CORTE di CASSAZIONE – Sentenza n. 18549 depositata il 30 giugno 2023
Tributi – Silenzio-rifiuto – Restituzione aliquota addizionale IRPEF – Settore finanziario – Attività rivolta al pubblico – Dirigente – Settore della consulenza e servizi di natura intellettuale – Art. 33, D.L. n. 78/2010 – Presupposto oggettivo dell’imposizione – Ricorso incidentale condizionato – Accoglimento
Fatti di causa
1. Come risulta dalla sentenza impugnata, il Dott. P.A.C.E. impugnò il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso presentata all’Agenzia delle entrate, con la quale aveva chiesto la restituzione delle ritenute subite, nell’anno d’imposta 2015, ai sensi dell’art. 33 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, a titolo di aliquota addizionale Irpef del dieci per cento sugli emolumenti variabili (bonus) attribuiti allo stesso contribuente quale remunerazione nell’ambito del rapporto che legava il suddetto alla (Omissis) s.p.a., già (Omissis) s.r.l. e già (Omissis) s.r.l., rapporto assimilabile, ai fini reddituali, al lavoro dipendente a norma dell’art. 50, comma 1, lett. c-bis), TUIR. L’adita Commissione tributaria provinciale di Milano accolse il ricorso.
Avverso tale pronuncia ha proposto appello l’Agenzia e la Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza di cui all’epigrafe, ha respinto l’impugnazione erariale, escludendo la sussistenza del requisito soggettivo dell’imposizione, in quanto la società (Omissis) s.p.a., sostituto d’imposta che aveva effettuato le ritenute, operando nei servizi di consulenza finanziaria e di natura intellettuale, non era inclusa, secondo il giudice d’appello, nel “settore finanziario” di cui al predetto art. 33 del d.l. n. 78 del 2010.
Propone ricorso per cassazione, affidato ad un motivo e supportato da successiva memoria, l’Agenzia delle entrate.
Il contribuente resiste con controricorso e successiva memoria.
Il P.G. ha depositato conclusioni scritte, chiedendo di rigettare il ricorso erariale.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso, l’Agenzia deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Sostiene la ricorrente Agenzia, che la CTR avrebbe errato nell’escludere l’applicazione dell’addizionale in ragione della circostanza che la società che ha pagato al contribuente i compensi variabili ed operato fosse estranea al “settore finanziario” menzionato nel ridetto art. 33, svolgendo attività di consulenza in materia finanziaria, non concedendo finanziamenti al pubblico, non essendo iscritta all’albo degli intermediari finanziari, redigendo i propri bilanci secondo le regole previste per i soggetti “industriali” e non essendo pertanto in condizioni di incidere sulla stabilità dei mercati finanziari.
2. Deve, preliminarmente, rilevarsi l’ammissibilità del motivo, che non censura un accertamento in fatto del giudice a quo, ma l’interpretazione, e la conseguente pretesa violazione e falsa applicazione, della fattispecie legale astratta di cui all’art. 33, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, con particolare riferimento al concetto del “settore finanziario”, requisito soggettivo che, unitamente alla specie dei compensi, determina il presupposto dell’imposizione.
3. Sempre preliminarmente, deve rigettarsi l’eccezione di formazione del c.d. “giudicato esterno”, con effetti sul presente giudizio, sollevata dal controricorrente ” a seguito alla definitività delle sentenze passate in giudicato n. 1033/2020 (all. n. 1) e n. 368/2020 (all. n. 2), emesse dalla CTR Lombardia con riferimento ad un collega del resistente dipendente della medesima (Omissis) Spa.”.
L’eccezione è infatti infondata, per una serie di ragioni, ciascuna sufficiente alla relativa declaratoria.
Deve rilevarsi innanzitutto che la formazione di un giudicato opponibile (che sia uno di quelli eccepiti dal contribuente o altro che possa interessare comunque quest’ultimo) trova ostacolo in relazione alla pura “interpretazione giuridica” della norma tributaria (nel caso di specie, l’interpretazione “in astratto” dell’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010, come novellato dal d.l. n. 98 del 2011, in particolare riguardo al concetto di “settore finanziario”), ove intesa come mera argomentazione avulsa dalla decisione del caso concreto, poiché detta attività, compiuta dal giudice e contestuale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituire un limite all’esegesi esercitata da altro giudice, né è suscettibile di passare in giudicato autonomamente dalla domanda e dal capo di essa cui si riferisce, assolvendo ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione, ferma, in ogni caso, la necessità del collegamento, tendenzialmente durevole, ad una situazione di fatto (Cass. 21/10/2013, n. 23723).
