Corte di Cassazione sentenza n. 1772 depositata il 24 gennaio 2018

LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – AMIANTO – MORTE DELLA BIDELLA PER MESOTELIOMA PLEURICO – NON SUSSISTE LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO

FATTO

La Corte d’Appello di Genova, con sentenza in data 19/4/2012, confermando la decisione del Tribunale della stessa sede n.767/2008, ha rigettato la domanda di G.C. e di G.R. e G.P., rispettivamente marito e figli di R.O. deceduta per mesotelioma pleurico da esposizione all’amianto.

Essa era stata proposta dagli appellanti jure successionis, al fine di sentir condannare il Comune di Genova quale datore di lavoro, al risarcimento del danno biologico e morale, per non avere adottato le doverose precauzioni nei confronti della loro congiunta. L’R.O., infatti, secondo gli appellanti, avrebbe contratto la malattia mortale per la presenza di amianto nel magazzino del Liceo Artistico comunale Barabino, dove aveva svolto mansioni di bidella dal 1979 al 2005, essendo la malattia intervenuta nel 2003.

Sul caso si era espresso il CTU, il quale aveva accertato a) che era escluso che il datore avesse sottovalutato il rischio, essendo stata l’esposizione limitata temporalmente e, nel complesso, quantitativamente contenuta; b) che la lavoratrice non aveva svolto diretta attività di manipolazione delle tubazioni contenenti amianto; c) che l’insorgere della malattia presentava una latenza troppo breve dal momento in cui l’istruttoria aveva rilevato discontinuità su tali tubazioni, tali da determinare la presunta dispersione di fibre da cui sarebbe originata la malattia.

Dette conclusioni, acquisite alla decisione d’appello, hanno condotto al rigetto della domanda, per il non ritenuto raggiungimento della prova circa il nesso causale tra attività lavorativa e insorgenza del mesotelioma, e perché dall’istruttoria era stato accertato che la permanenza della lavoratrice nel luogo di cui si supponeva la pericolosità, fosse quantitativamente e qualitativamente contenuta, così da escludere che – avendo i ricorrenti indicato la prestazione quale unica fonte di rischio per la loro congiunta – questo dovesse reputarsi superiore rispetto a quello cui va soggetto la generalità della popolazione.

Avverso tale decisione interpongono ricorso G.C., G.R. e G.P., con un’unica censura, cui resiste con tempestivo controricorso il Comune di Genova.

DIRITTO

Con l’unica censura, i ricorrenti deducono “Ex art. 360, punto 3 e 5 c.p.c. in relazione ad art. 2087 c.c.”

La censura rileva a carico della sentenza gravata un’anomalia motivazionale di base, conseguente all’avere la Corte d’appello recepito le risultanze di una CTU, confermativa di quella di primo grado, valutata dai ricorrenti di scarsa attendibilità scientifica.

Parte ricorrente affida al lungo riepilogo dello svolgimento dei giudizi di merito, i suoi convincimenti sulla natura “monofattoriale” del rischio da esposizione all’amianto, confutando le risultanze mediche della CTU, e contestando la valutazione, da parte del Giudice dell’appello, degli elementi probatori orali e documentali acquisiti nel corso del giudizio.

La censura è inammissibile.

Essa, infatti, non consente di individuare con chiarezza né la prospettazione di violazione dell’art. 2087 cod.civ., né quella di omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La giurisprudenza di questa Corte ritiene in proposito che “E’ inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che prospetti, in violazione delle regole di chiarezza e specificità dell’impugnazione, una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate e dalla deduzione del vizio di motivazione, in quanto esso richiede un intervento integrativo della Corte, volto a enucleare dall’insieme delle censure, e per ciascuna delle doglianze sollevate, lo specifico vizio di violazione di legge o del vizio di motivazione” (Cass. n.21611/2013; Cass. n.18021/2016).

La censura è, altresì, inammissibile poiché non censura la doppia ratio decidendi della sentenza.

Il Giudice dell’appello, infatti, da un lato ha accertato la “modesta esposizione” della lavoratrice al rischio da esposizione ad amianto nel magazzino contenente le tubazioni, sia per il tempo trascorso al suo interno (in media un’ora alla settimana oltre ad altri accessi variabili e solo eventuali), sia per le mansioni ivi espletate, le quali non richiedevano attività di diretta manipolazione del materiale, dall’altro – recepita la determinazione della CTU – ha ritenuto, con motivazione esente da vizi, non provato il nesso causale tra l’attività lavorativa svolta dalla R.O. e la patologia contratta dalla medesima.

L’unica doglianza si limita, così, a contestare genericamente le statuizioni del Giudice dell’appello, e si rivela inadeguata a censurare le rationes sopra indicate e, dunque, a rimettere in discussione il decisum.

E’, dunque, opportuno ricordare la giurisprudenza di questa Corte là dove afferma che “Il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione” (Cass. Sez. Un.n.7931/2013).

In aderenza ai principi sopra richiamati, qualsiasi altra ricostruzione dei fatti contrastante con quella accertata nella sentenza impugnata, ovvero qualsiasi censura dell’apprezzamento o del convincimento del giudice del merito che risulti difforme da quanto auspicato dalla parte ricorrente, è da ritenersi parimenti inammissibile, per involgere un riesame del merito non consentito in questa sede (ex multis, Cass. n.25332/2014).

Pertanto, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento nei confronti del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3000 per competenze professionali, oltre spese forfetarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 e agli accessori di legge.