CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, ordinanza n. 9819 depositata l’ 11 aprile 2024
Tributi – Avvisi di accertamento – IRPEF – Maggior reddito – Notifica – Delega di firma del provvedimento – Contraddittorio preventivo in materia di redditometro – Attività ispettiva – Diritti e garanzie del contribuente – Esame separato dei profili di doglianza – Rigetto
Rilevato che
1. In data 29 novembre 2011 I. riceveva notifica di due distinti avvisi di accertamento ai fini IRPEF, n. (…) e n. (…), rispettivamente per gli anni d’imposta 2007 e 2008. L’Agenzia delle Entrate – direzione provinciale di Cosenza – rideterminava sinteticamente il reddito complessivo del detto contribuente ex art. 38, quarto comma e ss., d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, accertando un maggior reddito di Euro 83.160,23 per l’anno 2007 e di Euro 37.070,07 per l’anno 2008; la rettifica originava dal riscontro, operato dall’ufficio, della disponibilità del contribuente di beni e situazioni indicativi di capacità contributiva quali, segnatamente: due automezzi, spese telefoniche, dodici rate mensili di mutuo fondiario e rate di leasing pari a dodici per l’anno 2007 ed a cinque per l’anno 2008.
2. Avverso gli avvisi di accertamento, dopo un infruttuoso tentativo di accertamento con adesione, il contribuente proponeva distinti ricorsi dinanzi alla C.t.p. di Cosenza; si costituiva in giudizio anche l’Ufficio, contestando i motivi di ricorso e chiedendo la conferma del proprio operato.
3. La C.t.p., previa riunione dei ricorsi, con sentenza n. 17/5/13, accoglieva il ricorso del contribuente, annullando gli atti impugnati e condannando l’ufficio al pagamento delle spese di lite.
4. Contro tale decisione proponeva appello l’Agenzia delle Entrate dinanzi la C.t.r. della Calabria; si costituiva anche il contribuente, chiedendo l’inammissibilità e, in ogni caso, il rigetto dell’appello.
5. Con sentenza n. 1141/01/2015, depositata in data 02 luglio 2015, la C.t.r. adita accoglieva il gravame dell’Ufficio e compensava le spese processuali.
6. Avverso la sentenza della C.t.r. della Calabria, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
La causa è stata trattata nella camera di consiglio del 25 gennaio 2024.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso, così rubricato: “Violazione di legge in riferimento alla previsione di cui all’art. 53 co.2 e dell’art. 22, co.1, D.L. LGS (recte D.Lgs. n. 546/1992) in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3) e 5)” il contribuente lamenta l’error in iudicando e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. ha omesso di dichiarare, preliminarmente ed ex officio, l’inammissibilità dell’appello per non avere l’ufficio depositato, nella segreteria della C.t.r. adita ed entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, ricevuta di spedizione dell’atto a mezzo del servizio postale al contribuente; ciò a prescindere dalla costituzione di quest’ultimo.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso, così rubricato: “Violazione di legge in riferimento alla previsione di cui all’art. 42 DPR 600/73 in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3) e 5)” il contribuente lamenta l’error in iudicando e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. ha mancato di dichiarare, ex officio, l’inammissibilità dell’appello, data la nullità assoluta, non sanabile, dell’avviso di accertamento in quanto sottoscritto su delega di un funzionario sprovvisto della qualifica di dirigente dell’ufficio anche con riferimento alla sopravvenuta sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale.
1.3. Con il terzo motivo di ricorso, così rubricato: “Violazione di legge in riferimento alla previsione di cui all’art. 38 DPR 600/1973 in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3) e 5)” il contribuente lamenta l’error in iudicando e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. ha ritenuto non sussistere un principio generale di obbligatorietà del contraddittorio preventivo riferito all’applicazione dell’istituto del redditometro.
1.4. Con il quarto motivo di ricorso, così rubricato: “Violazione di legge in riferimento alla previsione di cui all’art. 12 co. 2. L. 212/2000 in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3) e 5)” il contribuente lamenta l’error in iudicando e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. ha ritenuto non sussistere per l’ufficio l’obbligo di avvisare il contribuente della facoltà di farsi assistere da un difensore nella fase del contraddittorio preventivo.
