Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 1472 depositata il 15 gennaio 2024

licenziamento per attività extralavorativa espletata durante la malattia – anomalia motivazionale

1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, ha respinto il reclamo, svolto nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, proposto da XXXX nei confronti della YYYY Spa avverso la pronuncia di primo grado che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato il 23 marzo 2016;

2. la Corte, in sintesi, ha ritenuto che la condotta tenuta dalla lavoratrice, allorquando, in ore serali, era stata vista in un locale pizzeria mentre era impegnata a prendere le ordinazioni ai tavoli e al bar e ad accogliere e servire i clienti, in giornate in cui era assente dal lavoro perché affetta da “lombalgia acuta”, “alla luce delle corrette considerazioni medico legali, lede in modo grave il vincolo fiduciario con il proprio datore di lavoro, essendo dimostrativa di scarse correttezza e buona fede nella esecuzione del rapporto di lavoro poiché l’attività espletata violava i suoi doveri di cura e di sollecita guarigione. Da valorizzare – secondo la Corte – anche il profilo della intensità dell’elemento soggettivo, nel senso che la XXXX si è dimostrata gravemente negligente nella scelta di non optare per il riposo, pur nella consapevolezza della propria storia di lombalgia cronica con episodi di riacutizzazione”;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la XXX con due motivi; ha resistito con controricorso la società intimata;

all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;

 

 

1. il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., sia per violazione dell’art. 196 c.p.c. che dell’art. 112 c.p.c.;

per il primo aspetto si lamenta che la Corte territoriale avrebbe fondato la decisione sulla scorta di una seconda CTU, dopo avere provveduto alla sostituzione del primo consulente, senza che i “gravi motivi” previsti dalla disposizione richiamata fossero stati rappresentati o fossero ravvisabili aliunde; si eccepisce anche che la Corte di Appello non si sarebbe fatta carico “di prendere in considerazione, né di confutare, l’eccezione di nullità” tempestivamente sollevata in proposito;

per il secondo aspetto si invoca la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, lamentando che né la relazione peritale né la sentenza impugnata avevano confutato “l’eccezione secondo la quale la ripresa del lavoro in data 7 marzo, nonostante la reiterazione nelle date del 4 e del 5 marzo delle condotte adottate il giorno 3 marzo, deponesse per il carattere irrilevante dell’attività compiuta, sulla base dell’osservazione secondo la quale essa, pur essendosi ripetuta nei giorni 4 e 5 marzo, aveva comunque consentito il riacquisto della capacità lavorativa alla specifica mansione (anziché provocare la richiesta di un ulteriore prolungamento della malattia)”;

2. il motivo non può trovare accoglimento;

circa la pretesa violazione dell’art. 196 c.p.c. è appena il caso di rilevare che laddove il giudice, se lo ritenga, si avvalga dei poteri che gli conferisce detta disposizione, la valutazione operata al riguardo è insindacabile in sede di legittimità se la motivazione è immune da vizi logici (cfr. Cass. n. 7280 del 2023; Cass. n. 9231 del 2001; Cass. n. 3657 del 1998), vizi nella specie non ravvisabili in quanto nella sentenza impugnata la Corte di Appello spiega le ragioni per cui ha ritenuto di avvalersi dell’opera di un nuovo consulente, con apprezzamenti di merito chiaramente non sindacabili in sede di legittimità;

in ordine, poi, alla dedotta violazione dell’art. 112 c.c., è noto che l’omissione di pronuncia può configurarsi nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito (per tutte v. Cass. n. 22592 del 2015 con la giurisprudenza ivi richiamata; v. poi Cass. n. 321 del 2016; Cass. n. 25154 del 2018), mentre il mancato esame, da parte del giudice di merito, di una questione puramente processuale ovvero di una eccezione – come nella specie – che prospetta una argomentazione difensiva non può determinare la nullità della sentenza; peraltro, in ogni caso non è configurabile il vizio di omesso esame di una questione o di un’eccezione di nullità (ritualmente sollevata o sollevabile d’ufficio), quando debba ritenersi che tali questioni od eccezioni siano state esaminate e decise implicitamente (ex plurimis, Cass. n. 7404 del 2014), come nella specie, laddove la Corte territoriale ha ritenuto di fondare il proprio convincimento sulla consulenza tecnica d’ufficio censurata, esprimendo, evidentemente, un avviso nel merito diverso da quello prospettato dalla difesa della XXXX

3. col secondo motivo, in via subordinata, si denuncia: “nullità della sentenza per motivazione affetta da manifesta e irriducibile contraddittorietà – art. 111 Cost., comma 6, art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. (ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.)”; si deduce che “la Corte territoriale, pur ritenendo provato che l’attività compiuta dalla ricorrente fosse compatibile con la malattia e che la ripresa dal lavoro fosse avvenuta il giorno 7 marzo, nonostante l’attività nella pizzeria fosse proseguita nelle sere dei giorni 4 e 5 marzo, ha giudicato legittimo il licenziamento, argomentando in ordine alla efficacia causale dell’attività svolta la sera del 3 marzo sul prolungamento per i giorni 4, 5 e 6 marzo. Efficacia causale che, nel contesto della motivazione della stessa sentenza, risulta contraddetta dalla ripresa dal lavoro – con le mansioni di cassiera (attività che invece la sentenza ha accertato essere incompatibile con la malattia accusata) – avvenuta in data 7 marzo 2016 a dispetto della reiterazione dell’attività in pizzeria nelle sere del 4 e del 5 marzo (che, secondo il modo di argomentare della Corte, avrebbe dovuto causare un ulteriore prolungamento della malattia) che ne smentisce la portata logica, integrando un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”;

4. la censura non può essere condivisa;

4.1. le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno sancito che l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; si è ulteriormente precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass. SS.UU. n. 22232 del 2016; v. pure Cass. SS.UU. n. 16599 del 2016);

il che – ad avviso del Collegio – non ricorre nella specie in quanto è certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale che, dopo aver sottolineato “l’obbligo contrattuale (ndr. della lavoratrice in malattia) di mettere in atto ogni comportamento utile affinché si realizzi nel pi๠breve tempo possibile la guarigione”, ha espresso il convincimento, sulla scorta di risultanze peritali, che “l’attività espletata violava i suoi doveri di cura e di sollecita guarigione” e che “la De.Si. si è dimostrata gravemente negligente nella scelta di non optare per il riposo, pur nella consapevolezza della propria storia di lombalgia cronica con episodi di riacutizzazione”;

4.2. l’assunto è conforme a consolidata giurisprudenza di questa Corte (per tutte v. Cass. n. 13063 del 2022);

si è affermato che il lavoratore deve in ogni caso astenersi da comportamenti che possano ledere l’interesse del datore di lavoro alla corretta esecuzione dell’obbligazione principale dedotta in contratto, argomentando che la mancata prestazione lavorativa in conseguenza dello stato di malattia del dipendente in tanto trova tutela nelle disposizioni contrattuali e codicistiche in quanto non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore medesimo che operi scelte idonee a pregiudicare l’interesse datoriale a ricevere regolarmente detta prestazione (cfr. Cass. n. 1699 del 2011);

in tale prospettiva assume peculiare rilievo l’eventuale violazione del dovere di osservare tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall’infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si è obbligati, sia che si intenda tale dovere quale riflesso preparatorio e strumentale dello specifico obbligo di diligenza, sia che lo si collochi nell’ambito dei pi๠generali doveri di protezione scaturenti dalle clausole di correttezza e buona fede in executivis, evitando comportamenti che mettano in pericolo l’adempimento dell’obbligazione principale del lavoratore per la possibile o probabile protrazione dello stato di malattia;

inoltre va condiviso l’assunto per il quale la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza sulla guarigione dell’altra attività accertata, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge un’altra attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in questo modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, riferito al momento in cui il comportamento contestato si è tenuto ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio, con la conseguenza che, ai fini di questa potenzialità , la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante (per tutte, v. Cass. n. 14046 del 2005; conf., Cass. n. 24812 del 2016; Cass., n. 21667 del 2017; Cass. n. 3655 del 2019; Cass. n. 9647 del 2021; secondo Cass. n. 16465 del 2015 lo svolgimento di attività in periodo di assenza dal lavoro per malattia, costituisce illecito di pericolo e non di danno, il quale sussiste non soltanto se quell’attività abbia effettivamente provocato un’impossibilità temporanea di ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia stata posta in pericolo, ossia quando il lavoratore si sia comportato in modo imprudente; in proposito v. pure Cass. n. 27104 del 2006); ovviamente la valutazione di tipo prognostico circa l’idoneità della condotta contestata, indice di scarsa attenzione del lavoratore per la propria salute e per i relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, a pregiudicare, anche solo potenzialmente, il rientro in servizio non potrà che essere effettuata ex post in giudizio, eventualmente con l’ausilio di una consulenza di tipo medicolegale (cfr. Cass. n. 4237 del 2015);

infine, è incontrastata da lungo tempo la constatazione che l’accertamento in ordine alla sussistenza o meno dell’inadempienza idonea a legittimare il licenziamento, sia essa la fraudolenta simulazione della malattia ovvero l’idoneità della diversa attività contestata a pregiudicare il recupero delle normali energie psico fisiche, si risolve in un giudizio di fatto, che dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, come tale riservato al giudice del merito, con i consueti limiti di sindacato in sede di legittimità (ad ex., Cass. n. 3142 del 1983; Cass. n. 2585 del 1987; pi๠di recente, ex multis, Cass. n. 17625 del 2014; Cass. n. 21667 del 2017);

4.3. ciò posto, non è sufficiente a determinare il vizio radicale della nullità della sentenza conforme agli orientamenti citati né una eventuale insufficienza della motivazione su aspetti che involgono apprezzamenti di merito, né, tanto meno, la circostanza che la medesima motivazione non soddisfi le aspettative di chi è rimasto soccombente;

5. pertanto, il ricorso deve essere respinto, con le spese regolate secondo soccombenza come da dispositivo;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.