CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 30442 depositata il 2 ottobre 2020
Fallimento e procedure concorsuali – Bancarotta societaria, distrattiva e documentale – Omesso versamento tributi e contributi – Falsificazione scritture contabili – Pene accessorie – Determinazione
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano ha confermato la decisione del G.U.P. di quella stessa città che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva riconosciuto i fratelli G., A. e P.M. responsabili di più fatti di bancarotta societaria, distrattiva e documentale, commessi nella qualità di amministratore di fatto il primo e di diritto gli altri due, della società F.lli M. s.r.l., dichiarata fallita dal Tribunale di Milano il 31 gennaio 2013. Ai predetti è stato contestato di avere cagionato, nelle rispettive qualità, il fallimento della società per effetto di operazioni dolose, avendo omesso di versare, fin dalla costituzione della società, nel 2006, i contributi previdenziali e fiscali per un ammontare di 150.000 euro; ponendo in essere diversi atti distrattivi, consistiti nello storno di attività e sopravvenienze passive; falsificando le scritture contabili.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione tutti e tre gli imputati, per il tramite del medesimo difensore, il quale svolge complessivamente otto motivi:
2.1. (Motivi nn. 1 e 5) Errata qualificazione del fatto quale reato di bancarotta fraudolenta, distrattiva e documentale, in luogo della bancarotta semplice; ci si duole della omessa derubricazione e della mancata assoluzione degli imputati perché il fatto non sussiste, con correlato vizio argomentativo. Si denuncia il vizio logico della motivazione per travisamento del contenuto della relazione del curatore fallimentare in ordine alla ricollegabilità del fallimento ad atti distrattivi degli amministratori. Si assume che, in realtà, il dissesto era stato causato dalla mancanza di commesse fin dal 2008, quando, di fatto, l’attività sociale era cessata, e dal mancato conferimento di una parte del capitale sociale – per l’importo di euro 75.000 , poi, però, versato dopo i rilievi degli organi fallimentari – nonché per l’omesso versamento dei contributi previdenziali e delle imposte ( per euro 150.000 complessivi): si tratta, in realtà, di una situazione conseguente alla crisi economica della società, piuttosto che della ragione del dissesto. Neppure risulterebbero provate condotte distrattive, alla luce della ricostruzione effettuata con la relazione contabile, documentalmente supportata, dalla quale emerge che, in sostanza, vi è stata la riscossione dei crediti della società verso terzi, sebbene l’incasso non sia stato correttamente iscritto nei libri; detta condotta sarebbe ascrivibile, al più, al reato di bancarotta semplice.
Si deduce, inoltre, che, sotto il profilo soggettivo, la posizione di amministratore di fatto di M.G. era emersa solo per sua stessa ammissione al curatore fallimentare, donde, la insussistenza del dolo specifico richiesto ai fini della bancarotta fraudolenta documentale; nulla può essere ascritto, d’altro canto, agli amministratori di diritto, rimasti estranei alla gestione della società.
2.2. ( Motivi nn. 2 e 5) Vizio della motivazione con riferimento alla pronuncia di condanna a carico degli amministratori di diritto P. e A. M.. Illogicamente la Corte territoriale non ha tenuto conto di quanto dichiarato da A. M. al curatore fallimentare, ovvero di essersi affidata, per la gestione sociale, al fratello G., dotato di specifiche competenze; d’altro canto, anche dalla relazione del curatore fallimentare emerge riscontro della concreta assunzione di responsabilità da parte di M. G. per la gestione della società.
2.3. ( Motivo n. 3 ) Violazione di legge nell’affermazione di responsabilità di M. P., dal momento che egli era del tutto privo di qualsiasi carica e responsabilità gestionale o decisionale ( come emergerebbe dallo Statuto sociale, art. 23), poiché, all’epoca, egli era solo un componente del C.d.A., privo di delega e rappresentanza sociale. Cosicché alcuna omissione di vigilanza e controllo è a lui ascrivibile, e nessuna condotta illecita gli è ascrivibile.
2.3. ( Motivo n. 4) Vizio della motivazione in ordine all’esame di una prova decisiva, costituita dalla perizia contabile di parte, contenente la giustificazione delle somme azzerate quali sopravvenienze passive, nel senso che essa, se correttamente valutata, avrebbe dimostrato contabilmente e documentalmente che l’azzeramento degli attivi nell’anno 2013 era la conseguenza della loro inesistenza, per effetto degli incassi già avvenuti nell’anno 2008 e non annotati in tale periodo nel bilancio. In quanto elemento di prova valido e decisivo, la perizia di parte avrebbe dovuto essere posta in bilanciamento con quanto emergente dalla relazione del curatore fallimentare. Poiché detta riconciliazione tra le somme stornate e quelle effettivamente incassate nel 2008 non è stata contestata né dal curatore né dall’Accusa, la motivazione offerta dalla sentenza impugnata sul punto si profila del tutto illogica rispetto alle risultanze probatorie.
2.4. ( Motivo 6) Violazione degli artt. 219 co. 3 I. f.e dell’art. 62 n. 1 cod. pen. e correlato vizio della motivazione. Espone la difesa ricorrente che gli imputati hanno integralmente risarcito il danno, con il versamento del capitale sociale residuo non inizialmente conferito, oltre che degli interessi e delle spese legali in favore della curatela, che ha aderito all’accordo transattivo, autorizzato dal Tribunale fallimentare, rinunciando, altresì, alla costituzione di parte civile.
Si duole la difesa che la Corte di merito abbia negato l’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 cod. pen., in ragione dell’entità del danno erariale, tuttavia, omettendo di considerare che, invece, la attenuante in parola è subordinata alla sola verifica da parte del giudice civile dell’integrale risarcimento e dell’assenza di intento esclusivamente utilitaristico.
Analoghi vizi vengono denunciati con riguardo alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 219 L.F., negata dalla Corte territoriale senza alcuna analisi delle complessive caratteristiche fattuali del fallimento, omettendo del tutto di considerare le dimensioni dell’impresa, l’entità del passivo, l’effettivo pregiudizio economico subito dai creditori. D’altro canto, le scritture contabili sono state consegnate e il curatore ha potuto ricostruire la movimentazione dei due anni di attività della società e predisporre un piano di riparto dei passivi e degli attivi, e gli amministratori non si sono appropriati di beni della società, tutti consegnati. Il passivo è costituito prevalentemente dai debiti tributari, circostanza riconosciuta dalla Corte territoriale che, tuttavia, ha, poi, illogicamente, escluso la tenuità del fatto, per il minimo pregiudizio arrecato ai creditori.
2.5. Con il settimo e l’ottavo motivo si denunciano violazioni di legge nella determinazione del trattamento sanzionatorio.
Per M. G. ci si duole dell’elevata pena base rispetto al minimo edittale ( anni tre e mesi 9), e, comunque, della disparità di trattamento rispetto agli amministratori di diritto. Per M. P. si lamenta il mancato riconoscimento della sospensione condizionale della pena, negata in ragione di un precedente condanna già sospesa, sussistendo, tuttavia, i presupposti per un secondo beneficio, anche attraverso il riconoscimento delle circostanze attenuanti suddette.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile. Tuttavia, il Collegio deve rilevare ex officio la illegalità della determinazione delle pene accessorie. Con riferimento a tale punto della decisione la sentenza deve essere annullata con rinvio per nuovo esame.
2. I motivi proposti sono inammissibili, in qualche caso perché manifestamente infondati, in altri, perché versati in fatto o comunque reiterativi di doglianze già esaminate dai giudici di merito, perseguendo, in realtà, il ricorso, la rilettura del quadro probatorio e, contestualmente, il sostanziale riesame nel merito. Ma il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, è inammissibile perché trattasi di motivi non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di a-specificità, conducente, a mente dell’art. 591 cod.proc.pen comma 1 lett. c) all’inammissibilità (Sez. 4 n. 47170 dell’8/1/2007, Nicosia; Sez. 4 n. 256/1998, Rv. 210157; Sez. 4 n. 1561/1993, Rv 193046. ). Un concetto, questo, che è stato recentemente riaffermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione che, con la sentenza “Galtelli” (Sez. Un., n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823).
3. Con i primi due motivi il ricorrente denuncia formalmente violazioni di legge, salvo poi ad articolare rilievi, deduzioni e doglianze che – lungi dal prospettare una erronea sussunzione del fatto nella fattispecie legale – si sviluppano tutti nell’orbita delle censure di merito e della prospettazione di meri enunciati fattuali, nell’evidente prospettiva di opporre la propria valutazione delle prove e la propria ricostruzione dei fatti di causa e del merito del giudizio. E’ noto, però, che, nel nuovo ordinamento processuale, l’indagine di legittimità sulla struttura razionale della motivazione e, cioè, sul modo di costruire il discorso giustificativo della decisione, deve essere orientata entro un orizzonte circoscritto. Il sindacato demandato alla Corte di Cassazione, infatti, per espressa disposizione normativa, deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sul vari punti della decisione impugnata, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito, per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (Sez. 6, n. 2782 del 18/01/1995 , Rv. 201355).
3.1. Ebbene, la sentenza gravata ha ben spiegato, in modo coerente con consolidati principi di diritto, perché la condotta in questione non sia ascrivibile, come vorrebbe la Difesa, nello schema della bancarotta semplice. La Corte di merito ha considerato, quali condotte significative della fraudolenza, l’avere omesso, da sempre, il versamento delle imposte, così creando una forte esposizione debitoria che, nel momento della crisi di commesse, nel 2008, ha conseguentemente portato a una incapacità della società ad adempiere alle obbligazioni sociali; le condotte distrattive ( consistenti nella transazione di crediti vantati dalla società nei confronti di terzi sul conto corrente della società, crediti poi azzerati mediante storno “a sopravvenienze passive”, non meglio precisate, per il complessivo importo di euro 251.699,00); l’omesso recupero dei versamenti pari al 75% del capitale sociale ancora dovuto. L’azzeramento non giustificato delle poste attive, e la mancata dimostrazione della loro destinazione, oltre alla mancanza della documentazione contabile volta a giustificare le operazioni sottese agli storni hanno indotto la Corte territoriale a ravvisare la condotta distrattiva fraudolenta con valutazione – peraltro, esposta in una motivazione ampia, puntuale, analitica – conforme al costante insegnamento di legittimità- anche richiamato in sentenza – secondo cui il distacco del bene dal patrimonio dell’imprenditore poi fallito, in cui si concretizza l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di esso la natura dell’atto negoziale con cui tale distacco si compie, né la possibilità di recupero del bene attraverso l’esperimento delle azioni apprestate a favore degli organi concorsuali. D’altro canto, è altrettanto accreditato l’orientamento secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti (Sez. 5 n. 11095 del 13/02/2014, Rv. 262741; Sez. 5 n. 22894 del 17/04/2013, Rv. 255385; Sez. 5 n. 3400/05 del 15/12/2004 , Rv. 231411; Sez. 5 n. 7048 del 27/11/2008, Rv. 243295). L’indirizzo si fonda sulla considerazione che, nel nostro ordinamento, l’Imprenditore assume una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali confidano nel patrimonio dell’Impresa per l’adempimento delle obbligazioni sociali. Da qui, la diretta responsabilità dell’imprenditore, quale gestore di tale patrimonio, per la sua conservazione ai fini dell’ integrità della garanzia. La perdita ingiustificata del patrimonio o la elisione della sua consistenza costituisce un vulnus alle aspettative dei creditori e integra, pertanto, l’evento giuridico presidiato dalla fattispecie della bancarotta fraudolenta. Tali considerazioni giustificano la, solo apparente, Inversione dell’onere della prova incombente sul fallito, in caso di mancato rinvenimento di beni da parte della procedura e in assenza di giustificazione al riguardo ( nel senso di dare conto di spese, perdite o oneri compatibili con il fisiologico andamento della gestione imprenditoriale), poiché, anche in ragione dell’obbligo di verità gravante sul fallito ai sensi dell’art. 8 comma 3 della legge fallimentare con riferimento alla destinazione di beni di impresa al momento in cui viene interpellato da parte del curatore, obbligo presidiato da sanzione penale, si tratta di legittima sollecitazione affinché il diretto interessato dia adeguata dimostrazione, in quanto gestore dell’impresa, della destinazione dei beni o del loro ricavato. (Sez. 5 n. 7588 del 26/01/2011).
3.2. Puntuale la motivazione della Corte territoriale anche con riferimento all’elemento soggettivo, essendo stati sviluppati argomenti conformi all’insegnamento questa Corte, a tenore del quale l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale è costituito dal dolo generico; pertanto, è sufficiente che la condotta di colui che pone in essere o concorre nell’attività distruttiva sia assistita dalla consapevolezza che le operazioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, senza che sia necessaria l’intenzione di causarlo ( Sez. 5 n. 51715 del 05/11/2014, Rv. 261739). Oggetto del reato, in tale fattispecie, non è la consapevolezza del dissesto o la sua prevedibilità in concreto, quanto la rappresentazione del pericolo che la condotta costituisce per la conservazione della garanzia patrimoniale e per la conseguente tutela degli interessi creditori ( Sez. 5 n. 40981 del 15/05/2014, Rv. 261367). In relazione a tali fatti, sul dolo non incide né la finalità perseguita in via contingente dall’agente, che è elemento estraneo alla struttura della fattispecie, né il recupero o la possibilità di recupero del bene distaccato, attraverso specifiche azioni esperibili; la norma incriminatrice punisce, in analogia alla disciplina dei reati che offendono comunque il patrimonio, il fatto della sottrazione, che costituisce, ontologicamente, il proprium di ogni distrazione. Sottrazione che si perfeziona nel momento del distacco dei beni dai patrimonio societario anche se il reato viene a esistere giuridicamente con la dichiarazione di fallimento. Coerentemente con la natura di reato di pericolo della bancarotta patrimoniale, non si richiede lo specifico intento di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevolezza della mera possibilità di danno potenzialmente derivante alle ragioni creditorie, e, infatti, si è ripetutamente affermato che il dolo può essere diretto, ma anche indiretto o eventuale, quando il soggetto agisca anche a costo, a rischio di subire una perita altamente probabile se non certa (Sez 5 n. 42568 del 19/06/2018, Rv. 273825; Sez. 5 n. 14783 del 09/03/2018, Rv. 272614; Sez. 5 n. n. 51715 del 05/11/2014, Rv. 261739; Sez. 5 n. 10941 del 20/12/1996, Rv. 206542).
