CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 4640 depositata il 21 febbraio 2024

Tributi – Restituzione importi indebitamente percepiti – Stipendio – Retribuzione malattia – Recupero dipendente al servizio attivo – Accoglimento parziale

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Lecce ha rigettato l’appello proposto da E. avverso la sentenza del Tribunale di Lecce del 4 maggio 2018 che rigettava l’oppostone all’ingiunzione prot. n. 22708 del 10 giugno 2003, con la quale la Direzione provinciale di Lecce del Ministero dell’economia delle finanze, chiedeva la restituzione degli importi indebitamente percepiti sulla partita di stipendio (…), per il periodo 19 novembre 1999 e 30 settembre 2000, atteso che le era stata corrisposta l’intera retribuzione in periodi di malattia.

2. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando due motivi di ricorso.

3. L’Amministrazione è rimasta intimata.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. motivazione apparente e/o perplessa e obiettivamente incomprensibile.

È contestata la statuizione che ha escluso la buona fede di essa ricorrente al momento della percezione dello stipendio, atteso che il giudice di appello aveva fatto riferimento alla conoscenza delle decurtazioni in ragione delle comunicazioni inviate dalla Amministrazione e non allo stato psicologico dell’accipiens al momento stesso della percezione delle somme.

Richiama altra vicenda relativa a licenziamento per superamento del periodo di comporto, e la mancanza di prova da parte dell’Amministrazione che la lavoratrice avesse piena consapevolezza della spettanza delle retribuzioni in misura inferiore.

2. Il motivo è inammissibile.

È applicabile alla fattispecie l’art. 360 n. 5, cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge.

Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.

Va anche rilevato che l'”omesso esame” va riferito ad “un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (si v., ex multis, Cass., n. 2268 del 2022).

Rimangono, pertanto, estranee al vizio previsto dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., le censure, che come quelle articolate dalla ricorrente, che nella sostanza sono volte a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116, commi 1 e 2°, cod. proc. civ., in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova.

La deduzione del vizio di cui all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., non consente, quindi, di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito.

La censura della ricorrente, peraltro contrappone la propria valutazione delle risultanze istruttorie a quella della Corte d’Appello e non indica circostanze che sarebbero state prospettate e disattese a sostegno della buona fede nel corso del giudizio di merito.

Peraltro, si può ricordare che la Corte costituzionale con la sentenza n. 8 del 2023, anche in relazione all’indebito retributivo, ha affermato che: “La consonanza fra gli elementi evidenziati dalla giurisprudenza della Corte EDU e la tipologia di criteri cui può dare rilevanza la buona fede oggettiva a fondamento di un affidamento legittimo, ove riferito al contesto della spettanza di una prestazione indebita, conferm(a) che l’interesse protetto dalla CEDU, come ricostruito dalla Corte EDU, può trovare riconoscimento, nel nostro ordinamento, dentro la cornice generale della buona fede oggettiva“.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 23 CCNL di categoria, art. 360, n. 3, cod. proc. civ.

Omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.

Violazione di legge per erronea applicazione delle norme in materia di distribuzione dell’onere della prova, art. 2697, e ssg., cod. civ.

3.1. Assume la ricorrente che, se anche risultava vera la circostanza che essa lavoratrice, per essere adibita a mansioni diverse rispetto alla qualifica rivestita, ex art. 23, comma 5, del CCNL di categoria, avrebbe dovuto presentare formale istanza, ciò non era stato possibile perché non aveva avuto conoscenza del fatto di essere stata ritenuta – in sede di visita collegiale – idonea allo svolgimento di mansioni diverse da quelle dell’insegnamento.

Tale circostanza non era stata considerata dalla Corte territoriale.

La Corte d’appello ha affermato che la ricorrente non avrebbe provato, né in primo né in secondo grado, di aver presentato l’istanza ad essere adibita ad altre mansioni previste dalla normativa contrattuale.

Affinché potesse configurarsi tale onere, tuttavia, avrebbe dovuto essere dimostrato che la ricorrente era stata edotta circa gli esiti della visita medica collegiale presso la Asl di Lecce, ma tale circostanza non era emersa nel corso del giudizio di merito.

Con nota del 5 gennaio 2000 il Provveditore, dopo aver comunicato al dirigente gli esiti della visita medica collegiale ASL Lecce 1, da cui era emersa l’inidoneità temporanea della signora E. a svolgere le mansioni proprie della qualifica rivestita in contesti conflittuali e che comportavano l’esposizione a stimoli stressanti, e la possibilità per la stessa ad essere adibita ad altre mansioni, aveva fatto presente allo stesso che avrebbe dovuto notificare all’odierna ricorrente le risultanze di tale visita, invitandola al contempo a produrre istanza negativa o positiva di utilizzazione in altri compiti.

Agli atti del giudizio non risultava prodotta alcuna nota che desse conto del fatto che il dirigente aveva provveduto a rappresentare alla ricorrente la circostanza che essa fosse stata ritenuta idonea allo svolgimento di mansioni diverse da quelle dell’insegnamento.

Tale circostanza non era stata presa in considerazione dalla Corte d’Appello, che si era soffermata esclusivamente sulla previsione dell’articolo 23, comma quinto, del CCNL.

4. Il motivo è fondato e va accolto.

L’art. 23, comma 5, del CCNL Comparto Scuola 1995 prevede che: “Il personale dichiarato inidoneo alla sua funzione per motivi di salute può a domanda essere collocato fuori ruolo e/o utilizzato in altri compiti tenuto conto della sua preparazione culturale e professionale”. La ricorrente si duole che l’Amministrazione non l’abbia invitata ad effettuare l’opzione.

Trovano applicazione i principi già enunciati da questa Corte in relazione ad analoga norma contrattuale, l’art. 22-ter del CCNL Ministeri 1995 secondo cui: “l’Amministrazione non potrà procedere alla dispensa dal servizio per inidoneità fisica o psichica prima di aver esperito ogni utile tentativo, compatibilmente con le strutture organizzative dei vari settori e con le disponibilità organiche dell’Amministrazione, per recuperarlo al servizio attivo, in mansioni diverse, purché compatibili con le attitudini personali ed i titoli posseduti, appartenenti alla stessa qualifica o, in caso di mancanza di posti, previa consenso dell’interessato, alla qualifica inferiore”.

Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 14113 del 2016) in tema di esonero dal servizio, per inidoneità fisica o psichica, del pubblico impiegato, l’art. 22-ter del CCNL del 16 maggio 1995, Comparto Ministeri, come integrato dall’art. 4 del CCNL del 22 ottobre 1997, si esprime in termini di assoluta doverosità riguardo ai comportamenti richiesti alla P.A., che deve esperire ogni utile tentativo per il recupero del dipendente al servizio attivo, se del caso con mansioni diverse e, in carenza di posti e previo consenso dell’interessato, anche inferiori, nonché in termini di mera possibilità in ordine alla provenienza della richiesta, di reinquadramento, dal dipendente, sicché, anche in assenza dell’iniziativa del lavoratore, non più idoneo alla mansione, il datore di lavoro pubblico non è esonerato dal percorrere tutte le strade alternative, previste nello stesso CCNL, prima di adottare il provvedimento di dispensa.

Ne consegue che la Corte d’Appello doveva accertare che la Pubblica Amministrazione si fosse adeguata alla normativa contrattuale richiamata dalla ricorrente: comunicando la nota ed attivandosi per collocare a domanda la ricorrente in una posizione lavorativa diversa dall’insegnamento.

Pertanto, il secondo motivo di ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata in relazione al suddetto motivo con rinvio alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso. Accoglie il secondo motivo di ricorso. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione.