CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 42 depositata il 3 gennaio 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – FRUIZIONE DEGLI SGRAVI CONTRIBUTIVI – NATURA DI IMPRENDITORE INDUSTRIALE – ISTITUTO SCOLASTICO GESTITO DA UNA CONGREGAZIONE RELIGIOSA – NON RILEVA – SOGGETTO OPERANTE PER FINE LUCRO
Fatti di causa
Il Tribunale del lavoro di Taranto, in accoglimento della domanda dell’Istituto scolastico M.A. di Taranto, dichiarava il diritto dello stesso agli sgravi contributivi previsti dalla legge n. 1089/1968, quale impresa esercente attività industriale; condannava l’Inps al rimborso delle somme corrispondenti a decorrere dal marzo 1990 al febbraio 2000 oltre accessori.
La decisione, su gravame dell’INPS, veniva riformata dalla Corte d’appello di Lecce sez. distaccata di Taranto che, con sentenza dell’8 settembre 2011, rigettava la domanda di fruizione degli sgravi contributivi.
Osservava, in particolare, la Corte territoriale che il diritto dell’Istituto scolastico agli sgravi previsti dalla legge n. 1089 del 1968 non poteva che essere riconosciuto in relazione alla qualità del richiedente di imprenditore industriale, ex art. 2195, n. 1 c.c. e l’Istituto scolastico appellato non rivestiva tale qualità perché non operava per fine lucro per cui non poteva fruire degli sgravi.
L’Istituto ha proposto ricorso per cassazione con un unico ed articolato motivo cui ha resistito I’Inps con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con unico motivo, denunciando contemporaneamente violazione e falsa applicazione degli artt. 2195 cod. civ., 18 L. n. 1089/1968, 1 comma 234 L. n. 662/1996 nonché motivazione contraddittoria su fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 primo comma nn. 3 e 5 cod. proc. civ., il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere riconosciuto al medesimo Istituto scolastico la natura di impresa industriale attribuendo centralità all’assenza dello scopo di lucro, sulla base del fatto incontroverso che sin da tempo anteriore al 1985 lo stesso esercitava senza scopo di lucro l’attività di istruzione di grado preparatorio, di istruzione primaria e di istruzione secondaria e che tale attività era stata inquadrata dall’Inps nel settore commercio ed assoggettata al relativo regime contributivo.
La Corte territoriale, male interpretando – ad avviso del ricorrente – i precedenti di questa Corte di cassazione, ha incentrato la decisione sul dato dell’assenza, nell’organizzazione del servizio scolastico, dello scopo di lucro affermando l’esistenza di un criterio di prevalenza del fine di lucro su quello di religione e dimenticando che, a seguito della sentenza delle SS.UU. n. 97/2001, era stato riconosciuto il diritto alla fruizione degli sgravi contributivi anche agli istituti scolastici pure se religiosi se in possesso delle stesse condizioni dedotte in ricorso.
2. Il motivo, nel suo duplice profilo, va rigettato perché infondato.
Oggetto della pretesa del ricorrente è il diritto a fruire degli sgravi previsti dall’art. 18 del d.l. n. 898/1968 conv. in L. n. 1089/1968, secondo cui, per quanto qui di interesse,”…. è concesso uno sgravio sul complesso dei contributi dovuti all’Istituto nazionale della previdenza sociale dalle aziende industriali che impiegano più di trentacinque dipendenti nei territori indicati dall’articolo 1 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1967, n. 1523″.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, citata dai medesimi ricorrenti (nn. 97/2001; 1640/2001; 1351/2001) e che va in questa sede ribadita in quanto se ne condividono le ragioni poste a fondamento, un istituto scolastico gestito da una congregazione religiosa può assumere la natura di impresa industriale, e quindi usufruire degli sgravi contributivi a favore delle imprese industriali operanti nel mezzogiorno, se svolge il servizio scolastico non per fini di religione e di culto ma per fini di lucro – alla cui integrazione può essere sufficiente l’idoneità almeno tendenziale dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio – e con organizzazione degli elementi personali e materiali necessari per il funzionamento del servizio stesso.
3. In sostanza, dalla giurisprudenza di questa Corte di cassazione citata si evince che le scuole confessionali possono considerarsi produttrici di un servizio laddove hanno per scopo la gestione di istituti scolastici, senza che rilevi in contrario la qualità di congregazione religiosa, propria del gestore, allorché il detto servizio venga svolto per fini di lucro e non di religione e di culto (vedi Cass. S.U., 11 aprile 1994, n. 3353; Cass., 6 settembre 1995, n. 9395).
4. La formula utilizzata contiene elementi eterogenei, quali l’esercizio dell’impresa ed il perseguimento di finalità religiose per cui, al fine di operare correttamente la concreta disamina della fattispecie, la giurisprudenza citata ha elaborato il criterio secondo cui, al fine di giungere all’attribuzione della natura di impresa industriale anche all’istituto scolastico confessionale che organizza gli elementi personali e quelli materiali che sono necessari per l’istituzione e il funzionamento del complesso servizio scolastico, va verificata la condizione che tale organizzazione – almeno tendenzialmente – sia diretta a ricavare dalla cessione dei beni o dei servizi prodotti quanto occorra per compensare i fattori produttivi impiegati e cioè a perseguire tendenzialmente il pareggio del bilancio.
5. La fattispecie astratta, dunque, tollera la natura confessionale del gestore del soggetto produttore del servizio di istruzione scolastica ma, come è naturale, non potrebbe consentire l’obliterazione della funzione economica essenziale di qualunque impresa anche se industriale e cioè, in altri termini, che si tenda alla compensazione dei fattori della produzione.
6. D’altro canto la legge n. 1089 del 1968, ha ribadito questa Corte di legittimità con le citate decisioni, persegue la distinta finalità di incremento dell’occupazione con la previsione di particolari agevolazioni contributive valevoli per tutte le imprese industriali operanti nel mezzogiorno – e non solo per gli enti ecclesiastici svolgenti attività scolastica per cui questi ultimi devono conformarsi ai primi per essere assimilati in unica categoria.
7. La Corte d’appello di Lecce sez. distaccata di Taranto si è attenuta a tale interpretazione dell’art. 18 della legge n. 1089/1968 posto che, dopo aver ricordato che la giurisprudenza di legittimità ha dapprima diversamente valutato l’attività degli istituti scolastici religiosi in materia previdenziale (Cass. n. 1246/1989 e 8014/1990) ed in quella giuslavoristica (Cass. n. 253/1989 e 818/1989) ha ribadito la necessità di interpretare la nozione di impresa industriale, richiamata dalla legge n. 1089/1968, con finalità specifiche di tipo previdenziale, nel senso di includervi anche le scuole religiose che certamente sono produttrici del servizio di diffusione del sapere e della scienza. Ha precisato, inoltre, la sentenza impugnata, che è necessario, in via ulteriore, accertare in quale misura l’ispirazione ideale e religiosa condizioni l’organizzazione del complesso dei mezzi economici destinati alla produzione del servizio scolastico e cioè a perseguire tendenzialmente il pareggio del bilancio.
8. Tale ricostruzione del quadro normativo al cui interno si colloca la fattispecie è corretta perché in sostanza corrisponde al paradigma tracciato da questa Corte che impone di scindere gli aspetti confessionali da quelli organizzativi dei mezzi di produzione, al fine di ricercare nel peculiare tipo di gestione l’oggettiva aspirazione alla realizzazione della regola di pareggio di bilancio. Nessun errore può, quindi, addebitarsi alla sentenza impugnata in punto di diritto, al netto delle affermazioni, prive di sostanziale incidenza sull’oggetto del giudizio, secondo le quali le scuole confessionali dovrebbero essere inquadrate all’interno del cd. lavoro sociale disciplinato dal legislatore tributario con il d.lgs. 460/1997 ed ai riferimenti alla nozione comunitaria dell’impresa, mentre risulta errata la tesi prospettata dal ricorrente che pretende di poter ottenere il riconoscimento della qualità di impresa industriale continuando a dare per ammesso ed addirittura incontestabile che è a sé estraneo ogni fine di lucro.
9. Peraltro, con riguardo al vizio di omessa e contraddittoria motivazione sul fatto contestato e decisivo per la risoluzione della controversia, relativo alla esistenza oggettiva – al di là della definizione astratta di fine di lucro – di una condizione utile all’inquadramento come impresa industriale, deve darsi atto che la Corte territoriale si è preoccupata di svolgere il concreto giudizio sulla effettiva presenza dei presupposti essenziali dell’impresa come sopra indicati e, con motivazione adeguata e non censurabile in questa sede di legittimità, ha accertato che nella specie non ricorre l’economicità dell’attività in quanto le prove testimoniali assunte e la documentazione allegata al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado avevano evidenziato l’ammissione ai corsi scolastici anche di allievi non paganti per spirito di liberalità ed assistenza e ciò in linea con la finalità di svolgere l’attività, canonicamente riconosciuta dalla Sacra Congregazione, di assistere e formare gli studenti. Inoltre, come riportato dalla relazione ispettiva prodotta dall’INPS e datata 18 gennaio 2001, le sovvenzioni regionali e statali ricevute (seppure definite irrisorie) erano erogate solo a condizione che il servizio reso nelle scuole materne fosse gratuito. Per tali ragioni l’appellato non poteva quindi qualificarsi come imprenditore tanto meno industriale ex art. 2195, n. 1, e, in quanto tale, non aveva diritto agli sgravi previsti dalla legge n. 1089/1968.
10. A fronte di tali argomentazioni, le censure formulate dal ricorrente, oltre che generiche perché sostanzialmente riproduttive di tutti gli elementi già valutati dalla Corte territoriale e prive del carattere di decisività, tendono a richiedere a questa Corte di legittimità una mera rivalutazione del medesimo materiale probatorio esaminato dalla Corte di merito e non il solo controllo sulla logicità del procedimento valutativo. Secondo la giurisprudenza di questa Corte di cassazione, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito (vd. Cass. n. 91/2014; 15489/2007; 5024/2012).
11. Il ricorso va perciò rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore del contro ricorrente, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15 per cento e spese accessorie di legge.
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