3.3. Con riguardo al concorso dei tre ricorrenti nelle condotte distrattive, la Corte territoriale ha correttamente ricordato il ruolo di garanzia che l’amministratore riveste, sia esso amministratore di fatto o pieno jure, ed ha enucleato gli obblighi di conservazione del patrimonio sociale, di agire in modo informato, di impedire atti pregiudizievoli per la società, per i soci e i terzi, essendo altresì essi tenuti alla eliminazione o alla attenuazione delle conseguenze dannose derivanti da atti pregiudizievoli. E’ stato così correttamente vagliato il ruolo di amministratore di fatto svolto da G. M., con riferimento al quale la sentenza impugnata si è allineata all’orientamento che, da tempo, tende a riconoscere la responsabilità dell’amministratore di fatto, privilegiando il dato funzionale dell’attività in concreto svolta, rispetto a quello meramente formale della investitura, e afferma, in particolare, che l’amministratore di fatto risponde penalmente in quanto le norme indicano gli amministratori con riferimento, non a una formale attribuzione di qualifiche, ma all’esercizio concreto delle funzioni che dette qualifiche sostanziano, essendosi orientata, la giurisprudenza, nel senso della estensibilità della disposizione di cui all’art. 2639 c.c. ( la quale stabilisce, per i rati societari, la equiparazione al soggetto formalmente investito della qualifica o della funzione prevista dalla legge civile sia di chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia di chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione), ai reati fallimentari (Sez. 5 n. 36630 del 05/06/2003, Rv. 228308; conf. Sez. 5 n. 39535 del 20/06/2012, Rv. 253363). L’amministratore di fatto risponde a titolo autonomo con riferimento alle concrete funzioni esercitate e quale diretto destinatario della norma incriminatrice, sicché egli è gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili (Sez. 5 n. 39593 del 20/05/2011, Rv. 250844), con la conseguenza che, sul piano processuale, è necessaria e sufficiente, ai fini della bancarotta patrimoniale, la prova della gestione della società da parte dell’amministratore di fatto (Sez. 5 n. 14103 del 19/10/1999, Rv. 215878), sulla base di indici sintomatici di gestione o cogestione della società (Sez. 5 n. 19145 del 13/04/2006, Rv. 234428; Sez. 5, n. 41793 del 17/06/2016, Rv. 268273). Tali elementi la sentenza impugnata ha ben evidenziato: e cioè che il predetto ricorrente aveva redatto i prospetti contabili relativi al periodo successivo al 2008, senza allegare e provare alcuna giustificazione degli storni; non vi erano riscontri alla circostanza, riferita in interrogatorio, di avere percepito somme a titolo di indennità – emolumento, per cui manca anche la necessaria delibera assembleare; l’imputato non ha indicato le passività alla cui copertura sarebbero state destinate le somme incassate, mentre non risultano estinti i debiti che avevano generato il dissesto e fondato la dichiarazione di fallimento. La doglianza difensiva ( motivo n. 3) non ha dunque alcuna fondatezza, stante il ruolo formale di amministratore da lui assunto all’interno della compagine sociale ( socio al 50% insieme alla sorella A., e componente del C.d.A. presieduto da A.).
3.4. Del pari immuni dalle dedotte censure di illogicità manifesta gli argomenti, puntuali, con cui è stata valutata la posizione degli amministratori di diritto, in relazione ai quali sono stati richiamati i principi di diritto declinati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla figura della “c.d. testa di legno” che, in quanto investito di una posizione di garanzia rispetto al bene giuridico penalmente tutelato, è ritenuto responsabile, a norma dell’art. 40 cpv. cod.pen., a titolo di concorso, per non essere intervenuto a impedire la realizzazione delle fattispecie criminose da parte di altri organi societari, nonostante l’art. 2392 c.c., assunto a principio di ordine generale, gli imponga di attivarsi in presenza di atti pregiudizievoli. Il contegno omissivo è assunto a concausa dell’evento. Sotto il profilo soggettivo, si è pertinentemente argomentato che, in tema di bancarotta fraudolenta, in caso di concorso “ex” art. 40, comma secondo, cod. pen., dell’amministratore formale nel reato commesso dall’amministratore di fatto, ad integrare il dolo del primo è sufficiente la generica consapevolezza che il secondo compia una delle condotte indicate nella norma incriminatrice, senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi, potendosi configurare l’elemento soggettivo sia come dolo diretto, che come dolo eventuale. (Sez. 5, n. 50348 del 22/10/2014 Rv. 263225), poiché, come ben esplicitato nella sentenza Impugnata, Il fondamento della responsabilità degli amministratori di diritto è costituito proprio dalla assunzione della qualità di amministratore. Si riconosce, invero, la sussistenza del dolo eventuale tutte le volte In cui l’amministratore pieno jure abbia omesso di intervenire quando, viceversa, adempiendo pienamente al propri obblighi, avrebbe percepito i segnali della realizzazione del reato ( Sez .5 n. 38712 del 19/06/2008, rv. 242022). Anche nell’analisi dell’elemento soggettivo, relativamente alla posizione degli amministratori di diritto, la Corte di appello ha adempiuto al proprio onere motivazionale, dando rilievo alla circostanza oggettiva che I fratelli A. e P.M. avessero conservato la posizione di amministratore di diritto fino al fallimento, stigmatizzando la noncuranza allegata rispetto ai fatti dell’impresa come sintomatica, non della loro estraneità alla amministrazione, ma quale prova certa di “consapevole e scorretta e comunque non adeguata amministrazione della società”. E, quanto al profilo soggettivo, ha tratto, dal rifiuto di gestire la società, In assenza di valida delega in favore dell’amministratore di fatto, la consapevolezza della possibile mala gestio, rectius, l’accettazione del rischio di verificazione di fatti distrattivi.