1.5. Con il quinto motivo di ricorso, così rubricato: “Violazione di legge e carenza di motivazione ed erroneità ed illogicità della motivazione con riguardo alla erronea in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3) e 5)” il contribuente lamenta l’error in iudicando e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. ha considerato non strumentale all’attività di impresa l’automezzo targato (…), bene in locazione finanziaria, solo perché non iscritto nel registro dei beni ammortizzabili (e, così, anche con riferimento alle altre spese indicative di capacità contributiva); in ogni caso, poi, ha quantificato in maniera spropositata e irragionevole il reddito derivante presuntivamente dal possesso degli automezzi indicati negli avvisi di accertamento.
2. Il primo motivo di ricorso, con cui parte ricorrente censura l’operato della C.t.r. nella parte in cui ha ritenuto ammissibile il gravame dell’ufficio seppur mancante del deposito, entro trenta giorni dalla proposizione del gravame, della ricevuta di spedizione dell’atto a mezzo del servizio postale, è infondato.
2.1. Le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 13453 del 2017, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Nel processo tributario, non costituisce motivo d’inammissibilità del ricorso o dell’appello, che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente o l’appellante, al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l’avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purché nell’avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall’ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario; solo in tal caso l’avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizione, laddove, in mancanza, la non idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull’avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso o dell’appello, unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall’agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto o della sentenza“. Nella fattispecie in esame l’avviso di ricevimento prodotto in atti in grado d’appello reca il timbro datario dell’ufficio postale ricevente che attesta la data di spedizione del 5 luglio 2013, entro il termine, quindi, di sei mesi dalla data del 21 gennaio 2013 quale attestata dalla CTR del deposito della sentenza di primo grado.
3. Il secondo motivo di ricorso, con cui parte ricorrente censura l’operato dei Giudici di seconde cure nella parte in cui omettono di dichiarare l’inammissibilità del gravame malgrado la nullità assoluta dell’avviso di accertamento impugnato, sottoscritto da funzionario privo delle qualità dirigenziali, è parimenti infondato.
3.1. Invero, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, “l’Amministrazione finanziaria, in caso di contestazione, è tenuta, con onere della prova a suo carico (anche per il principio di vicinanza alla prova ex Cass., 2 dicembre 2015, n. 24492), a dimostrare la sussistenza della delega, potendo produrla anche nel secondo grado di giudizio, in quanto la presenza o meno della sottoscrizione dell’avviso di accertamento non attiene alla legittimazione processuale (Cass., 14626/2000; Cass., 14195/2000; Cass., 17044/2013; Cass., 12781/2016; Cass., 14942/2013; Cass. 18758/2014; Cass., 19742/2012; Cass., 332/2016; Cass., 12781/2016; Cass., 14877/2016; Cass., 15781/2017; Cass., 5200/2018; n.19190 /2019; n. 5177 del 26/02/2020). Quanto poi agli effetti della delega con riguardo ai requisiti dell’atto e ai requisiti del firmatario, si è pure chiarito che (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8814 del 29/03/2019) la delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento conferita dal dirigente ex all’art. 42, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973, è una delega di firma e non di funzioni; ne deriva che il relativo provvedimento non richiede l’indicazione né del nominativo del soggetto delegato, né della durata della delega, che pertanto può avvenire mediante ordini di servizio che individuino l’impiegato legittimato alla firma mediante l’indicazione della qualifica rivestita, idonea a consentire, “ex post”, la verifica del potere in capo al soggetto che ha materialmente sottoscritto l’atto. Ancora, con riguardo specificamente della sorte degli atti tributari sottoscritti da soggetti capi di ufficio o delegati, la cui qualifica dirigenziale sia risultata conseguita illegittimamente in relazione alla sopravvenuta sentenza n. 37 del 2015 della Corte costituzionale – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 24, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della L. 26 aprile 2012, n. 44 – questa Corte (Cass., sez. 5, 9/11/2015, n. 22810) ha, altresì, escluso che, ai fini della valida sottoscrizione di un atto impositivo, sia necessario in chi ha sottoscritto l’atto ovvero ha conferito la delega il possesso di una qualifica dirigenziale, rilevando che tale presupposto non è giustificato dal dato normativo.
3.2. Alla stregua delle considerazioni che precedono, dovendo, ai sensi dell’art. 42, primo e terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, nessun effetto sulla validità dell’atto impositivo, in questa sede impugnato può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 8, comma 24, del d. L. n. 16 del 2012, convertito dalla legge n. 44 del 2012 (in senso conforme, Cass., sez. 5, 26/02/2020, n. 5177)”, così Cass., n. 33323 del 2023.
3.3. La C.t.r., pertanto, nel superare la censura d’inammissibilità del gravame in virtù del c.d. vizio di delega di firma, ha invero fatto corretta applicazione dei principi fatti propri dalla giurisprudenza costante.
