Corte di Cassazione sentenza, sezione penale, n. 51897 depositata il 6 dicembre 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – INSTALLAZIONE ED IL MONITORAGGIO – CONTROLLO DEI LAVORATORI – DIREZIONE TERRITORIALE DEL LAVORO
RITENUTO IN FATTO
1. B.M. ha proposto appello convertito in ricorso per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale il tribunale di Ferrara l’aveva condannata alla pena, condizionalmente sospesa, di Euro 400,00 di ammenda per il reato previsto dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4, comma 2, e art. 38, in relazione al D.Lgs. 20 giugno 2003, n. 196, artt. 114 e 171, perchè, nella qualità di legale rappresentante della società omonima ditta B.M. con sede in (OMISSIS) e unità produttiva di distribuzione carburante in Ferrara alla via (OMISSIS), consentiva, tollerava e, comunque, non impediva che venissero installate n. 6 telecamere collocate nel piazzale nelle vicinanze delle pompe di erogazione del carburante; le stesse erano collegate ad un monitor sistemato nel vano adibito ad ufficio e questo permetteva il controllo della lavoratrice assunta in qualità di addetta alle pompe, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali e in mancanza di provvedimento della direzione territoriale del lavoro. In (OMISSIS).
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza la ricorrente solleva, tramite il difensore, quattro motivi di gravame, qui enunciati ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale sul rilievo che dall’istruttoria dibattimentale era emerso che l’impianto era stato installato nel 2009, allorchè titolare dell’impianto stesso era il fratello dell’imputata, B.G., con la conseguenza che, per tale ragione, il tribunale avrebbe dovuto assolvere l’imputata in quanto estranea alla condotta contestata, trattandosi di reato istantaneo la cui consumazione matura nel momento della installazione dell’impianto, in assenza delle prescritte modalità, sicchè gli eventuali effetti della condotta, che si possono protrarre nel tempo, troverebbero tutela in norme diverse, anche di carattere penale, ma non in quella oggetto di contestazione, che attiene alla mera condotta di installazione dell’impianto.
2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta il vizio di motivazione sul rilievo che l’impianto di distribuzione carburante veniva gestito dal marito dell’imputata, C.S., il quale si era assunto in dibattimento la responsabilità di tutte le scelte ed iniziative relative alla gestione dello stesso, con la conseguenza che, anche sotto tale profilo, la mera carica formale dalla ricorrente ricoperta avrebbe dovuto esonerarla dalla responsabilità in ordine al rimprovero che le era stato mosso.
2.3. Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 131 bis c.p., ricorrendo tutte le condizioni per l’applicazione nel caso di specie della causa di non punibilità, posto che le modalità della condotta e l’evidente esiguità del danno avevano evidenziato la natura meramente formale della violazione; dal punto di vista soggettivo poi imputata è stata ritenuta responsabile in relazione alla sua posizione di titolare dell’impianto, che tuttavia veniva gestito dal marito. La stessa risulta incensurata e non annovera altre condotte che possono essere di ostacolo al riconoscimento della causa di non punibilità che si invoca.
2.4. Con il quarto motivo la ricorrente si duole della mancata concessione delle attenuanti generiche in relazione al trattamento sanzionatorio, sul rilievo che la particolare inoffensività della condotta tenuta dall’imputata, nella pressochè estraneità ai fatti, così come “confessato” dal marito, consentivano di valutare le invocate attenuanti al fine di meglio adeguarne la sanzione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Il primo motivo è privo di fondamento.
2.1. Nella sua formulazione originaria la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4, comma 1, stabiliva che era “vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” e poneva pertanto un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei prestatori di lavoro.
Al secondo comma, inoltre, disponeva che “gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti” e, quindi, il divieto (di cui al primo comma) cessava qualora esigenze organizzative e produttive ovvero della sicurezza del lavoro avessero richiesto l’installazione degli impianti di controllo e il datore di lavoro avesse osservato la procedura ivi tassativamente prevista.
La violazione del precetto era inizialmente sanzionata dall’art. 38, comma 1, dello Statuto dei lavoratori ma il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 179, comma 2, dispose la soppressione, nel suddetto art. 38, comma 1, del riferimento all’art. 4 (“nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 38, comma 1, sono soppresse le parole: 4 e 8”).
Nondimeno, lo stesso D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 114, comma 1, precisò che rimaneva “fermo quanto disposto dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4”, e l’art. 171, comma 1, precisò che “la violazione delle disposizioni di cui all’art. 113, comma 1, e art. 114 è punita con le sanzioni di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 38”.