3.5. A proposito della bancarotta documentale, il dolo specifico richiesto ai fini della bancarotta documentale, nell’Ipotesi in cui venga delineata nella forma della falsificazione delle scritture contabili – risultando che le scritture siano state sostanzialmente formate ex novo, poiché emerge dal prospetti contabili che le stesse non fossero state regolarmente tenute ma elaborate e prodotte ad hoc, in occasione della procedura concorsuale – è stato ragionevolmente desunto, dalla Corte di appello, proprio dalla natura della condotta tenuta da M. G. che, nello specifico, è consistita nelle rettifiche di conto, registrate al fine proprio di sottrarre alcune attività alla funzione di garanzia patrimoniale a detrimento della posizione dell’erario. In tale condotta, idonea a Impedire la ricostruzione del patrimonio e delle operazioni compiute, si è ravvisata, non irragionevolmente, l’intenzione di arrecare pregiudizio ai creditori, e, segnatamente, all’erario, essendo egli a conoscenza dell’esposizione debitoria della società, proprio in virtù del ruolo gestorio pacificamente svolto..
4. Manifestamente infondati gli altri motivi, con riguardo ai quali, In realtà, il ricorrente, non propone censure che attingono II percorso motivazionale sviluppato dalla Corte di Appello, se non in termini meramente assertivi, ma, piuttosto, si duole della mancata valorizzazione di determinati elementi di fatto omettendo di confrontarsi con l’incedere argomentativo sviluppato dalla Corte di merito, la quale, invece, ha dato adeguatamente conto del proprio convincimento.
4.1. Il quarto, con cui si censura la omessa valutazione della decisività della perizia contabile difensiva, poiché, invece, la sentenza gravata bene spiega le ragioni della propria decisione, mentre il motivo di ricorso denuncia in realtà, inammissibilmente, questioni di merito, ovvero una errata valutazione in fatto, tentando di accreditare una ricostruzione dei fatti diversa da quella, niente affatto Irragionevole, fatta propria dalla Corte territoriale.
4.2. Quanto al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 co. 1 n. 4 cod. pen., la Corte di appello ha rilevato che le somme versate rappresentano il conferimento del capitale sociale residuo, non versato, e le spese legali della procedura, sicché manca il ristoro del pregiudizio patrimoniale. La decisione è coerente con il principio di diritto secondo il quale, anfatti, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma primo, n. 6, cod. pen., il risarcimento del danno deve essere integrale, ossia comprensivo della totale riparazione di ogni effetto dannoso, e la valutazione in ordine alla corrispondenza fra transazione e danno spetta al giudice, che può anche disattendere, con adeguata motivazione, ogni dichiarazione satisfattiva resa dalla parte lesa. (Sez. 2 n. 51192 del 13/11/2019, Rv. 278368: In motivazione la Corte ha evidenziato che l’attenuante, di natura soggettiva, trovando la sua causa giustificatrice non tanto nel soddisfacimento degli interessi economici della persona offesa quanto nel rilievo che il risarcimento del danno prima del giudizio rappresenta una prova tangibile dell’avvenuto ravvedimento del reo e, quindi, della sua minore pericolosità sociale, deve essere totale ed effettivo, non potendo ad esso supplire un ristoro soltanto parziale; conf. Sez. 2, n. 53023 del 23/11/2016, Rv. 268714).
