CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, Sentenza n. 21704 depositata il 22 maggio 2023

Illecito amministrativo – Tutela della sicurezza e della salute sul lavoro – Reato art. 589, c. 2, c.p. – Decesso del lavoratore – Responsabilità amministrativa dell’ente – D.Lgs. 81/2008, art. 18, c. 1, lett. h) – Violazione dell’art. 521 c.p.p. non sussistente – Mancata lesione diritto di difesa – Inidoneità del DVR – Insufficienza delle procedure adottate – Riduzione sanzione – Rigetto

Fatto

1. La Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Biella, con la quale […] s.r.l. era stata condannata per l’illecito amministrativo dipendente dal reato di cui all’art. 589, c. 2, c.p., contestato a R.L., B.E. e C.A., nelle rispettive qualità di datore di lavoro, di soggetto delegato alla tutela della sicurezza e della salute sul lavoro e di medico competente per […] s.r.l., ha ridotto la sanzione pecuniaria a Euro 100.000,00, eliminando le statuizioni civili e ha confermato nel resto.

2. I fatti per cui è processo riguardano il decesso del lavoratore R.F., dipendente […] s.r.l. (società che si occupa di riciclo del vetro, ridotto in materia prima per nuovi utilizzi), con mansioni di assistente allo stabilimento durante il turno di notte, comprensive del monitoraggio del corretto funzionamento degli impianti. Nell’occorso, il R., recatosi da solo di notte nel locale pompe del decantatore (macchinario che serviva a decantare, per l’appunto, le acque reflue utilizzate nel lavaggio del vetro), al fine di sbloccare il meccanismo di pompaggio dei fanghi, aveva aperto la valvola di tenuta del fango e, durante le operazioni, era stato investito da una sostanza venefica (con molta probabilità acido solfidrico) che ne aveva causato la rapida perdita di coscienza e caduta a terra, ove l’uomo veniva raggiunto dal fango che ne intercettava le vie respiratorie soffocandolo (in (…) ).

Secondo l’editto accusatorio, agli imputati erano state addebitate, a titolo di colpa specifica, diverse violazioni (omessa adozione di misure atte a controllare il rischio in caso di emergenza; mancata informazione delle procedure da attivare in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile; omesso allestimento di un impianto di decantazione conforme ai requisiti di sicurezza essenziali, in attuazione della “Direttiva macchine” del 2004; altre violazioni contestate anche al medico della società, con specifico riferimento al settore della depurazione dei reflui e dei rischi derivanti dalla presenza, nel ciclo di lavoro, di sostanze organiche, avendo parte datoriale consentito al lavoratore di accedere in un ambiente ove era possibile il rilascio di gas deleteri, senza previo accertamento dell’assenza di pericolo o risanamento dell’atmosfera mediante ventilazione o altri mezzi idonei). Nell’occorso, il R. era stato impiegato in un intervento manutentivo (ripristino del flusso dei fanghi in uscita dal decantatore), a causa di un intasamento dovuto alla presenza nelle tubazioni di materiale estraneo e di fanghi solidificati, in un locale confinato e privo di adeguato ricambio di aria, secondo una procedura non formalizzata, ma invalsa nella prassi aziendale, in difetto di indicazioni relative a specifiche sequenze operative per la manutenzione dell’impianto stesso.

3. La difesa dell’ente ha proposto ricorso, formulando quattro motivi.

Con il primo, ha dedotto violazione di legge, con riferimento al principio di correlazione tra accusa sentenza e vizio della motivazione quanto alla ritenuta sussistenza di un interesse o vantaggio dell’ente.

Quanto al primo profilo, il deducente rileva che la Corte d’appello avrebbe ritenuto la responsabilità amministrativa dell’ente sulla scorta di una violazione non contestata agli imputati, vale a dire l’omessa formazione di una squadra di emergenza, neppure suffragata da elementi fattuali, non essendovi traccia di tale omissione, essendosi contestato al datore di lavoro di non aver previsto l’immediato abbandono del sito. Ne deriverebbe l’impossibilità di configurare una scelta produttiva atta a fronteggiare un pericolo sconosciuto.

