CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 maggio 2019, n. 14787
Licenziamento per giusta causa – Truffa ai danni della società – Sussistenza del grave inadempimento da parte dei lavoratori
Fatti di causa
La Corte territoriale di Milano, con sentenza pubblicata il 26.10.2016, rigettava il reclamo proposto da V. M. e G. S., dipendenti di IVRI – Istituti di Vigilanza Riuniti d’Italia S.p.A., avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede, con la quale, in sede di giudizio di opposizione, era stata confermata l’ordinanza emessa a seguito di impugnazione, ai sensi dell’art. 1, commi 47 e 48 della l. n. 92 del 2012, del licenziamento intimato per giusta causa ai lavoratori, in data 27.10.2014, a causa di truffe che i medesimi, responsabili della gestione del parco auto della società, avrebbero attuato in danno della stessa di concerto con il gestore di un impianto di benzina di Gallarate e con un ex dipendente della società datrice di lavoro.
Per la cassazione della sentenza ricorrono M. e S. articolando tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria depositata ai sensi dell’art. 378 del codice di rito.
La società datrice resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della l. n. 300 del 1970 sotto il duplice profilo (1) della mancanza di specificità della contestazione e (2) della mancanza di tempestività della stessa e, quanto alla prima censura, si lamenta che la Corte di merito avrebbe sostanzialmente basato il proprio giudizio di <<sussistenza del grave inadempimento da parte dei lavoratori> su fatti diversi da quelli oggetto della contestazione disciplinare, in quanto – a fronte dell’eccezione della difesa che faceva rilevare la diversità ontologica e fattuale tra la pratica usuale del doppio rifornimento di benzina per le auto della società e la fattispecie della truffa, oggetto specifico della contestazione, ha affermato che nelle lettere di contestazione disciplinare vi fosse la specifica contestazione <<dell’utilizzo sistematico quanto improprio delle c.d. schede elettroniche Multicard emesse dall’Agip in favore di IVRI», nonché «l’utilizzo delle predette schede con il loro consenso e la loro piena consapevolezza con modalità altamente irregolari>>; mentre, secondo i ricorrenti, dalla lettera risulta chiaro che l’unica contestazione sollevata nei confronti dei medesimi fosse quella di avere perpetrato una truffa in danno della datrice di lavoro, con lo specifico addebito che l’utilizzo fraudolento delle multicard avvenisse, nella specie, con il consenso e la piena consapevolezza dei lavoratori <<ed in modo sistematico per lucrare guadagni non dovuti, che venivano ripartiti>>.
Quanto alla seconda censura, si deduce che mancherebbe la valutazione, da parte dei giudici di Appello, del profilo della tempestività della contestazione quale elemento essenziale del legittimo esercizio del potere disciplinare datoriale e, dunque, della corretta applicazione dell’art. 7 della l. n. 300 del 1970. In particolare, i ricorrenti, dopo avere precisato <<di non avere mai sostenuto la mancanza di tempestività per il solo fatto del tempo materiale trascorso tra la sospensione cautelare e l’avvenuta contestazione disciplinare>>, lamentano di avere, invece, eccepito che <<gli addebiti, i fatti ed il grado di conoscenza e consapevolezza da parte del datore di lavoro sono risultati coincidenti ed uguali tra il momento dell’avvio della sospensione cautelare e quello del rinvio a giudizio, poi assurto ad unica causa di contestazione e licenziamento, senza che nel frattempo siano emersi elementi concreti attestanti l’effettiva sussistenza dei fatti di cui alla contestazione disciplinare>> e che, <<nella specie, l’illegittimità del comportamento datoriale risiede nel non aver atteso che la definizione del procedimento penale offrisse qualche riscontro oggettivo diverso ed ulteriore al quale ancorare il dato di fatto della materiale partecipazione all’illecito e comunque il venir meno del vincolo fiduciario>>. Pertanto, a parere dei lavoratori, la Corte distrettuale non avrebbe considerato che < d’adozione del provvedimento della sospensione cautelare in sé escludeva la rilevanza disciplinare dei fatti e presupponeva la necessità di acquisire elementi nuovi ed ulteriori>> e che <<se gli elementi, dopo quasi due anni sono rimasti gli stessi, non possono improvvisamente assurgere a giusta causa di licenziamento>>.
2. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., per inesistenza di una giusta causa di recesso e si deduce che la Corte distrettuale non abbia verificato in concreto il comportamento della datrice di lavoro che, dopo il rinvio a giudizio dei lavoratori, ha espressamente dichiarato per iscritto alla Prefettura di Milano (con lettera del 20.6.2014) di essere consapevole di dovere reintegrare i due dipendenti nel luogo di lavoro, in seguito alla sospensione cautelare, <<qualora non fosse intervenuta la sospensione dei titoli di P.S. (possesso del porto d’armi) da parte del Prefetto (cosa che avrebbe peraltro comportato autonoma causa di risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione)>>. Al proposito, i lavoratori osservano che, sbrigativamente, i giudici di merito hanno ritenuto che <<l’esigenza di reintegrare in servizio le guardie giurate derivasse solo da motivi economici e non certo da una valutazione di non rilevanza disciplinare dei fatti>> (v. pag. 8 della sentenza impugnata), senza valutare che la detta esigenza in nessun modo poteva dirsi compatibile con una compromissione del vincolo fiduciario tale da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto, e che un comportamento contrario al permanere della sospensione cautelare era indice, all’evidenza, di un comportamento incompatibile con l’intento di recedere dal rapporto per asserita giusta causa.
3. Con il terzo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’accertamento dell’effettiva commissione dei fatti addebitati, e si deduce che la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare, ai fini della corretta applicazione dell’onere probatorio disciplinato dall’art. 2697 c.c., che mancava l’accertamento dell’effettiva sussistenza dei fatti attribuiti ai dipendenti, data l’assoluta mancanza di ogni positivo e concreto riscontro della materiale commissione del fatto specifico contestato (l’appropriazione illecita di denaro contante procurato attraverso lo storno degli importi accreditati sulle multicard).
1.1. Il primo motivo non è fondato.
E’, innanzitutto da sottolineare, alla stregua degli arresti giurisprudenziali di legittimità, che il principio della immediatezza della contestazione dell’addebito e quello della tempestività del recesso datoriale – la cui ratio riflette l’esigenza di osservanza delle regole di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto di lavoro – devono essere intesi in senso relativo, potendo essere compatibili, con rifermento al caso concreto ed alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati, così come per la valutazione delle giustificazioni fornite dal ricorrente; ed altresì che ciò che rileva è l’avvenuta conoscenza, da parte del datore di lavoro, della situazione contestata e non l’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi (cfr., ex multis, Cass. nn. 24796/2016; 10839/2016; 16860/2012).
Ciò premesso, va rilevato, con riferimento alla prima delle due censure mosse con il primo mezzo di impugnazione, che i ricorrenti, nella sostanza, richiedono un nuovo esame del merito e della valutazione del materiale probatorio operata dalla Corte territoriale, assumendo che vi sarebbe stata una lesione del diritto di difesa, in quanto i medesimi <<si sarebbero visti intimare un licenziamento disciplinare giustificato da fatti che non sono stati loro preventivamente contestati>>. Il ragionamento dei giudici di merito appare, al contrario supportato dalla documentazione, citata nella sentenza oggetto del presente giudizio, dalla quale ultima emerge con chiarezza che la società, nella lettera di cui si discute, non ha contestato semplicemente la truffa, ma anche le presunte modalità irregolari con cui venivano effettuati i rifornimenti delle autovetture di servizio, nonché la violazione dei doveri scaturenti dal rapporto di lavoro, con particolare riguardo agli obblighi di subordinazione, fedeltà e correttezza.
Per quanto più specificamente attiene alla seconda censura sollevata con il medesimo mezzo di impugnazione, i giudici di Appello si sono uniformati al consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di legittimità – del tutto condiviso da questo Collegio ed in linea con quello al quale si è fatto testé accenno -, secondo cui <<la contestazione disciplinare preordinata al licenziamento è da ritenere tempestiva quando, sebbene non sia immediata rispetto all’addebito, è comunicata a seguito della decisione di rinvio a giudizio o all’esito del procedimento penale che vede coinvolto il lavoratore….poiché tale esito offre elementi di valutazione più sicuri>> (v. Cass. nn. 25686/2014; 241/2006; 12649/2004). Ed al riguardo, priva di pregio appare la censura dei ricorrenti relativa alla mancata apertura del procedimento disciplinare vero e proprio immediatamente dopo l’apertura della sospensione cautelare, dato che, come correttamente sottolineato nella sentenza impugnata, la società ha effettuato la contestazione disciplinare in data 30.9.2013, dopo che, in data 28.5.2013, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano aveva rinviato a giudizio i due lavoratori, mettendo a disposizione della datrice di lavoro, quale soggetto danneggiato dal reato, gli atti di indagine compiuti (v. pag. 4 della sentenza impugnata); pertanto, condivisibilmente, i giudici di merito hanno reputato che il periodo intercorso tra le suddette date fosse necessario per le complesse valutazioni riservate all’organo disciplinare della società.
2.2. Il secondo motivo è fondato.
Va, innanzitutto, osservato che la giusta causa di licenziamento è una nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di clausole generali (Generalklauseln) – correttezza (art. 1175 c.c.); obbligo di fedeltà, lealtà, buona fede (art. 1375 c.c.); giusta causa, appunto (art. 2119 c.c.) – il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che è stata definita la “spirale ermeneutica” (tra fatto e diritto), di essere integrato, colmato, sia sul piano della quaestio facti che della quaestio iuris, attraverso il contributo dell’interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall’ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, alla cui stregua poter adeguatamente individuare e delibare altresì le circostanze più concludenti e più pertinenti rispetto a quelle regole, a quelle valutazioni, a quei giudizi di valore, e tali non solo da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilità della tota res (realtà fattuale e regulae iuris), ma da consentire inoltre al giudice di pervenire, sulla scorta di detta complessa realtà, alla soluzione più conforme al diritto, oltre che più ragionevole e consona.
Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica, come in più occasioni sottolineato da questa Corte, e la disapplicazione delle stesse è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Pertanto, l’accertamento della ricorrenza, in concreto, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, è sindacabile nel giudizio di legittimità, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards” conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale (Cass. nn. 14319/2017; 25044/15; 8367/2014; 6498/2012; 5095/11). E ciò, in quanto, il giudizio di legittimità deve estendersi pienamente, e non solo per i profili riguardanti la logicità e la completezza della motivazione, al modo in cui il giudice di merito abbia in concreto applicato una clausola generale, perché nel farlo compie, appunto, un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha introdotto per consentire l’adeguamento ai mutamenti del contesto storico-sociale (Cass., S.U., n. 2572/2012).
Nel motivo di ricorso qui in esame, le censure formulate alla sentenza della Corte di Appello appaiono conferenti, in quanto evidenziano gli “standards” dai quali il Collegio di merito si sarebbe discostato. Risulta, in sostanza, inciso da errores in iudicando l’iter decisionale della Corte di merito, perché la sentenza impugnata non si sofferma sul fatto che l’adozione, da parte del datore di lavoro, di comportamenti incompatibili con l’impossibilità di prosecuzione temporanea del rapporto di lavoro si pone in contrasto con il perdurare della giusta causa di recesso ed esprime una volontà contraria all’intento solutorio datoriale.
Ed invero, poiché, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al lavoratore rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario, il giudice di merito deve valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (v., ex plurimis, Cass. n. 25608/2014). Nella fattispecie, i giudici di merito hanno ritenuto che <<l’esigenza di reintegrare in servizio le guardie giurate>>, manifestata nella lettera inviata dalla società alla Prefettura di Milano il 20.6.2014, <<derivasse solo da motivi economici e non certo da una valutazione di non rilevanza disciplinare dei fatti>> (v. pag. 8 della sentenza impugnata), senza valutare che la detta esigenza appariva in contrasto con una compromissione del vincolo fiduciario tale da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto, e che un comportamento contrario al permanere della sospensione cautelare era indice, all’evidenza, di un comportamento incompatibile con l’intento di recedere dal rapporto per asserita giusta causa.
3.3. Il terzo motivo risulta, all’evidenza, assorbito, considerata la evidente pregiudizialità ed il carattere assorbente che, nella fattispecie, il momento della esistenza e dell’attribuibiIità ai ricorrenti dei fatti allegati riveste nei confronti dell’intera controversia, in cui la valutazione della sussistenza della giusta causa del recesso attiene all’intero thema decidendum.
4. La sentenza va pertanto cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito, ai principi innanzi richiamati, provvedendo altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso; rigetta il primo motivo, assorbita ogni altra censura. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Milano, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
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