4.3. Congruamente argomentato il diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 219 co.3 L.F., in quanto ancorato alla pluralità dei fatti distrattivi e alla rilevanza dell’esposizione debitoria maggioritaria nei confronti dell’Erario.
4.4. E, in tema di trattamento sanzionatorio, la pena inflitta a M. G. è stata individuata considerando il ruolo sostanziale, di primo piano, svolto nella gestione della società, peraltro, in misura nettamente inferiore alla media edittale, e molto più vicino al minimo edittale; in tal caso, la irrogazione della pena non deve essere motivata in modo specifico e particolarmente ampio, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza sella pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod.pen. , In quanto la sua applicazione rappresenta il frutto di una valutazione intuitiva e globale operata dal giudice di merito in rapporto alla complessiva considerazione del fatto e alla personalità dell’imputato (Sez. 3, n. 1571 del 10/01/1986,Ronzan, Rv. 171948; conf. Sez. 3 n. 38251 del 16/06/2016; Sez. 4 n. 46412 del 05/11/2015; nel senso della necessaria motivazione specifica in ordine ai criteri soggettivi e oggettivi elencati nell’art. 133 cod.pen., nel caso di irrogazione di una pena base pari o superiore al medio edittale, Sez. 3 n. 10095 del 10/01/2013).
4.5. Non colgono nel segno neppure le censure relative alla sospensione condizionale della pena, negata a P.M. per averne già beneficiato, poiché, in tema di sospensione condizionale della pena, vige il principio di diritto secondo cui il Giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (Sez.4, n.34380 del 14/07/2011, Rv.251509; Sez.3, n.35731 del 26/06/2007, Rv.237542; Sez. 1, n.560 del 22/11/1994, dep20/01/1995, Rv.20002).
5. Il Collegio deve rilevare, anche di ufficio, la illegalità delle pene accessorie ex art. 216 u.c. I.f. applicate ex lege come effetto penale della pronuncia di condanna impugnata (art. 20 cod.pen.). Con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 , infatti, la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 216 u.c. l.f, nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni la inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: « la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa la inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni.» La sostituzione della cornice edittale operata dalla citata pronuncia, determina la illegalità delle pene accessorie irrogate in base al criterio dichiarato illegittimo, indipendentemente dal fatto che quelle concretamente applicate rientrino comunque nel “nuovo” parametro, posto che il procedimento di commisurazione si è basato su una norma dichiarata incostituzionale. In aderenza all’insegnamento contenuto nella sentenza Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207, «deve escludersi che possa essere conservata, in quanto legittima, sotto il profilo del principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena, la pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla sua origine». L’illegalità sopravvenuta della previsione della durata delle pene accessorie impone l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in punto di trattamento sanzionatorio, al fine di consentire al giudice di merito di stabilire la durata delle pene accessorie; giudizio che implicando valutazioni discrezionali, è sottratto al giudice di legittimità. Nella necessità di dovere individuare un criterio al quale il giudice del rinvio dovrà attenersi nella rideterminazione della durata della pena accessoria, non più fissa (dieci ), ma indicata solo nel massimo, si osserva che, le Sezioni Unite, successive alla predetta declaratoria di incostituzionalità, hanno affermato che le pene accessorie previste dall’art. 216 legge fallimentare, nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte Costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di sui all’art. 133 cod.pen.” (Sez. U – , n. 28910 del 28/02/2019 , (dep. 03/07/2019 ) Rv. 276286).
6. La sentenza impugnata deve, dunque, essere annullata con riferimento alle sole pene accessorie , con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano. Nel resto il ricorso è inammissibile.
7. Ai sensi dell’art. 624 cod.pen., dall’annullamento con rinvio circoscritto a tale punto della decisione, deriva l’autorità di cosa giudicata in tutti i restanti punti della sentenza privi di connessione con quello annullato, e quindi, nella specie, con riferimento all’accertamento della responsabilità dell’imputato, alla pena principale.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie fallimentari con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Milano. Dichiara inammissibile il ricorso nel resto.
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