Quanto al secondo profilo, la difesa rileva che non tutte le violazioni delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro sono riconducibili allo scopo di assicurare un vantaggio economico all’impresa, potendo un infortunio verificarsi anche per cause non direttamente riconducibili a una logica di abbattimento dei costi per la sicurezza. Nella specie, come evidenziato nell’appello, l’infortunio era conseguito a una sottovalutazione del rischio, dalla quale erano derivate le omissioni contestate (formazione del lavoratore e predisposizione di idonei presidi).

Con il secondo motivo, ha dedotto violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla ritenuta inidoneità del modello organizzativo adottato dall’ente. La Corte territoriale avrebbe confuso un elemento costitutivo dell’illecito amministrativo (vale a dire l’interesse o vantaggio di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, art. 5) con la valutazione del modello organizzativo di cui al successivo art. 6, sovrapponendo quest’ultimo al documento di valutazione dei rischi. La parte aveva già evidenziato nell’appello la circostanza che la società si era dotata di un modello organizzativo sin dal 2014 e che era stato costituito un organismo di vigilanza, ma la Corte d’appello nulla avrebbe argomentato sul punto, avallando la conclusione per la quale la dimostrazione della commissione del reato e dell’interesse o vantaggio equivarrebbe a dimostrare anche l’inidoneità del modello organizzativo, interpretazione che vanificherebbe, però, la portata dell’art. 6 che necessita, viceversa, di una valutazione in concreto.

Con il terzo motivo, ha dedotto vizio motivazionale con riferimento alla misura, inferiore a quella richiesta, della diminuzione della sanzione, per il riconoscimento della doppia attenuante di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, art. 12 c. 2, lett. b), ben potendo la riduzione essere applicata nella misura massima dei due terzi, come richiesto dal Procuratore generale.

Infine, con il quarto motivo, ha dedotto vizio di mancanza della motivazione con riferimento al la doglianza inerente alla dosimetria della sanzione, non avendola la Corte territoriale neppure richiamata nella premessa espositiva della sentenza impugnata.

4. Il Procuratore generale, in persona del sostituto K.T., ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto il rigetto.

Diritto

1. Il ricorso va rigettato.

2. Il giudice d’appello ha ritenuto sussistenti i presupposti per la dichiarazione di responsabilità amministrativa dell’ente, procedendo alla trattazione congiunta dei primi due motivi del gravame, inerenti rispettivamente alla sussistenza del criterio d’imputazione di cui al d.lgs. 231 del 2001, art. 5 e all’interpretazione del successivo art. 6, per ritenuta interconnessione logico-probatoria delle censure.

L’istruttoria aveva consentito di accertare che la società utilizzava nella produzione anche materiale vitreo proveniente dal ciclo della raccolta differenziata urbana, materiale cioè eterogeneo, le cui componenti tossiche non erano sempre conosciute e percepibili, tanto che nell’area di produzione era effettuata all’ingresso una cernita e un’analisi approfondita di tale materiale. Ciò avrebbe dovuto determinare un’implementazione delle procedure per minimizzare i rischi derivanti dall’impiego di materiale pericoloso. Nel ciclo produttivo, inoltre, si generava acido solfidrico e, infatti, a ridosso dell’infortunio, era intervenuta (…) a causa di lamentele dei cittadini che avevano accusato la propagazione di odori mefitici. Infine, il ciclo produttivo era continuo, ma per il turno notturno non era prevista una squadra di pronto intervento che, in caso di malfunzionamento delle pompe allocate negli ambienti confinati che si saturavano di acido solfidrico, potesse intervenire per risolvere i guasti. Nella specie, l’incombenza di risolvere quello occorso in occasione del mortale infortunio era spettata al capo squadra R. che aveva dovuto effettuare l’intervento da solo. A tale scelta aziendale la Corte d’appello ha ricollegato un risparmio di spesa che consente di fondare la responsabilità amministrativa dell’ente: la […] s.r.l. aveva deciso di non prevedere, tra le procedure gestionali richiamate nell’atto di impugnazione, l’approntamento di una squadra di operai, formata e attrezzata, in grado di intervenire in ambiente di lavoro con presenza di acido solfidrico e la scelta aveva generato la situazione di pericolo che aveva dato causa all’infortunio.