A questo proposito, la giurisprudenza di legittimità aveva chiarito che, anche a seguito dell’abrogazione espressa della L. 20 maggio 1970, n. 300, artt. 4 e 38,costituisce reato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, in quanto sussiste continuità normativa tra l’abrogata fattispecie e quella attualmente prevista dall’art. 171, in relazione al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 114, (Sez. 3, n. 40199 del 24/09/2009, Masotti, Rv. 244902).
Queste erano dunque le disposizioni che ratione temporis regolavano la materia.
2.2. Il D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, art. 23, attuativo di una delle deleghe contenute nel c.d. Jobs Act e recante “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della L. 10 dicembre 2014, n. 183” ha modificato la L. n. 300 del 1970, art. 4, rimodulando la fattispecie che prevede il divieto dei controlli a distanza, nella consapevolezza di dover tener conto, nell’attuale contesto produttivo, oltre degli impianti audiovisivi, anche degli altri strumenti “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” e di quelli “utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”, stabilendo che “1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo gli impianti e gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. 2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. 3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2, sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196”.
Al comma 2, infine, l’art. 23, ha novellato l’art. 171, comma 1, precisando che “la violazione delle disposizioni di cui all’art. 113, e all’art. 4, commi 1 e 2, L. 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 38”.
2.3. La modifica dell’art. 4, dello Statuto dei lavoratori fonda su una presa d’atto del legislatore in base alla quale le nuove tecnologie, soprattutto telematiche, hanno superato la dicotomia, contenuta nell’art. 4 Stat. lav., tra strumento deputato al controllo del lavoratore (art. 4, ex comma 1) e strumento di lavoro (ex comma 2 dell’art. 4) perchè taluni strumenti telematici, sconosciuti quando fu varato lo Statuto del lavoratori, costituiscono nell’attuale sistema di organizzazione del lavoro “normali” strumenti per rendere la prestazione lavorativa, pur realizzando nello stesso tempo un controllo continuo e capillare sull’attività del lavoratore. Recentemente la Corte Europea dei diritti dell’uomo (con sentenza n. 61496/08 del 12 gennaio 2016 Barbulescu c/Romania) ha affermato che non viola l’art. 8 CEDU e la direttiva 95/46/CE sulla tutela della privacy il datore di lavoro che effettua un monitoraggio delle mail e degli altri mezzi di comunicazione aziendali, utilizzati dai lavoratori, al fine di garantire il giusto funzionamento della società e di controllare che i dipendenti, durante l’orario di lavoro, svolgano la loro attività lavorativa.
Tuttavia resta fermo il principio, da tempo affermato dalla giurisprudenza di legittimità e non smentito dalla novella ex L. n. 151 del 2015, che ha mantenuto integra la disciplina sanzionatoria, secondo il quale l’art. 4 Stat. Lav., la cui violazione è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 38, stessa legge, fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore, tanto sul presupposto espressamente precisato nella “Relazione ministeriale” – che la vigilanza sul lavoro, ancorchè necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione “umana”, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro (Cass. Sez. L, n. 15892 del 17/07/2007 in motivazione).
Ne consegue che, con la rimodulazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, è solo apparentemente venuto meno il divieto esplicito di controlli a distanza, nel senso che il superamento del divieto generale di detto controllo non può essere predicato sulla base della mancanza, nel nuovo art. 4, di una indicazione espressa (com’era nel previgente art. 4, comma 1) di un divieto generale di controllo a distanza sull’attività del lavoratore, avendo la nuova formulazione solamente adeguato l’impianto normativo alle sopravvenute innovazioni tecnologiche e, quindi, mantenuto fermo il divieto di controllare la sola prestazione lavorativa dei dipendenti, posto che l’uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo può essere giustificato “esclusivamente” a determinati fini, che sono numerus clausus, (cioè per esigenze organizzative e produttive; per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale) e alle condizioni normativamente indicate, sicchè residua un regime protezionistico diretto a salvaguardare la dignità e la riservatezza dei lavoratori, la cui tutela rimane primaria nell’assetto ordinamentale e costituzionale, seppur bilanciabile sotto il profilo degli interessi giuridicamente rilevanti con le esigenze produttive ed organizzative o della sicurezza sul lavoro.
Da ciò deriva che sussiste continuità di tipo d’illecito tra la previgente formulazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, e la rimodulazione del precetto intervenuta a seguito del D.Lgs. n. 151 del 2015, nel senso che costituisce reato l’uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, avendo la normativa sopravvenuta mantenuto integra la disciplina sanzionatoria per la quale la violazione dell’art. 4 Stat. Lav. è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 38 della stessa legge.
2.4. Ciò precisato, erroneamente la ricorrente costruisce la fattispecie L. n. 300 del 1970, ex art. 4, come reato necessariamente a consumazione istantanea, ravvisando peraltro la condotta vietata nell’installazione degli impianti di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, laddove l’installazione dell’impianto o la sua collocazione nel luogo di lavoro costituisce uno tra i molteplici presupposti della condotta antigiuridica.
