CORTE di CASSAZIONE – sentenza n. 6530 depositata il 20 marzo 2014
SANITA’ E SANITARI – U. S. L. – trattamento economico – riconoscimento alle mansioni superiori
Svolgimento del processo
Con sentenza del 14/1 – 25/3/2010 la Corte d’appello dell’Aquila ha rigettato l’impugnazione proposta dalla AUSL n. (OMISSIS) di Avezzano – Sulmona avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Sulmona che l’aveva condannata a corrispondere agli odierni intimati la maggiorazione retributiva dai questi pretesa a causa dello svolgimento delle superiori mansioni di infermiere professionale rispetto alla retribuzione ad essi erogata come infermieri generici.
La Corte territoriale ha spiegato che era stata fornita la prova, da parte dei lavoratori, dello svolgimento delle predette mansioni superiori e, pertanto, le contestazioni aziendali, incentrate sull’illegittimità di una tale assegnazione, sulla insussistenza della necessaria qualificazione professionale per lo svolgimento delle suddette mansioni, sulla mancanza di riferimento a posti di ruolo scoperti ed alla prevalente esecuzione di compiti superiori, non facevano venir meno il diritto dei dipendenti alla fruizione della retribuzione corrispondente alle mansioni effettivamente svolte.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’Azienda Sanitaria Locale (OMISSIS) Avezzano – Sulmona – L’Aquila con quattro motivi.
Resistono con controricorso gli intimati lavoratori. Le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1.-2. Coi primi due motivi, prospettati congiuntamente, l’azienda sanitaria ricorrente censura l’impugnata sentenza, anzitutto, per violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 e dell’art. 2126 cod. civ., sostenendo che la prima delle suddette norme è stata falsamente applicata dalla Corte d’appello, la quale non avrebbe tenuto conto dell’eccezione sollevata con riferimento alla denunziata mancanza di un formale e preventivo atto di assegnazione delle mansioni superiori, dando, invece, per scontato che avrebbe dovuto presumersi la consapevole volontà della parte datoriale nell’adozione del modulo organizzativo comportante lo svolgimento di mansioni superiori da parte dei lavoratori appellati. Quindi, secondo tale tesi difensiva, la Corte avrebbe ignorato che la norma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5 circoscrive il riconoscimento del diritto al trattamento economico per l’esercizio di fatto delle mansioni superiori alla sola ipotesi di nullità del provvedimento di assegnazione delle stesse, cioè allorquando un tale provvedimento esista, ma sia stato emesso al di fuori delle ipotesi tassativamente indicate.
Pertanto, la mancanza di un formale provvedimento di assegnazione non avrebbe potuto consentire, nella fattispecie, il ricorso al principio generale di cui all’art. 2126 cod. civ. in materia di riconoscimento del trattamento economico differenziale connesso allo svolgimento di mansioni superiori. Aggiunge la ricorrente che il diritto al corrispondente trattamento economico superiore deve ritenersi subordinato alla ricorrenza delle seguenti concomitanti condizioni: – Svolgimento delle mansioni in un posto di ruolo previsto in pianta organica e di fatto vacante; mancanza di un bando di concorso per la sua copertura; esistenza di un provvedimento formale di supplenza con assunzione di tutte le responsabilità, anche in ordine ai profili di copertura finanziaria. Inoltre, la Corte d’appello sarebbe incorsa nel vizio motivazionale rappresentato dall’omessa considerazione del punto decisivo attinente alla verifica della sussistenza o meno di un provvedimento formale di assegnazione delle mansioni superiori, ancorchè ai soli fini del riconoscimento del diritto alle differenze retributive ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52.
3. Col terzo motivo la ricorrente denunzia l’omessa motivazione circa fatti decisivi ai fini della controversia in quanto la Corte non avrebbe verificato la sussistenza o meno degli ulteriori elementi previsti dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, vale a dire la vacanza del posto in organico e lo svolgimento in modo prevalente dei compiti attinenti alla qualifica superiore, dal momento si era posto in evidenza che gli infermieri generici assicuravano esclusivamente un’attività di supporto agli infermieri professionali. Inoltre, si contesta che la Corte aveva addossato all’azienda appellante l’onere di dimostrare lo svolgimento da parte dei lavoratori delle mansioni inferiori sul presupposto, dato per certo, che il modulo organizzativo di lavoro adottato nella fattispecie era basato su una sorta di organigramma di fatto in cui gli infermieri svolgevano, in contrapposizione all’organigramma previsto di diritto, le mansioni superiori in modo consueto e prevalente. Infine, i giudici d’appello non avevano considerato la circostanza che i turni di lavoro venivano eseguiti congiuntamente dagli infermieri professionali e da quelli generici, per cui era da escludere che il ruolo svolto dai primi fosse intercambiabile, mentre era sicuro che l’attività svolta dai secondi era di semplice supporto.