Nel caso di specie, le decisioni che si vorrebbe esplicassero efficacia di giudicato dipenderebbero, al netto delle possibili questioni di fatto (peraltro dati oggettivi variabili, dei quali non è presumibile la permanenza e la costanza in tutti gli anni d’imposta), esclusivamente dall’interpretazione del ridetto art. 33, ovvero dall’esegesi della fattispecie legale astratta, che non vincola pertanto i successivi giudicanti.
Ferma restando tale premessa, sufficiente all’integrale rigetto dell’eccezione, deve aggiungersi, con specifico riferimento alle decisioni dedotte dal contoricorrente, che le sentenze sulle quali si fonda l’eccezione di giudicato non sono state emesse nei confronti dello stesso contribuente, mentre l’efficacia di giudicato esterno (non ricorrendo la fattispecie di cui all’art. 1306 c.c.: cfr. Cass. 13/01/2011, n. 691; Cass. 2/12/2015, n. 24558; Cass. 17/05/2017, n. 12252) presuppone necessariamente che la decisione divenuta irrevocabile sia stata emessa all’esito di un procedimento svoltosi tra le stesse parti (ex plurimis: Cass., sez. u., 16/06/2006, n. 13916; Cass. 7/12/2021, n. 38950; Cass. 24/05/2022, n. 16684; Cass. 15/09/2008, n. 23658).
Infine, ferme le ragioni della generale infondatezza del mezzo, va pure considerato che il giudicato esterno, per essere eccepito o rilevato comunque per la prima volta nel giudizio di legittimità, deve essere sopravvenuto rispetto alla sentenza impugnata con il ricorso.
In relazione alle predette sentenze irrevocabili, rispetto alla data di deposito della sentenza qui impugnata (14 marzo 2022) e comunque alla data della relativa udienza di deliberazione (26 gennaio 2022), termine ultimo per ogni allegazione difensiva in grado di appello nel rito tributario (cfr. ex plurimis Cass. 2/09/2022, n. 25863; Cass. 31/05/2019, n. 14883, nel giudizio ordinario; Cass. 22/11/2021, n. 35920) – tale condizione non sussiste, sicché la rilevazione del relativo giudicato sarebbe comunque ulteriormente preclusa. La sentenza qui impugnata, infatti, non rende conto della deduzione (e della documentazione) in quel grado di merito del preteso giudicato esterno, né comunque della proposizione, da parte dello stesso contribuente, della relativa eccezione, che neppure nel controricorso per cassazione si deduce sia stata già sollevata dal contribuente.
4. Venendo pertanto al merito dell’unico motivo di ricorso, la questione riguarda l’interpretazione della nozione di “settore finanziario” menzionata nell’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010. Secondo l’Agenzia ricorrente, la CTR avrebbe errato nell’escludere l’appartenenza a tale settore della (Omissis) s.p.a., della quale il contribuente era dirigente, sul presupposto che la definizione dei “Soggetti operanti nel settore finanziario” sarebbe demandata all’art. 106 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, c.d. Testo Unico Bancario (T.U.B.), come modificato dal d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, per il quale “l’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma è riservato agli intermediari finanziari autorizzati, iscritti in un apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia”, per cui si dovrebbero ricomprendere nel “settore finanziario” i soli “intermediari” di cui all’art. 106 del T.U.B..Tra i quali non sarebbe inclusa quindi (Omissis), che non svolge attività finanziaria nei confronti del pubblico ed opera in ambito prettamente consulenziale.
In sintesi, secondo la CTR, censurata sul punto dalla ricorrente, il contribuente non assumerebbe la qualifica di dirigente operante nel “settore finanziario” ai sensi dell’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010, poiché, la (Omissis), presso cui ha svolto la sua attività lavorativa: (i) opera nel settore della consulenza e quindi, garantisce servizi di natura intellettuale; (ii) non svolge attività di concessione di finanziamenti nei confronti del pubblico; (iii) non è iscritta presso l’albo degli intermediari finanziari tenuto presso la Banca d’Italia, quindi non è soggetta a vigilanza della Banca d’Italia. Dunque, a detta della CTR, al fine di rientrare nella nozione di soggetti finanziari, occorre essere “intermediari finanziari”, ovvero svolgere un’attività finanziaria nei confronti del pubblico ed essere sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia, mentre restano esclusi da tale nozione le società che svolgono attività di consulenza in materia finanziaria.
5. Va premesso che è unanime la critica, sia in dottrina che nella giurisprudenza di merito (pervenuta, sul punto, ad approdi non omogenei), alla non immediata evidenza del significato testuale della norma, sia nella versione originaria dell’art. 33 che (tanto più) in quella modificata con l’inserimento del comma 2-bis.