Quel giudice, invece, ha accolto il terzo motivo di gravame, formulato in via subordinata, riducendo la sanzione in ragione del successivo aggiornamento del modello organizzativo e delle relazioni dell’organismo di vigilanza per l’anno 2017.

3. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Punto cruciale dell’accertamento istruttorio è rappresentato dall’esistenza di una prassi, in difetto di una specifica procedura predisposta da parte datoriale, per la quale il turno di notte per la manutenzione del meccanismo di pompaggio per il deflusso del fango prodotto dalla lavorazione veniva affidato a un solo soggetto, nella piena consapevolezza della criticità del luogo di lavorazione, un ambiente confinato, cioè, al cui interno si sprigionava una sostanza venefica. Una delle violazioni contestate in imputazione riguarda proprio l’assolvimento dell’obbligo posto dal d.lgs. 81/2008, art. 18, c. 1, lett. h), a mente del quale il datore di lavoro deve “adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa”.

La difesa ha agitato la violazione del principio consacrato nell’art. 521, c.p.p., omettendo però di considerare che la procedura lavorativa descritta in sentenza (mancata previsione di una squadra di intervento in un luogo confinato nel quale vi era la presenza di sostanza venefica) era stata accertata in corso di istruttoria e valutata dal consulente tecnico del pubblico ministero, elementi tutti esaminati nel contraddittorio e rispetto ai quali l’ente aveva avuto la possibilità concreta ed effettiva di articolare le proprie difese.

Del resto, nella stessa imputazione si è contestato ai soggetti ritenuti gestori del relativo rischio di non aver adottato le misure necessarie a controllare la situazione della quale si discute, quella cioè direttamente riconducibile alle caratteristiche del locale nel quale doveva operarsi, alla presenza di sostanze venefiche e alle circostanze di tempo dell’intervento, in orario notturno, cioè, e senza prevedere la presenza di altri lavoratori.

La censura, peraltro, è stata solo genericamente introdotta, avendo omesso la parte di considerare che, ai fini della sussistenza della dedotta violazione, non è sufficiente qualsiasi modificazione dell’accusa originaria, ma è necessaria una modifica che pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. Ne consegue che la violazione dell’art. 521 c.p.p. non sussiste quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l’imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni (sez. 5 n. 7984 del 24/9/2012, dep. 2013, RV. 254648). Pertanto, tale violazione non è configurabile qualora la diversa qualificazione giuridica appaia – conformemente alla Cost., art. 111 e all’art. 6 CEDU, come interpretato dalla corte di Strasburgo – come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, in relazione al quale l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine al contenuto dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione (sez. 2 n. 46786 del 24/10/2014, Rv 261052; sez. 5 n. 1697 del 25/9/2013, dep. 2014, Rv. 258941) e allorché nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano rinvenibili gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, poiché l’immutazione si verifica solo nel caso in cui tra i due episodi ricorra un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza possibilità d’effettiva difesa (sez. 6 n. 17799 del 6/2/2014, Rv. 260156).

Trattasi di orientamento applicabile anche al caso specifico, oltre che del tutto conforme ai principi costituzionali racchiusi nella norma di cui al novellato art. 111 Costituzione e, per come sopra già precisato, anche nell’art. 6 della Convenzione E.D.U., siccome interpretato, in base alla sua competenza esclusiva, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a partire dalla nota pronuncia della Corte di Strasburgo, nel caso D. v. Italia (CEDU sez. 11 dicembre 2007; ma anche, più di recente, con la pronuncia del 22 febbraio 2018, D. v. Italia (n. 2), con la quale la Corte di Strasburgo ha escluso la violazione dell’art. 6 cit. nel caso in cui l’interessato abbia avuto una possibilità di preparare adeguatamente la propria difesa e di discutere in contraddittorio sull’accusa alla fine formulata nei suoi confronti.