4. Il terzo motivo di ricorso, con cui parte ricorrente si duole dell’operato dei Giudici di seconde cure, i quali hanno negato l’obbligo di contraddittorio preventivo in materia di redditometro, è infondato.
Nella sentenza si legge che: “La Commissione provinciale, nell’adottare detta statuizione, ha richiamato la sentenza 17 giugno 2011 n. 13289 della Suprema Corte, la quale avrebbe confermato tale obbligatorietà, al fine di adeguare l’elaborazione statistica degli standard – considerati dai decreti ministeriali del 1992 – alla concreta realtà economica del contribuente. Va al premesso che, come esattamente evidenziato dall’Amministrazione finanziaria nel ricorso in appello, la sentenza n. 13289/2011 “in nessun punto parla di obbligatorietà del contraddittorio preventivo nell’applicazione dell’istituto del redditometro (per i periodi precedenti il 2009)” (v. fol. 6 ricorso in appello). Ciò premesso, va ricordato che la Corte di Cassazione ha più volte chiarito che in ambito tributario non sussiste un obbligo generalizzato di effettuazione del contraddittorio, che la partecipazione del privato al procedimento ammnistrativo-tributario costituisce una eventualità e che, pertanto, l’Amministrazione non sarebbe tenuta ad interpellare il contribuente (così Cassazione civile, sez. trib., 29 dicembre 2010 n. 26316, secondo cui “anche dopo l’entrata in vigore della l. 27 luglio 2000 n. 212, allo stato attuale della legislazione non può ritenersi esistente un principio generale di contraddittorio in ordine alla formazione della pretesa fiscale, atteso che l’obbligatorietà dell’invito da rivolgere al contribuente al fine di fornire chiarimenti o produrre documenti prima di procedere all’iscrizione a ruolo, di cui all’art. 6 dello Statuto sopra indicato, sorge solo se vi siano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, che possono derivare sia dal contenuto intrinseco dell’atto del contribuente, sia dal confronto tra l’atto in questione ed i diversi dati di cui l’Ufficio abbia la disponibilità”; conforme Cassazione civile, sez. trib., 21/07/2009, n. 16874 e Cassazione civile, sez. trib., 14/05/2007, n. 10964). I giudici di legittimità hanno, infatti, ritenuto che non può trovare applicazione la disciplina generale del procedimento amministrativo di cui alla legge 7 agosto 1990 n. 241 e succ. mod., attesa l’espressa deroga ivi prevista dall’art. 13, comma 2, per i procedimenti tributari. Invero, il legislatore ha previsto l’obbligatorietà del contraddittorio preventivo soltanto in relazione a un numero limitato di ipotesi (di accertamento connesso a violazioni di disposizioni antielusive, di accertamento sintetico del reddito delle persone fisiche – post riforma del 2010 – e di accertamenti basati sugli studi di settore); in tutti gli altri casi la mancata convocazione dell’interessato non può mai determinare l’invalidità dell’atto di accertamento, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità degli organi accertatori, che non pregiudica il diritto di difesa del contribuente, ben potendo egli presentare osservazioni e memorie in vista di un eventuale chiarimento pre-contenzioso o fornire, dopo l’emissione dell’avviso di accertamento, le sue giustificazioni in sede di giudizio”.
4.1. La pronuncia opera una corretta interpretazione della giurisprudenza di legittimità attuale sul tema del contraddittorio preventivo in materia di redditometro.
4.2. Come sovente sostenuto dalla giurisprudenza di questa Corte, non esiste nel nostro ordinamento un generale obbligo di contraddittorio endo-procedimentale, e, pertanto, un consequenziale obbligo di indicazione nella parte motiva dell’avviso di accertamento delle ragioni poste alla base del rigetto della documentazione prodotta su invito dell’Agenzia. Difatti: “Allo stato attuale della legislazione non sussiste, nell’ordinamento tributario nazionale, una clausola generale di contraddittorio endo-procedimentale (…) un argomento asseverante a contrario risiede proprio nel dato normativo dell’art. 22, comma primo, D.L. n. 78/2010, convertito nella L. n. 122 del 2010 che ha introdotto l’obbligo del contraddittorio endo-procedimentale in tema di accertamento sintetico “con effetto per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto” (Cass., Sez. VI, ord. n. 3885 del 2016). Ancora, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata esclusivamente per i tributi “armonizzati” di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, mentre, per quelli “non armonizzati”, non essendo rinvenibile, nella legislazione nazionale, una prescrizione generale, analoga a quella comunitaria, solo ove risulti specificamente sancito, come avviene per l’accertamento sintetico in virtù dell’art. 38, comma 7, del d.P.R. n. 600 del 1973, nella formulazione introdotta dall’art. 22, comma 1, del D.L. n. 78 del 2010, conv. in L. n. 122 del 2010, applicabile, però, solo dal periodo d’imposta 2009, per cui gli accertamenti relativi alle precedenti annualità sono legittimi anche senza l’instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale (Cass. Sez. U, 09/12/2015, n. 24823 del 09/12/2015; Cass. 31/05/2016, n. 11283).