In particolare, con riferimento al requisito soggettivo, tale critica censura la mancata individuazione, eventualmente attraverso un rinvio esplicito ad altre norme fiscali o meno, del “settore finanziario”. Tale presa d’atto costituisce in genere la premessa per la delimitazione del concetto in esame attraverso la riconduzione ad altre disposizioni, ciascuna dettata per specifiche finalità di disciplina, non necessariamente coincidenti con la ratio esplicita che, come si dirà, innerva l’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010.
6. È utile ricordare il contesto storico che costituisce l’immediato antecedente della disposizione in esame ed è rappresentato dalla crisi finanziaria del periodo 2006/2009.
Dal documento ufficiale della Consob sulle “crisi finanziarie” emerge che, grazie alla cartolarizzazione indiscriminata, le entità finanziarie poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio (fenomeno del leverage o leva finanziaria). Ciò consentiva loro di realizzare profitti molto elevati, ma le esponeva anche al rischio di perdite ingenti, perché si rientrava in tempi rapidi nella disponibilità del denaro prestato, che potevano riutilizzare per erogare altri finanziamenti a clienti la cui affidabilità veniva valutata in maniera sempre meno accurata. Le entità più coinvolte registrarono pesanti perdite e si susseguirono vari declassamenti del merito di credito di titoli cartolarizzati, ma tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili, costringendo le società veicolo a chiedere fondi alle banche che li avevano emessi e che avevano garantito linee di liquidità. La Consob stigmatizza inoltre che, a fronte dell’opacità dei prodotti e della difficoltà di apprezzarne il valore, il giudizio delle agenzie di rating ha evidenziato i suoi limiti quando fu chiaro che le agenzie avevano utilizzato modelli basati su ipotesi dell’evoluzione del quadro congiunturale troppo ottimistici ed avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione), dimostrandosi troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi. La crisi apparve sempre più nella sua natura sistemica, con turbolenze senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari e, progressivamente, all’intero sistema economico, attingendo l’economia reale statunitense ed Europea.
La patologia della crisi del 2006/2009, sulla quale occorreva intervenire per evitare che potesse ripetersi, non riguardava dunque soltanto il mondo bancario, ma tutte quelle compagini coinvolte, a vario titolo, nel fenomeno dell’espansione tossica della leva finanziaria nelle imprese, anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione. In particolare, la crisi ha evidenziato l’attitudine del sistema, nel suo complesso, a creare per gli operatori un metodo di incentivi distorto e deresponsabilizzante, con la conseguente necessità di intervenire, con funzione generale e preventiva, soprattutto in materia di politiche di remunerazione dei manager e di gestione dei rischi.
In tale quadro si colloca l’intervento dell’organismo di consultazione economica mondiale del G20, frutto del summit del settembre 2009 e riassunto nel conseguente Leaders’ Statement. Nell’ambito del quale (in particolare nei paragrafi da 10 a 13) si menziona, tra le cause della crisi mondiale, l’assunzione di rischi sconsiderati e irresponsabili da parte non solo di banche, ma anche di altri “istituti finanziari”, espressione che, in un contesto internazionale necessariamente sintetico rispetto alle fattispecie nazionali di varia natura e conformazione normativa interna, deve interpretarsi in senso ampio, essendo caratterizzata ed unificata dall’esposizione a rischio dell’economia reale in seguito alle possibili condotte degli operatori.
Ed infatti nel documento, nel s13, secondo alinea, si parla di “excessive compensation in financial sector” senza ulteriori specificazioni, per indicare una direzione d’intervento general-preventiva, e si evidenzia la necessità di intervenire sul sistema di regolamentazione finanziaria globale, con riferimento a tutte le imprese il cui operato potrebbe rappresentare un rischio per la stabilità finanziaria, al fine di proteggere i consumatori, i depositanti e gli investitori da pratiche di mercato abusive, promuovere elevati standard di qualità e aiutare a garantire che il mondo non affronti una nuova crisi della medesima portata di quella già verificatasi. Ed è in questa chiave che nel Leaders’ Statement si prospettano interventi volti ad allineare la remunerazione dei dirigenti alla creazione di valore a lungo termine, non all’assunzione di rischi eccessivi, e di conseguenza anche a limitare la remunerazione variabile per garantire il mantenimento di una solida base patrimoniale ed aumentare la stabilità finanziaria (così come prospettato già all’esito della riunione informale dei capi di stato o di governo dell’UE tenutasi a Bruxelles il 17 settembre 2009, ove ci riprometteva di promuovere pratiche retributive responsabili nel settore finanziario).
Allo stesso tempo, anche in ambito UE non sono mancate iniziative programmatiche. Il 29 aprile 2009 la Commissione Europea ha presentato una raccomandazione sulla remunerazione del personale di tutto il comparto dei servizi finanziari la cui attività professionale ha un’incidenza materiale sul profilo di rischio degli istituti finanziari, intesa ad evitare politiche sconsiderate di incentivi, e poi una seconda raccomandazione sul sistema di remunerazione degli amministratori delle società quotate.
Inoltre, all’esito della riunione dei capo di Stato e di Governo tenutasi a Bruxelles il 17 settembre 2009, è stato predisposto un testo che mirava, tra l’altro, a “Promuovere pratiche retributive responsabili nel settore finanziario”, contenente riferimenti ad istituti finanziari e banche, ma anche espressioni generiche e polisense.
L’8 ottobre 2009 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che al s 16 “accoglie con favore l’appello lanciato ai ministri delle Finanze del G20 e ai governatori delle banche centrali al fine di raggiungere un accordo su un quadro internazionale di riforma nelle seguenti aree critiche del settore finanziario: (…) riformare le pratiche in materia di incentivi retributivi per sostenere la stabilità finanziaria (…)”.
Il 7 luglio 2010 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione di iniziativa sulla remunerazione degli amministratori delle società quotate.
Nel luglio 2010 il Parlamento Europeo ha approvato inoltre la proposta di direttiva per la modifica delle direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE sui requisiti patrimoniali (COM(2009)362, cosiddetta Basilea III), nel cui contesto si prospetta la necessità di interventi volti a favorire “pratiche sane in materia di incentivi retributivi”, allo scopo di porre fine agli incentivi a rischi eccessivi che hanno contribuito alla crisi finanziaria in corso.
7. In tale contesto è intervenuto il legislatore italiano con l’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010, senza effettuare alcun rinvio ad altra fonte che disciplini il “settore finanziario” (ed in particolare non richiamando il T.U.B.., né facendo riferimento alla qualifica e definizione degli “intermediari finanziari”). Soluzione, quest’ultima, ascrivibile ad un’opzione consapevole, piuttosto che ad una censurabile dimenticanza, atteso che già nei lavori preparatori, ed in particolare nella scheda di lettura dell’art. 33 predisposta per l’esame del disegno di legge dal Dipartimento Bilancio del Servizio Studi della Camera dei deputati, veniva annotato ” Si valuti se la genericità del riferimento al “settore finanziario” possa ingenerare dubbi nell’individuazione dei soggetti tenuti al pagamento dell’imposta”.
Nella sostanza, se (come pure sostiene un orientamento giurisprudenziale del quale infra si dirà) il legislatore del 2010 avesse voluto limitare il riferimento dell’art. 33 del D.L. n. 78 agli intermediari regolati dal T.U.B., o ad altra specifica categoria di operatori, lo avrebbe fatto con una previsione esplicita o, quanto meno, con un rinvio all’art. 106 dello stesso T.U.B., ovvero avrebbe rinviato ad altra disposizione, ma tanto non ha fatto. In realtà, la peculiarità dell’art. 33, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010 deve cogliersi nell’avere il legislatore esplicitato (anche) nel dato normativo positivo quella che è la ratio teleologica del suo intervento, attraverso la formula testuale ” In dipendenza delle decisioni assunte in sede di G20 e in considerazione degli effetti economici potenzialmente distorsivi propri delle forme di remunerazione operate sotto forma di bonus e stock option (…)”. Invero, il riferimento agli esiti del G20 rimarca l’inserimento della norma nel flusso del più ampio movimento che, a livello internazionale, come già descritto, aveva individuato la necessità, per prevenire nuove possibili crisi, di intervenire su alcune forme di incentivi retributivi. Contemporaneamente, la scelta, da parte del legislatore, di descrivere contestualmente gli effetti potenzialmente distorsivi, che intende prevenire, come “economici”, evidenzia come la ratio essenziale e selettiva dell’intervento normativo stia proprio nella pericolosità di condotte dei dirigenti, che siano stimolate da forme di retribuzione variabile, per l’economia reale, ed è tale potenzialità nociva che quindi caratterizza la delimitazione del “settore” rilevante ai fini dell’imposta addizionale.
La ragione socio-economica della norma in esame era quindi quella di intervenire ad ampio raggio sul “settore finanziario”, per comprendere, con imposizione di pericolo astratto (o presunto), tutti gli attori che, operando sulla scena finanziaria globale, sono in grado, direttamente e/o indirettamente, di indurne torsioni pregiudizievoli per effetto di abnormi incentivi retributivi.
In questo senso, significativa è peraltro l’estensione dell’addizionale anche ai “titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nello stesso settore”, che evidenzia come la funzione general-preventiva di pericolo astratto (o presunto) sia stata estesa persino al di fuori dei normali rapporti di preposizione organica, per cogliere posizioni soggettive che, pur collaterali, hanno comunque attitudine potenziale ad incidere sulla leva finanziaria. Altrettanto significativa è pure l’accentuazione della funzione general-preventiva dell’addizionale derivata dal successivo ampliamento, con l’art. 23, comma 50bis, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, della platea dei soggetti passivi dell’imposizione, attraverso l’aggiunta, all’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010, del comma 2-bis, che ha reso applicabile l’addizionale sull’ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione. In tale prospettiva generale di prevenzione anticipata del rischio di effetti economici potenzialmente distorsivi, deve quindi ritenersi che il ridetto art. 33, comma 1, contenga una clausola generale riferita al “settore finanziario” approcciato nella sua globalità e complessità, la cui nozione fiscale è derivata da quella socioeconomica, sì da ricomprendere tutti quegli attori di compagini (anche non necessariamente soggette a vigilanza e/o che svolgano attività rivolta al pubblico) che, essendo attive sulla scena finanziaria, sono in grado, direttamente e/o indirettamente, di indurne torsioni pregiudizievoli per effetto di incentivi retributivi.
Ed è peraltro sintomatica dell’ampiezza di tale clausola generale la circostanza che, in prima battuta, con una sorta di “tassazione analitico-aziendale”, diversi operatori economici imprenditoriali e professionali, quali sostituti d’imposta, abbiano per primi auto-qualificato, come appartenente al “settore finanziario”, la loro attività, anche a prescindere dalla riconducibilità della stessa a quella di “intermediazione finanziaria” rivolta al pubblico in ragione di specifiche disposizioni del T.U.B..
8. La Corte costituzionale ha ritenuto legittima la norma in questione, essendo circoscritta la categoria dei soggetti passivi incisi dal prelievo addizionale a coloro che “in ragione del tasso di professionalità, della autonomia operativa, del potere decisionale di cui godono e dell’aspirazione a maggiori guadagni personali (per il legame tra l’andamento del titolo da un lato ed il riconoscimento e l’ammontare del beneficio correlato a dette forme di compenso dall’altro), sono in grado di porre in essere attività speculative suscettibili di pregiudicare la stabilità finanziaria” (Corte Cost., sentenza n. 201 del 16 luglio 2014).
Va invero ricordato che il vincolo negativo d’interpretazione non sussiste quando la Corte costituzionale respinga la tesi dell’autorità rimettente in base ad argomenti puramente ermeneutici, senza presuppore o addirittura escludendo l’incostituzionalità della disposizione denunciata nella esegesi del giudice a quo (Cass. 21/07/1995, n. 7950).
Tanto premesso, deve darsi atto che comunque, anche secondo la motivazione resa dalla Consulta, il fulcro della fattispecie risiede nell’attitudine potenziale della retribuzione variabile, in relazione all’attività di alcuni contribuenti, a pregiudicare la stabilità finanziaria. Nè, del resto, la Corte definisce diversamente ed ulteriormente la categoria dei contribuenti sottoposta al prelievo, non delimitando in altro modo il concetto del “settore finanziario” e non supportando quindi interpretazioni restrittive della platea dei soggetti passivi, ed in particolare quella secondo cui essa dovrebbe coincidere esclusivamente con gli “intermediari finanziari” o comunque con soggetti destinati ad operare nei confronti del pubblico e sottoposti a vigilanza della Banca d’Italia.
Ed è appena il caso di ricordare che la stessa Corte costituzionale, nella motivazione della medesima decisione, da un lato non richiama affatto norme nazionali; dall’altro richiama la direttiva 2013/36/UE, ed in particolare non il testo di quest’ultima, ma specificamente il solo contenuto programmatico dei “considerando” da 62 a 69, che a loro volta richiamano le già anticipate conclusioni del G-20 in tema di pratiche sane in materia di remunerazione e dell’effetto dannoso che strutture di remunerazione mal concepite possono avere.
Fermo restando, peraltro, che, in materia d’imposizione non armonizzata quale quella sub iudice, gli Stati membri sono liberi d’intervenire in maniera più stringente (purché senza discriminazione nel trattamento fiscale tra entità residenti e non residenti), là dove, anche per la CEDU, essi godono di vasta discrezionalità in ambito fiscale, specie quando si tratta di misure generali di strategia economica o sociale (Wallishauser c. Austria, n. 2), s 65), nonché nella strutturazione e nell’attuazione di una politica in materia di tassazione (“Bulves” AD c. Bulgaria, s 63; Gasus Dosier-und Fördertechnik GmbH c. Paesi Bassi, s 60; Stere e altri c. Romania, s 51), spettando soprattutto alle autorità nazionali decidere il tipo di imposte o di contributi che desiderano imporre, all’esito di una valutazione dei problemi politici, economici e sociali che è di competenza delle autorità interne degli Stati membri (Musa c. Austria; Baláž c. Slovacchia; R.Sz. c. Ungheria, ss 38 e 46), entro i confini della riserva di legge sostanziale (James e altri c. Regno Unito; Spacek vs. Rep. Ceca) e dei diritti fondamentali derivanti dalla Convenzione e dal Primo Protocollo (Shchokin c. Ucraina; Darby c. Svezia; Metalco c. Ungheria).