Una corretta applicazione di tali principi rende del tutto evidente come, nel caso in esame, sia mancata una lesione del diritto di difesa, alla cui salvaguardia il principio di correlazione è direttamente funzionale, neppure apprezzandosi un rapporto di eterogeneità del fatto ritenuto rispetto a quello contestato (sez. 6, n. 10140 del 18/02/2015, B., Rv. 262802; sez. 4, n. 32899 del 8/1/2021, C., Rv. 28199709), l‘ente avendo avuto a disposizione tutti gli elementi per articolare la propria difesa, atteso che la specifica violazione era emersa dagli atti istruttori compiuti, esaminati nel pieno rispetto del contraddittorio sin dal primo grado di giudizio.

Quanto, poi, alla dedotta mancanza della prova dell’effettivo e apprezzabile vantaggio a favore dell’ente, la doglianza è rimasta affidata a meri enunciati, senza un’articolazione di critiche effettive al ragionamento svolto nelle sentenze di merito concludenti in maniera conforme: i giudici territoriali, infatti, hanno ricollegato il vantaggio dell’ente direttamente alla possibilità di impiegare un unico lavoratore per lo svolgimento in orario notturno di una lavorazione che una squadra di operai, debitamente formata e attrezzata, avrebbe potuto svolgere in sicurezza, intervenendo in un ambiente caratterizzato da presenza di acido solfidrico.

4. Il secondo motivo è infondato.

Sul punto, è necessaria una premessa.

La responsabilità da reato degli enti rappresenta un modello di responsabilità che, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, ha finito con il configurare un tertium genus, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza e i criteri d’imputazione oggettiva di essa (Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, E., Rv. 261112). Inoltre, il legislatore ha previsto specifici criteri di imputazione di tale responsabilità, l’interesse o il vantaggio di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5), che sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, il secondo ha connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dall’illecito (Sez. U, n. 38343/2014, cit., Rv. 261114).

Tuttavia, proprio nel caso di responsabilità degli enti ritenuta in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, il S.C. ha precisato che la “colpa di organizzazione” deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli (Sez. U, n. 38343/2014, cit., Rv. 261113). Per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell’ente anche i reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (d.lgs. n. 231 del 2001, art. 25septies), si è infatti peraltro chiarito, in via interpretativa, che i citati criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all’evento, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito, essendo possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente (in motivazione, Sez. U. n. 38343 del 2014, cit.).

Peraltro, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l’appunto, della “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato (sez. 4, n. 18413 del 15/2/2022, C.G.V., Rv. 283247). Nell’affermare tale principio, peraltro, si è spiegato in motivazione che la struttura dell’illecito addebitato all’ente è incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno funzione di rafforzare il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito a quest’ultimo un reato commesso sì da soggetto incardinato nell’organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa (richiamando sez. 4, n. 32899 del 8/1/2021, C., in motivazione).

Ciò consente di dire, dunque, che l’ente risponde per fatto proprio e che – per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva – deve essere verificata una “colpa di organizzazione” dell’ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato. È il riscontro di un tale deficit organizzativo a consentire l’imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo e spetta all’accusa, pertanto, dimostrare l’esistenza dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell’ente e l’avere essa agito nell’interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro (in motivazione, sez. 6, n. 27735 del 18/2/2010, S., Rv. 247666). Si tratta di un’interpretazione che, in sostanza, attribuisce al requisito della “colpa di organizzazione” dell’ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, di elemento costitutivo cioè del fatto tipico, integrato dalla violazione “colpevole” (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Essa va dimostrata dall’accusa e l’ente può dimostrarne l’assenza, gli elementi costitutivi dell’illecito essendo rappresentati dalla sopra descritta immedesimazione organica “rafforzata”, ma anche da tale colpa di organizzazione, oltre che dal reato presupposto e dal nesso causale tra i due (in motivazione, sez. 4 n. 18413/2022 cit.).

