CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 35719 depositata il 14 dicembre 2020

Reati tributari – IVA – Dichiarazione fraudolenta – Compensazione indebita di crediti non spettanti o inesistenti – Sequestro preventivo – Profitto del reato

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 20 febbraio 2020, il Tribunale di Torino, sezione del riesame, adito ai sensi dell’art. 322 cod. proc. pen. avverso il provvedimento con cui il gip del medesimo tribunale aveva disposto il sequestro preventivo anche per equivalente, di somme di denaro in relazione ai reati ex artt. 110 c.p., 3  e 10 quater del Dlgs. 74/2000, confermava l’ordinanza impugnata.

2. Avverso la pronuncia del tribunale della cautela, con riferimento al sequestro disposto, propone ricorso per cassazione O.C., mediante il proprio difensore, deducendo tre motivi di impugnazione.

3. Deduce con il primo, il vizio di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen. per inosservanza dell’art. 321 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 110 c.p., 3, 10 quater e 12 bis Dlgs. 74/2000 e con riguardo al sequestro disposto, in ordine ai reati ex art. 3 Dlgs. 74/2000 di cui ai capi 27) e 28). Si osserva come in relazione alla nozione di profitto, la mera indicazione di un credito IVA in dichiarazione non costituisce di per sé un risparmio economico se quella medesima somma non venga in tutto o in parte fatta oggetto di compensazione con debiti fiscali. Tanto premesso, non sarebbe condivisibile la tesi accusatoria per cui il profitto relativo ai reati di cui ai capi 27) e 28) sarebbe in sostanza da ricercare nell’abbattimento dell’imponibile, con conseguente risparmio di spesa sull’imposta dovuta. Si aggiunge come emerga, alla luce delle successive contestazioni di cui ai capi 34) e 35) (inerenti le indebite compensazioni ex art. 10 quater Dlgs. 74/2000) che l’entità del profitto del reato sia distante ed inferiore rispetto alla entità dei crediti IVA iscritti in dichiarazione per il capo 27) e per il capo 28), cosicchè sarebbe smentita dalle risultanze investigative l’affermazione del tribunale per cui l’entità del profitto ipotizzata sarebbe di ammontare prossimo “all’elemento passivo fittiziamente indicato”. In tale quadro, sarebbe apodittico il riferimento alla mancanza di perizia contabile quale attività che non può essere disposta in sede di riesame: la sua assenza invero, non avrebbe dovuto portare, quale effetto diretto, alla conferma del sequestro preventivo svincolato dalla entità reale del profitto. La conferma di quanto sopra osservato deriverebbe dall’esame della struttura dell’art. 3 del Dlgs. 74/2000, da cui emerge come sia ben distinta la nozione di “elementi passivi fittizi” e “l’imposta evasa” e come, a fronte di elementi passivi fittizi non integralmente oggetto di compensazione, risulti illegittimo un sequestro che corrisponda ai suddetti elementi passivi fittizi, senza che ad essi corrisponda un effettiva evasione di imposta.

4. Deduce con il secondo motivo il vizio di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen. per inosservanza dell’art. 321 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 110 c.p., 3, 10 quater e 12 bis Dlgs. 74/2000 e con riguardo al sequestro disposto, in ordine ai reati di cui ai capi 34) e 35). Si osserva come l’impostazione accusatoria accolta implichi una duplicazione (in parte) del profitto ipotizzato del reato e, quindi, dell’oggetto del sequestro. Nonostante il sequestro dell’importo corrispondente ai crediti IVA fittizi di cui ai capi 27) e 28) il vincolo risulta esteso anche agli importi oggetto delle indebite compensazioni di cui ai capi 34) e 35), senza considerare che le compensazioni sono state effettuate utilizzando i medesimi crediti Iva. Con calcolo, due volte, del medesimo importo di euro 228.864,48. Non condivisibile sarebbe, al riguardo, il rilievo con cui il tribunale, rigettando la suesposta tesi difensiva, ha osservato come si tratterebbe di ipotesi di reato diverse. Del resto, lo stesso PM avrebbe dimostrato di condividere tali riflessioni, seppur a posteriori, avendo espunto poi dall’ipotesi di accusa le contestazioni di cui all’art. 10 del Dlgs. 74/2000.