9. È noto, a questo Collegio, che questa Corte, occupandosi della medesima questione, ha diversamente ritenuto che “L’imposta addizionale del dieci per cento prevista dall’art. 33 del D.L. n. 78 del 2010, conv. in l. n. 122 del 2010 – trattenuta dal sostituto di imposta al momento dell’erogazione degli emolumenti riconosciuti ai dirigenti sotto forma di “bonus” e “stock options” quando detti compensi eccedano il triplo della parte fissa della retribuzione – si applica nei confronti dei dirigenti delle imprese operanti nel settore finanziario che svolgono attività “rivolta al pubblico”, mentre non sono assoggettati al prelievo i dirigenti di “holding” industriale che pur possegga partecipazioni in società del gruppo operanti nel settore finanziario, dovendo peraltro escludersi che il cit. art. 33 abbia disposto un rinvio recettizio alla nozione di “settore finanziario” contenuta nel testo originario dell’art. 106 T.U.B. (contenente il riferimento all’attività di assunzione di partecipazione, poi eliminato dall’art. 10 del d.lgs. 141 del 2010)” (Cass. 19/10/2020, n. 22692; conforme Cass. sez. VI/V 8/02/2022, n. 3912).
Ritiene tuttavia il Collegio di non aderire a tale orientamento, per le ragioni già illustrate, che impongono un’interpretazione della fattispecie che non può far coincidere a priori il concetto di “settore finanziario” con quello dettato ad altri fini da altre norme dell’ordinamento, prescindendo dalla premessa testuale della ratio delle finalità della disposizione e dalla pericolosità, per la stabilità dell’economia reale, delle modalità retributive che essa vuole dissuadere.
Il citato precedente, nella motivazione, pur dopo un riferimento alle decisioni assunte in sede di G20 ed agli effetti economici potenzialmente distorsivi da prevenire, per quanto qui interessa conferma infine la tesi della CTR che aveva ritenuto ” di individuare il settore finanziario, al quale la norma è testualmente riferita, in quello nel quale l’attività è “rivolta al pubblico” – così come testualmente previsto dall’art. 106 e dalla rubrica dell’art. 155 del d.lgs. n. 385 del 1993 (T.U.B.) – e perciò soggetta ad autorizzazione e controllo del Ministro del Tesoro, della Banca d’Italia e della CONSOB”. Tuttavia, la stessa ordinanza contemporaneamente rileva che “Non avendo l’art. 33 richiamato esplicitamente l’art. 106, deve escludersi ogni ipotesi di rinvio recettizio alla norma del T.U.B. ancora vigente. Sicché, se da un lato non può dedursi il concetto di settore finanziario dalla formulazione dell’art. 106 introdotta dal D.Lgs. n. 141, tanto meno sarebbe ammissibile la cristallizzazione della nozione asseritamente portata dal testo originario anche in epoca successiva alla sua modifica. “.
Invero, non sembrano emergere le ragioni per cui la (condivisibile ed oggettiva) constatazione del mancato rinvio, da parte dell’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010, all’art. 106 T.U.B. (che impedirebbe a monte la qualificazione come “recettizio” di un rinvio che… non sussiste), possa conciliarsi con la contestuale individuazione, all’interno del medesimo art. 33, di un “testuale riferimento” allo stesso art. 106 T.U.B., al fine di trarne la conseguenza che il “settore finanziario” sarebbe esclusivamente ” quello nel quale l’attività è “rivolta al pubblico” – così come testualmente previsto dall’art. 106 e dalla rubrica dell’art. 155 del d.lgs. n. 385 del 1993 (T.U.B.)”.
Ritiene pertanto il Collegio che da tali argomentazioni non possa ricavarsi né la ricostruzione univoca di un riferimento “testuale” dell’art. 33, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010 all’art. 106 (e/o alla rubrica dell’art. 155 del T.U.B.; né comunque l’evidenza delle ragioni per cui, all’interno del “settore finanziario”, lo stesso art. 33 dovrebbe essere comunque applicato solo agli operatori che svolgono attività “rivolta al pubblico” e che possano definirsi “intermediari finanziari”.