4.1. Tale premessa consente di affermare che, contrariamente a quanto asserito a difesa, le valutazioni dei giudici di merito non sono avvenute sulla scorta di meccanismi presuntivi, anche se qualche passaggio motivazionale potrebbe giustificare la conclusione di una sovrapposizione tra la violazione delle norme prevenzionali (inidoneità del DVR) e la insufficienza delle procedure adottate: l’equivoco, infatti, è sciolto dal complessivo ragionamento svolto, dal quale si ricava una valutazione di inidoneità del modello adottato. La difesa non ha superato tale valutazione, per esempio opponendo elementi in grado di dimostrare che lo specifico rischio era stato considerato nel modello organizzativo, a tal fine evidenziandosi che il gravame (II motivo) è sul punto silente, essendosi la difesa limitata a segnalare l’adozione del modello sin dal 2014, evidenziandone parti in cui non emerge la “presa in carico” del rischio specifico relativo a quella lavorazione, ma generiche indicazioni sulle dotazioni strumentali e l’aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza. Il che riscontra l’affermazione dei giudici territoriali per la quale la “linea politica” dell’ente non era stata orientata all’implementazione della sicurezza. Inoltre, nella specie, già il Tribunale aveva evidenziato che il reato era stato posto in essere da soggetti che rivestivano posizioni apicali nell’ente e valorizzato la tipologia di violazione contestata a tali figure, essendo emersa una vera e propria scorretta impostazione della attività produttiva che si era tradotta in un risparmio di costi nel settore specifico della sicurezza (procedure lavorative in luoghi ove esistevano conosciuti fattori di rischio; apposita formazione/informazione dei lavoratori, in relazione allo specifico rischio). A fronte di tale complessivo ragionamento, la difesa si è limitata a opporre l’esistenza del modello organizzativo e dell’organismo di vigilanza, elementi che, di per sé, sono stati poi valutati ai fini del d.lgs. n. 231 del 2001, art. 12, ma che da soli, nei termini prospettati, sono stati ritenuti inidonei a mandare assolto l’ente.

5. Il terzo e il quarto motivo sono manifestamente infondati.

La richiesta di attenuazione del trattamento sanzionatorio è stata recepita dai giudici d’appello che, infatti, hanno ridotto la sanzione applicata proprio in considerazione del comportamento successivo al reato (integrazione delle procedure sulla sicurezza e la salute atte a colmare le riscontate carenze, come dimostrato anche dalle relazioni dell’organismo di vigilanza a partire dal 2107) e dell’avvenuto risarcimento del danno, vale a dire, della ricorrenza di entrambe le previsioni di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, c. 2, facendo applicazione, dunque, dell’invocato disposto di cui al successivo comma 3 che prevede che, nel caso concorrano entrambe le condizioni di cui al comma 2, la riduzione si attesti tra la metà e i due terzi. I giudici territoriali hanno operato la diminuzione in misura quasi corrispondente al massimo (che avrebbe portato a una sanzione pari a Euro 120.000,00, prima della riduzione per il rito), ma la difesa non ha indicato in ricorso quali elementi di valutazione avrebbero imposto la massima riduzione, elementi che non possono certamente consistere nella descrizione delle stesse fattispecie di cui al comma 2 richiamato. Del resto, con il gravame (III motivo), era stata formulata, in via subordinata, una richiesta di riduzione della sanzione, con la indicazione degli elementi fondanti la stessa (valutati positivamente dalla Corte territoriale), laddove con il ricorso non sono stati evidenziati elementi pretermessi in tale giudizio o giustificativi di un diverso esercizio del potere discrezionale giudiziale nella individuazione della sanzione in concreto.

Quanto a quest’ultima, peraltro, la manifesta infondatezza del quarto motivo di ricorso deriva direttamente dalla considerazione che parte ricorrente con il gravame aveva sì articolto una specifica doglianza (IV motivo), con la quale aveva richiesto la riduzione della pena base, ma ciò aveva fatto solo in via di ulteriore subordine rispetto all’eventuale mancato accoglimento del III motivo, quello cioè inerente al riconoscimento della riduzione ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, c. 3, che la Corte d’appello ha, tuttavia, accolto, cosicché, del tutto correttamente, ha omesso di prendere in carico la richiesta subordinata al suo rigetto, da considerarsi come implicitamente assorbita dall’accoglimento dalla decisione.

6. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.