5. Deduce con il terzo motivo il vizio di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen. per inosservanza dell’art. 321 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 110 c.p., 3, 10 quater e 12 bis Dlgs. 74/2000 e con riguardo al sequestro disposto per equivalente su denaro, immobili e terreni del ricorrente. Si osserva come sarebbero suscettibili di confisca diretta solo le somme conseguite mediante le indebite compensazioni di cui ai capi 34) e 35) oppure i beni direttamente acquistati con tali somme. In particolare, sarebbero passibili di confisca diretta solo le somme utilizzate dai reali amministratori dei conti di A. s.r.l. ed E. s.r.I., atteso che essi, effettuando secondo l’ipotesi accusatoria compensazioni indebite, avrebbero distratto a proprio vantaggio le somme versate da due società effettivamente gestite dal ricorrente, per il pagamento di stipendi e contributi dei lavoratori. Con la conseguenza che i beni costituenti direttamente o indirettamente profitto del reato e passibili di confisca diretta sarebbero solo quelli sequestrati ad altro coindagato, R.B., che avrebbe amministrato – come da relazione di p.g. della GDF del 5 aprile 2019 e da interrogatorio del B. – mediante prestanome, le citate società A. s.r.l. ed E. s.r.l. I beni invece sottratti al ricorrente con il sequestro non avrebbero alcuna correlazione con i reati. E non sarebbero quindi passibili di confisca diretta. Dovendosi quindi ricondursi il sequestro disposto nella categoria del sequestro per equivalente, come tale esperibile solo ove sia impossibile sequestrare direttamente il profitto del reato; laddove i beni sequestrati al B. coprirebbero gli importi del profitto, da rideterminarsi in euro 228.864,48, dei reati contestati in concorso al ricorrente, rendendo quindi ultronea l’apposizione di vincoli sui beni del medesimo.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.

1. Con riguardo al primo motivo, si premette che, come emerge dalla ordinanza impugnata, il gip, con ordinanza del 18.10.2019 aveva disposto il sequestro anche per equivalente di somme di denaro nei confronti dell’attuale ricorrente. Tanto avveniva previa rilevazione, da parte del Gip, richiamata in ordinanza e rimasta incontestata, della incapienza delle persone giuridiche nell’ambito della cui gestione erano stati consumati i reati tributari oggetto di procedimento, trattandosi, alla luce degli atti disponibili, di società prive di patrimonio, in quanto costituite solo allo scopo di creare o trasferire il credito di imposta ovvero di società sistematicamente spogliate. Nel quadro di tale ricostruzione, il tribunale ha risposto alle doglianze riportate nei primi due motivi di ricorso, da trattare unitariamente date le chiare interconnessioni argomentative. Al riguardo, occorre premettere che il reato ex art. 3 del Dlgs 74/2000 si configura allorquando, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, si indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizie, quando ricorrano le condizioni di cui alle lettere a) e b) del medesimo articolo. Quanto invece all’art. 10 quater del medesimo Dlgs., esso prevede che è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme  dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro. La giurisprudenza di legittimità, sia con riferimento all’originaria formulazione della norma incriminatrice (Sez. 3, n. 42462 dell’11/11/2010, Rv. 248754), sia in relazione al tenore della previsione attuale (Sez. 3, n. 5934 del 12/09/2018, dep. 2019, Rv. 275833), ha inoltre precisato che il reato di indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti, si configura sia in caso di c.d. compensazione orizzontale, concernente cioè crediti e debiti di imposta di natura diversa, sia in caso di cd. compensazione verticale, riguardante crediti e debiti per tributi di natura omogenea, in quanto si concretizza in una condotta omissiva supportata dalla redazione di un documento ideologicamente falso, idoneo a prospettare una compensazione fondata su un credito inesistente o non spettante. Di particolare interesse, nel caso di specie è, altresì, il dato per cui la ratio della norma, estranea all’originario impianto del d. lgs. n. 74 del 2000, è quella di sanzionare quei comportamenti diretti a evitare il pagamento dell’imposta dovuta attraverso l’indebito ricorso al meccanismo della compensazione, istituto previsto in ambito tributario dall’art. 17 del d. lgs. n. 241 del 9 luglio 1997, secondo cui i contribuenti titolari di partita Iva eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all’Inps e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche.