4. Col quarto motivo la ricorrente si duole della illogicità della motivazione sul punto fondamentale della denunziata illiceità della causa e dell’oggetto delle prestazioni con riferimento all’esercizio di fatto di una professione sanitaria ausiliaria, quale quella di infermiere professionale, professione, questa, che i lavoratori avevano asserito di aver svolto, pur essendo sprovvisti del relativo diploma e pur non essendo iscritti nell’apposito albo professionale.
Ne conseguirebbe, secondo tale assunto difensivo, una nullità assoluta del rapporto per violazione di norme imperative che impedirebbe l’applicazione della particolare tutela prevista dall’art. 2126 del codice civile.
I quattro motivi appena riassunti possono essere trattati congiuntamente, essendo unitaria la questione ad essi sottesa.
Ebbene, gli stessi sono infondati.
Invero, come questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. Sez. lav. n. 14775 del 18/6/2010), “in materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, nè all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost.“. In effetti, questa Corte ha già scrutinato la questione con riguardo alla disposizione di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, come sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25, e successivamente modificato dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15), con specifico riferimento alla previsione del comma 5 (“Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore …”). Al riguardo è stato enunciato il principio di diritto secondo il quale, nel pubblico impiego contrattualizzato, il divieto di corresponsione della retribuzione relativa alle mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25, è stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6 ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio (Cass. 4 febbraio 2008, n. 2611; 5 ottobre 2007, n. 20899; 17 aprile 2007, n. 9130; 4 agosto 2004, n. 14944; 8 gennaio 2004, n. 91). In mancanza di ragioni nuove e diverse, opera il principio di fedeltà ai precedenti, sul quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione ordinamentale e, al contempo, di rilevanza costituzionale, di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonchè l’unità del diritto oggettivo nazionale affidata alla Corte di Cassazione (così Cass., Sez. un., 4 luglio 2003, n. 10615; 15 aprile 2003, n. 5994).
L’interpretazione secondo cui il divieto di erogare la retribuzione corrispondente alle mansioni di fatto svolte è stato eliminato con efficacia retroattiva, costituisce, del resto, adempimento dell’obbligo del giudice di risolvere le incertezze di lettura delle leggi adottando, quale canone ermeneutico preminente, il principio di supremazia costituzionale che impone all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per quella, anche caratterizzata da minore fedeltà alla formulazione letterale, che rende la disposizione conforme a Costituzione (secondo il monito ripetutamente rivolto alla giurisdizione dal giudice delle leggi:
vedi, tra le numerose decisioni costituzionali: n. 198 del 2003, n. 316 del 2001, n. 113 del 2000, n. 277 del 2000).
La giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, ha ripetutamente affermato l‘applicabilità, anche nel pubblico impiego e nel lavoro pubblico in generale, dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata anche alla qualità del lavoro prestato (Corte cost.sentenze nn. 57 del 1989, 296 del 1990, 101 del 1995; ordinanze nn. 408 del 1990, 337 del 1993, 347 del 1996).
Pertanto, si deve ritenere che l’intenzione del legislatore sia stata di rimuovere, con la disposizione correttiva, una norma in contrasto con i principi costituzionali. Al principio enunciato consegue che il diritto ad essere compensato per lo svolgimento di mansioni superiori (nella misura stabilita specificamente dalla legge – D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, – e pari alla differenza di retribuzione con la qualifica cui corrispondono le mansioni svolte di fatto) non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità dell’assegnazione delle mansioni e alle previsioni dei contratti collettivi.
Non ha, perciò, fondamento, la tesi sostenuta col presente ricorso sulla nullità della relativa assegnazione, così come non può essere di ostacolo alla retribuibilità della prestazione la particolare qualità del lavoro prestato di fatto (vedi Cass. 19 aprile 2007, n. 9328; Cass, sez. un., 11 dicembre 2007, n. 25837; Cass. 3 febbraio 2009, n. 4367; 11 giugno 2009, n. 13597).
Quanto alle doglianze inerenti l’asserito errore di valutazione del materiale istruttorio si osserva che le stesse sono infondate per la ragione che tali censure si basano, per un verso, sulla non condivisibile interpretazione della norma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 in virtù di quanto finora chiarito, mentre per altro canto celano, in realtà, un inammissibile tentativo di rivisitazione del merito adeguatamente vagliato in punto di fatto dalla Corte territoriale con motivazione immune da vizi di tipo logico-giuridico, che sfugge, in quanto tale, ai presenti rilievi di legittimità.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3000,00 per compensi professionali e di Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
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