Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 39318 depositata il 31 agosto 2018

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 06/10/2016, il Tribunale di Salerno dichiarava Leone Maddalena responsabile del reato di cui all’art. 5 comma 1 lett. b) I 283/1962- perché quale legale rappresentante dell’Azienda Agriturismo Agricola Villa Lupara  deteneva per la successiva distribuzione per il consumo alimenti (circa 26 Kg di salumi, insaccati, formaggi nonchè altri alimenti circa 24 Kg congelati senza l’osservanza di idoneo metodo: prodotti carnei, ittici, ortaggi, alimentari e prodotti dolciari) in cattivo stato di conservazione attese le precarie modalità anche estrinseche di conservazione dei salumi e formaggi, detenuti in malo modo all’interno di un vano frigo e privo di qualsiasi informazione ed etichettatura per la sicurezza alimentare ed atteso che gli alimenti congelati erano sottoposti a congelamento in maniera abusiva senza l’osservanza di idonea procedura a tal fine, erano attinti da brina e bruciature da freddo ed erano conservati all’interno di frigo congelatore ad uso domestico privo di rilevazione della temperatura) – e la condannava alla pena di euro 6.000,00 di ammenda.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Leone Maddalena, a mezzo del difensore di fiducia, articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

Con il primo motivo deduce vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità, lamentando che il Tribunale aveva fondato la decisione sulla documentazione fotografica in atti che era stata realizzata successivamente al dissequestro degli alimenti e sulla errata considerazione che il reato contestato aveva natura di reato di pericolo.

Con il secondo motivo di ricorso solleva questione di legittimità costituzionale per indeterminatezza della fattispecie relativa alla ipotesi di reato prevista dall’art. 5 lett. b della legge 30.4.1962, n.283 sulla disciplina igienica degli alimenti, per violazione dell’art. 25, comma 2 della Costituzione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Va previamente esaminato il secondo motivo di ricorso.

La questione di legittimità costituzionale per indeterminatezza della fattispecie relativa alla ipotesi di reato prevista dall’art. 5 lett. b) della legge 30.4.1962, n.283 sulla disciplina igienica degli alimenti, per violazione dell’art. 25, comma 2 della Costituzione è manifestamente infondata.

L’art. 5 lett. b) della legge 30 aprile 1962 n. 283 vieta l’impiego nella produzione, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in “cattivo stato di conservazione”.

La nozione di “cattivo stato di conservazione” è circoscritta e determinata secondo i limiti sostanzialmente tecnici segnati da quei principi cui e’ ispirata nel suo complesso la legge sulla disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande a tutela della salute pubblica (cfr Sez.6, n.3802 del 27/10/1992, dep.21/01/1993, Rv.192930, che ha affermato, condivisibilmente, che l’art. 5 lett. b) della legge 30 aprile 1962 n. 283 mira ad assicurare che il prodotto sia ben conservato e, perciò, ad imporre le idonee modalità di conservazione delle sostanze alimentari che si ricavano dalla stessa legge n. 283/1962, dal relativo regolamento di esecuzione e da altri regolamenti e disposizioni ministeriali, dalle regole di comune esperienza produttiva e commerciale di specifici generi alimentari; cfr, altresì, Sez.3, n.11828 del 13/11/1997, Rv.209724, che, con riferimento alla fattispecie di cui alla lett. d) della legge n. 283/1962, ha affermato il principio- di carattere generale che ben può estendersi a tutte le fattispecie di cui all’art. 5 legge n. 283/1962- che le eventuali indicazioni contenute in circolari del Ministero della Sanità costituiscono un parametro scientificamente valido al quale ancorare il giudizio e non già un necessario completamento della norma incriminatrice; nonché la sentenza della Corte Costituzionale n. 96 del 1964, che con riferimento all’art. 5, lett. g, della legge 30 aprile 1962, n. 283, ha escluso la violazione del principio della riserva di legge» affermando che l’elenco degli additivi chimici vietati, contenuto nel decreto del Ministro della sanità, «non concorre a costituire il precetto penale, ma è soltanto un presupposto della sua applicazione; ed analogamente la sentenza n. 61 del 1969, che ha dichiarato non fondata, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, lett. f della stessa legge n. 283 del 1962,).

Ed è stato affermato dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a Sezioni Unite, che, ai fini della configurabilità del resto in esame, non vi è la necessità di un cattivo stato di conservazione riferito alle caratteristiche intrinseche delle sostanze alimentari, essendo sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, che devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, dep.09/01/2002, Rv. 220717; in senso conforme, Sez. 3, 17 gennaio 2014, n. 6108, Rv. 258861; Sez. 3, 20 aprile 2010, n. 15094; Sez. 3, 21 settembre 2007, n. 35234; Sez. 3, 10 giugno 2004, n. 26108; Sez. 3, 24 marzo 2003, n. 123124; sez. 4, 18 novembre 2002, n. 38513; Sez. 3, 8 novembre 2002, n. 37568; Sez. 3, 3 gennaio 2002, n. 5).

La fattispecie prevista dalla norma, quindi, risulta determinata secondo i limiti sostanzialmente tecnici segnati da quei principi cui e’ ispirata nel suo complesso la legge sulla disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande e l’interpretazione che di essa il diritto vivente offre non dà luogo a dubbi di sorta.

2. Manifestamente infondato è anche il primo motivo di ricorso.

Questa Suprema Corte ha chiarito che il reato di detenzione per la vendita di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, previsto dall’art. 5, lett. b), della legge 30 aprile 1962, n. 283, è configurabile quando è accertato che le concrete modalità di conservazione siano idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento dell’alimento, senza che rilevi a tal fine la produzione di un danno alla salute, attesa la sua natura di reato di danno a tutela del c.d. ordine alimentare, volto ad assicurare che il prodotto giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte dalla sua natura (cfr Sez. 3, n. 40772 del 05/05/2015, Rv. 264990; Sez. 3, 2 settembre 2004, n. 35828) E’, quindi, necessario accertare che le modalità di conservazione siano in concreto idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento delle sostanze (Sez. 3, 11 gennaio 2012, n. 439; Sez. 3, 13 aprile 2007, n. 15049) escludendosi, tuttavia, la necessità di analisi di laboratorio o perizie, ben potendo il giudice di merito considerare altri elementi di prova, come le testimonianze di soggetti addetti alla vigilanza, quando lo stato di cattiva conservazione sia palese e, pertanto, rilevabile a seguito di una semplice ispezione (Sez. 3 n. 35234, 21 settembre 2007, cit.). Nella specie, il Tribunale, in linea con i suesposti principi di diritto, ha accertato, in aderenza alle emergenze istruttorie (verbale di ispezione igienico- sanitaria, rilievi fotografici effettuati dai verbalizzanti, testimonianza di soggetto addetto alla vigilanza,) che il cattivo stato di conservazione degli alimenti emergeva da diversi profili: presenza di cristalli di ghiaccio e bruciature da freddo sugli alimenti per complessivi kg 24 conservati nel frigo congelatore ad uso domestico e privo di sistema di rilevazione della temperatura; conservazione di alimenti per complessivi kg 26 in vano frigo in buste prive di etichette ed informazioni sulla tracciabilità e con presenza di muffe sui salumi. Trattasi di accertamento di fatto, sorretto da argomentazioni congrue e non manifestamente illogiche che si sottrae, pertanto, al sindacato di legittimità.

4. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

5. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.