Per quanto di interesse emerge, prima facie, dalla lettera delle citate disposizioni, che in ordine al reato ex art. 3 viene in rilievo, allorquando si compiano operazioni simulate – come nel caso in esame – incidenti su elementi attivi o passivi, la riduzione dell’aliquota dovuta per le imposte sui redditi o sul valore aggiunto; con riguardo invece, al reato ex art. 10 quater pure citato, la compensazione indebita con crediti inesistenti o non spettanti è funzionale alla riduzione di debiti di imposta di più ampia e variegata natura. Consegue da tali considerazioni il rilievo, già elaborato dal tribunale, che rende i due motivi in esame infondati, per cui il profitto di cui ai due predetti reati è distinto, corrispondendo, nel primo caso, ad un abbattimento della base imponibile e quindi, in ultima analisi, della percentuale della imposta sui redditi o sul valore aggiunto dovuta; nel secondo caso, al mancato versamento di un debito di non predeterminata natura, per un ammontare corrispondente al credito inesistente o non spettante. Cosicchè, non è condivisibile l’affermazione della sussistenza di una coincidenza del profitto, conseguente alla valorizzazione, nelle due diverse fattispecie, ma con profili operativi diversi, del medesimo credito fittizio. Del resto di recente si è già espressa questa Corte in ordine alla peculiare “struttura” dei “fattori” (e relativo risultato finale) coinvolti nella indebita compensazione di cui al citato art. 10 quater, con ricostruzione che conferma la distinzione rispetto a quelli di cui al meccanismo descritto dall’art. 3 pure citato (cfr. in motivazione Sez. 3 n. 14763 del 19/02/2020 Rv. 279119).

4. Quanto al terzo motivo, alla luce delle argomentazioni suesposte si  traduce nella proposta di una rivalutazione delle vicende in funzione di una rideterminazione delle scelte cautelari e del relativo oggetto. Inammissibile in questa sede,, atteso che, come noto, il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (cfr. Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017 Rv. 269656 – 01 Napoli; Sez. U. n. 25932 del 29/05/2008, Rv. 239692). Si è altresì specificato che in caso di ricorso per cessazione proposto contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo esso, pur consentito solo per violazione di legge, è ammissibile quando la motivazione del provvedimento impugnato sia del tutto assente o meramente apparente, perché sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'”iter” logico seguito dal giudice nel provvedimento impugnato (Sez. 6, Sentenza n. 6589 del 10/01/2013 Rv. 254893).

Il controllo della Corte di Cassazione è, dunque, limitato ai soli profili della violazione di legge. La verifica in ordine alle condizioni di legittimità della misura cautelare è necessariamente sommaria e non comporta un accertamento sulla  fondatezza della pretesa punitiva e le eventuali difformità tra fattispecie legale e caso concreto possono assumere rilievo solo se rilevabili ictu °culi (per tutte: Sez. U, n. 6 del 27/03/1992 – dep. 07/11/1992, Midolini, Rv. 191327; Sez. U, n. 7 del 23/02/2000 – dep. 04/05/2000, Mariano, Rv. 215840). La delibazione non può estendersi neppure all’elemento psicologico del reato e alla ricostruzione in concreto delle possibili e prevedibili modalità con le quali la condotta contestata si sarebbe dovuta manifestare; in altri termini, quindi, non è possibile che il controllo di cassazione si traduca in un controllo che investe, sia pure in maniera incidentale, il merito dell’impugnazione.

4. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.