Tanto più in considerazione della circostanza che, sotto il profilo logico, sono ipotizzabili condotte finanziarie speculative, foriere di effetti economici potenzialmente distorsivi, che si collocano a monte della collocazione di titoli o del compimento di altra attività finanziaria esterna che predispongono e che ad esse faccia seguito. Tanto meno, poi, appare convincente istituire un forzato ed esclusivo parallelismo tra appartenenza al “settore finanziario” ai sensi dell’art. 33 in questione e sottoposizione alla vigilanza di organismi ed autorità finanziarie nazionali di controllo, laddove si consideri (in aggiunta a quanto sinora osservato) che la disposizione in esame opera a monte della stessa attività in ipotesi da vigilare, a prescindere dal rispetto o meno delle differenti e specifiche regole cui la vigilanza è strumentale, e con la specifica finalità, extrafiscale, di disincentivare, attraverso un trattamento fiscale differenziato meno favorevole, modalità remunerative variabili considerate pericolose per la stabilità finanziaria (intesa nel senso lato già descritto), ma non per questo necessariamente censurabili anche in sede di vigilanza. Differenti sono quindi i presupposti, gli scopi e gli effetti della vigilanza rispetto alla norma in esame.
10. Invero, nella prospettiva che, in ragione dell’origine e della ratio della disposizione, interpreta il “settore finanziario” quale clausola generale di derivazione socio-economica, la potenziale attitudine a produrre, se stimolati dalla conseguente maggior retribuzione variabile, effetti economici potenzialmente distorsivi, non appare esclusiva dei dirigenti di banche e degli intermediari finanziari.
In particolare, venendo al caso sub iudice, non vale ad escludere dal “settore finanziario”, interpretato ai fini di cui al ridetto art. 33, la circostanza che la società dalla quale il contribuente ha ricevuto (anche) la retribuzione variabile svolga (così come accertato in fatto nella sentenza impugnata e non controverso) “servizi di consulenza e assistenza in materia societaria e finanziaria delle aziende”. Infatti, una volta esclusa la rilevanza di qualificazioni formali dei “soggetti” finanziari ricavabili da altre disposizioni dettate a diversi fini, la consulenza in materia finanziaria è idonea generare (attraverso il meccanismo della retribuzione variabile) quegli ” effetti economici potenzialmente distorsivi” che l’art. 33 prende in considerazione. Assumere che la posizione del consulente sarebbe neutra a tal fine, in quanto gli effetti economici potenzialmente distorsivi potrebbero essere realizzati effettivamente soltanto da chi, ricevuta la consulenza, agisca eventualmente di conseguenza, significherebbe da un lato dimenticare che l’art. 33 ha comunque una funzione preventiva di dissuasione anticipata e di prevenzione del pericolo; dall’altro negare a priori ogni rilevanza funzionale all’attività consultiva, in contrasto con la funzione di quest’ultima e con la ragione per cui essa viene richiesta. Anche la consulenza finanziaria, in sintesi, attraverso il sistema della retribuzione variabile, può determinare potenzialmente quegli effetti distorsivi che possono pregiudicare la stabilità del mercato e che il legislatore ha inteso prevenire con la norma in esame, ed anche le società di consulenza finanziaria rientrano in quel perimetro di società (quanto meno) “operanti nel settore finanziario” (per usare l’espressione della già citata relazione accompagnatoria all’art. 33 del D.L. n. 78 del 2010), ai sensi ed ai fini del ridetto art. 33. Né occorre, in considerazione della funzione preventiva di dissuasione anticipata e di prevenzione del pericolo che innerva l’art. 33, accertare in concreto che la società di consulenza abbia effettivamente determinato gli effetti economici distorsivi il cui impedimento costituisce la ratio della norma.
11. Valga infine, quale argomento speso ad abundantiam, la considerazione che, al momento in cui è stato emanato il d.l. n. 78 del 2010, l’art. 59, comma 1, lett. b), T.U.B.. includeva tra le “società finanziarie” anche le società che esercitano, in via esclusiva o prevalente, una o più delle attività previste dall’art. 1, comma 2, lettera f), numeri da 2 a 12, e che il numero 9 prevedeva la “consulenza alle imprese in materia di struttura finanziaria, di strategia industriale e di questioni connesse, nonché consulenza e servizi nel campo delle concentrazioni e del rilievo di imprese”. Ferma restando la già evidenziata e sufficiente autonoma interpretazione funzionale del concetto di “settore finanziario” ai fini di cui all’art. 33, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, il dato normativo “esterno” ricavabile dal T.U.B. è significativo come ultroneo argomento circa la non predicabilità di una pretesa assoluta non riconducibilità dell’attività di consulenza al contesto finanziario.
12. In conclusione, può rassegnarsi il seguente principio di diritto: ” L’imposta addizionale prevista dall’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010, conv. in l. n. 122 del 2010 – trattenuta dal sostituto di imposta al momento dell’erogazione degli emolumenti riconosciuti ai dirigenti sotto forma di “bonus” e “stock options” quando detti compensi eccedano la parte fissa della retribuzione – si applica nei confronti dei dirigenti delle imprese operanti nel settore finanziario, con clausola generale riferita al settore finanziario inteso nella sua globalità e complessità, sì da ricomprendere anche soggetti non necessariamente sottoposti a vigilanza e/o che svolgano attività rivolta al pubblico, stante la ragione socio-economica di un intervento diretto a comprendere tutti quegli attori di compagini che, essendo attive sulla scena finanziaria, sono in grado, direttamente e/o indirettamente, di indurne torsioni pregiudizievoli per effetto di abnormi incentivi retributivi, laddove, riguardo alla disposizione di riferimento, eventuali riscontri extra-testuali – derivanti da fonti nazionali, Europee e internazionali – possono rivestire solo il ruolo di indici rivelatori esemplificativi, ma non esaustivi della fattispecie tributaria interna. (Nella specie la Corte ha ritenuto che rientrino in essa le società che svolgano servizi di consulenza e assistenza in materia societaria e finanziaria alle aziende).”.
13. Non ha fatto buon governo dei principi sinora illustrati la sentenza impugnata, secondo cui, in sintesi, il contribuente non assume la qualifica di dirigente operante nel “settore finanziario” ai sensi dell’art. 33 del d.l. n. 78 del 2010, poiché, la (Omissis), presso cui ha svolto la sua attività lavorativa: (i) opera nel settore della consulenza e quindi, garantisce servizi di natura intellettuale; (ii) non svolge attività di concessione di finanziamenti nei confronti del pubblico; (iii) non è iscritta presso l’albo degli intermediari finanziari tenuto presso la Banca d’Italia, quindi non è soggetta a vigilanza della Banca d’Italia. Argomenti che, pur non esplicitandolo, sembrano supporre che la delimitazione del requisito soggettivo in esame sia demandata all’art. 106 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, c.d. T.U.B., come modificato dal d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, per il quale “l’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma è riservato agli intermediari finanziari autorizzati, iscritti in un apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia”; o comunque sia derivata da tale definizione.
Allo stesso modo, per le ragioni già illustrate, la CTR ha errato nell’affermare che le società che svolgono attività di consulenza finanziaria non appartengano, ai fini di cui al ridetto art. 33, al “settore finanziario”, in quanto non potrebbero incidere sulla stabilità dei mercati finanziari.
14. Giova aggiungere che la sentenza impugnata ha espressamente accertato la ricorrenza di quello che essa ha definito come presupposto oggettivo legittimante l’applicazione dell’addizionale in questione, ovvero che il compenso variabile era stato, nell’anno d’imposta in esame, superiore di almeno tre volte la retribuzione fissa. Tuttavia, avendo negato comunque la sussistenza del presupposto soggettivo, ovvero l’appartenenza della società che ha pagato i compensi al “settore finanziario”, la CTR ha rigettato comunque l’appello erariale.
A fronte quindi (non del mancato esame o dell’assorbimento, ma) dell’esplicito accertamento, nella sentenza d’appello, della ricorrenza del c.d. “presupposto oggettivo” dell’imposizione, era onere del contribuente – soccombente sul punto, seppur vittorioso totalmente in appello – proporre ricorso incidentale condizionato (arg. da Cass. 22/09/2017, n. 22095, ex plurimis), senza che ciò sia avvenuto.
Invero il contribuente, sulla questione, si è limitato, nel controricorso, ad affermare che il “requisito oggettivo” “deve essere interpretato nel senso che, per far scattare la maggiorazione Irpef in esame, il bonus retributivo debba eccedere il triplo dello stipendio base dell’anno di percezione del compenso variabile, mentre la relativa base imponibile è determinata dall’intero bonus che eccede la paga base, come già statuito nei precedenti giudizi definitivi.”.
Fermo restando che, per le ragioni già illustrate, il contribuente avrebbe dovuto proporre ricorso incidentale condizionato, deve comunque rilevarsi che la richiamata allegazione di cui al controricorso neppure integrerebbe una mera riproposizione della questione, posto che non si pone in relazione critica con la sentenza impugnata e con l’esplicito accertamento in punto di fatto, da parte di quest’ultima, che il rapporto quantitativo del triplo nel caso di specie sussisteva.
A sua volta, la ricorrente non ha attinto la parte della decisione relativa all’accertamento del requisito oggettivo, così come interpretato dalla CTR.
15. All’accoglimento del ricorso consegue la cassazione della sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti, va rigettato il ricorso introduttivo del contribuente.
Le spese del merito si compensano e quelle di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente; compensa le spese dei giudizi di merito e condanna il controricorrente al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
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