In realtà, la legge penale puniva e punisce l’uso, ossia l’impiego, illecito di impianti o strumenti di controllo perchè installati dal datore di lavoro o utilizzati dal datore di lavoro fuori dal perimetro normativo disegnato dalla fattispecie incriminatrice ed in ciò consiste la condotta punibile.
Il fatto tipico rientra, allora, nel paradigma del reato eventualmente abituale, potendo la fattispecie atteggiarsi tanto come reato istantaneo, quanto come reato di durata, attribuendosi, in quest’ultimo caso, rilevanza, allo stesso titolo, sia al fatto singolo che alla ripetizione di più fatti omogenei: senza che questo comporti nè concorso di reati, nè continuazione ma diversa estrinsecazione di modalità della condotta, ovviamente valutabile ai fini della commisurazione della pena, come un tutti i casi, comuni tanto al reato permanente quanto a quello abituale, in cui la perfezione non coincide con la consumazione, perchè il reato, dopo essersi perfezionato, può perdurare ossia durare ancora nel tempo.
Ne consegue che, in siffatti casi, la rilevanza penale del fatto è data sia dalla commissione del singolo episodio e sia dalla reiterazione della condotta, sicchè non si può dubitare della sussistenza della responsabilità individuale o, se del caso, di quella concorsuale, quale che sia la forma della partecipazione.
Perciò, non rileva che la ricorrente non abbia installato gli strumenti di controllo a distanza dell’attività lavorativa ma rileva che li abbia utilizzati o tollerato la loro utilizzazione, come è stato contestato e ritenuto in sentenza, fuori dai casi in cui, osservando la prescritta procedura, tali strumenti potevano essere consentiti.
Il motivo è pertanto infondato.
3. Il secondo motivo è inammissibile perchè non consentito.
Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, il tribunale ha affermato come dall’istruttoria svolta sia emerso che la ricorrente era dal 2011 titolare di una stazione di rifornimento di carburante presso la quale era addetta una lavoratrice (assunta nel settembre del 2011) e che presso detta stazione era stata notata la presenza di un impianto di videosorveglianza non oggetto di accordi con le rappresentanze sindacali aziendali, nè di autorizzazioni da parte dell’ispettorato del lavoro.
La ricorrente rivestiva pertanto la qualifica giuridica soggettiva di datore di lavoro e, anche in considerazione della natura colposa della contravvenzione, era tenuta a non utilizzare l’impianto, a rimuoverlo o a regolarizzarlo, prescrizioni peraltro ingiunte dai funzionari ispettivi ed alla quali non fu data ottemperanza.
4. Il terzo motivo è, da un lato, non consentito e, dall’altro, manifestamente infondato.
Va considerato, in primo luogo, che, in tema di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la questione dell’applicabilità dell’art. 131 bis c.p., non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto di cui all’art. 609 c.p.p., comma 3, se il predetto articolo era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata (Sez. 6, n. 20270 del 27/04/2016, Gravina, Rv. 266678).
Dalle conclusioni riportate nell’epigrafe della sentenza impugnata (7 aprile 2015) non risulta che la ricorrente avesse chiesto, pur essendo entrata in vigore la norma invocata (in data 2 aprile 2015 è infatti entrato in vigore il D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28), l’esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto.
In ogni caso, la natura abituale della condotta tenuta, per come n precedenza evidenziato, esclude che la causa di non punibilità possa essere riconosciuta, avendo la giurisprudenza di legittimità chiarito che il comportamento abituale è ostativo al riconoscimento del beneficio (Sez. 3, Sentenza n. 43816 del 01/07/2015, Amodeo, Rv. 265084).
5. Inammissibile è anche la doglianza circa il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
La censura, oltre a non essere consentita perchè fondata sugli stessi aspetti di merito e fattuali sollevati con il secondo motivo di ricorso ed in precedenza scrutinati, è manifestamente infondata, posto che la concessione delle attenuanti generiche deve essere fondata sull’accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell’imputato; ne consegue che, quando la relativa richiesta non specifica gli elementi e le circostanze che, sottoposte alla valutazione del giudice, possano convincerlo della fondatezza e legittimità dell’istanza, l’onere di motivazione del diniego dell’attenuante è soddisfatto con il solo richiamo alla ritenuta assenza dagli atti di elementi positivi su cui fondare il riconoscimento del beneficio (Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, dep. 2016, Pillero, Rv. 266460).
Nel caso di specie, il Tribunale, oltre a non aver rilevato alcun elemento idoneo a fondare il riconoscimento dell’attenuante, ha correttamente ricordato che, per espressa previsione di legge, la sola incensuratezza non consente la concessione delle attenuanti generiche.
Consegue il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento della spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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