affitto dell’azienda, e quindi dell’attività di impresa, per atto del 16 dicembre 2014 (come indicato ai due ultimi alinea del primo capoverso di pg. 5 della sentenza). Sicché, a conclusione dell’operazione ricostruttiva realizzata, la Corte capitolina ha ritenuto l’esistenza di un “collegamento … tra le attuali società del gruppo M.- E.” e di una “ricaduta sulla portata contrattuale di fornitura con A. s.p.a.” e pertanto di “un potenziale conflitto di interessi tra i due contemporanei datori di lavoro A. s.p.a. ed E. Distribuzione s.p.a.” (così ai due ultimi capoversi del p.to 2.4. di pg. 5 della sentenza)
5.4. Ebbene, la rilevanza del conflitto di interessi è indubbiamente sintomatica della violazione dell’obbligo di fedeltà posto dall’art. 2105 c.c., in collegamento con i principi generali di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., dai quali si evince l’obbligo del lavoratore di astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dalla prima norma citata, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, ovvero crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto (Cass. 4 aprile 2005, n. 6957; Cass. 1 febbraio 2008, n. 2474; Cass. 9 gennaio 2015, n. 144; Cass. 4 aprile 2017, n. 8711).
6. Dalle superiori argomentazioni discende il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime della soccombenza, con il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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