5. Il quarto motivo di ricorso, con cui parte ricorrente si duole dell’operato della C.t.r. per aver ritenuto non sussistere per l’ufficio l’obbligo di avvisare il contribuente della facoltà di farsi assistere da un difensore nella fase del contraddittorio preventivo, è infondato.
A tacer del fatto che, nel caso in esame, non si verte in una ipotesi di verifica fiscale in azienda ma di un accertamento cd. “a tavolino” mediante presentazione di questionario, anche sul punto la Commissione tributaria regionale, nell’affermare che “E parimenti fondato è il motivo di gravame concernente l’asserita violazione, da parte dell’Agenzia delle Entrate, del diritto di difesa del ricorrente, per non averlo reso edotto della facoltà di farsi assistere da un difensore abilitato già nella fase di invio del questionario. Nessuna disposizione normativa obbliga l’Ufficio a tale “informativa”; né può trovare applicazione analogica l’art. 12, comma 2, della L. n. 212/2000, il quale riconosce il diritto della parte di essere informata della facoltà di farsi assistere ” … quando viene iniziata una verifica fiscale …”. Del pari inconferente si appalesa il richiamo, operato dal primo giudice, al principio di non contestazione, in quanto l’Agenzia delle Entrate, in sede di controdeduzioni in primo grado, ha dedotto che la documentazione esibita da controparte, relativa alle due autovetture di cui ai punti AU01 e AU02, non appariva idonea ad escludere le vetture dal calcolo del reddito sintetico”, ha correttamente applicato i principi giurisprudenziali in materia.
5.1. Ha osservato questa Corte che “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’inosservanza dei commi 1 e 3 dell’art. 12, L. n. 212 del 2000, funzionali ad assicurare un’equilibrata composizione delle contrapposte esigenze delle parti nell’espletamento della verifica, garantendo, da un lato, la necessaria efficacia all’attività ispettiva dell’ufficio, e dall’altro, la tutela dei diritti del contribuente sia come persona sia come soggetto economico, può determinare, pur in assenza di espressa previsione, la nullità del provvedimento impositivo solo qualora i verbalizzanti abbiano eseguito un accesso nei locali della impresa in difetto delle indicate esigenze di ricerca e rilevazione “in loco” e, dunque, non anche nell’ipotesi di verifica condotta in luoghi diversi, dovendosi valutare nei casi in cui l’effetto invalidante non sia espressamente previsto dalla legge, e alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza europea – che impone di verificare se la prescrizione normativa si riferisca o meno a circostanza essenziale per il raggiungimento dello scopo dell’atto – se la violazione abbia comportato una mera irregolarità dell’atto ovvero se sia idonea a determinarne l’invalidità. (Nella specie, la S.C. ha escluso la violazione dell’art. 12, commi 1 e 3, cit., sostenendo che il dovere informativo non dovesse pregiudicare l’attività ispettiva e di indagine successiva, quale la sottoposizione di questionari ai clienti del professionista, mentre l’attività ispettiva era stata motivata come verifica sostanziale a carattere generale, così da non dover essere ulteriormente giustificato l’esercizio del relativo potere-dovere istituzionale). (Cass. 22/01/2020, n. 1299; Cass. 21/01/2015, n. 992).
6. Il quinto ed ultimo motivo di ricorso, con cui parte ricorrente si lamenta dell’operato del Giudice di seconde cure per avere considerato non strumentale all’attività di impresa l’automezzo targato (…), bene in locazione finanziaria, solo perché non iscritto nel registro dei beni ammortizzabili e per aver quantificato in maniera spropositata e irragionevole il reddito derivante presuntivamente dal possesso degli automezzi indicati negli avvisi di accertamento, è inammissibile.
6.1. In primo luogo, il motivo attiene direttamente alla valutazione di merito compiuta dal giudice del gravame circa la prova addotta dal contribuente ai fini della dimostrazione dell’inerenza dell’autovettura rispetto alla propria attività lavorativa; si palesa pertanto inammissibile in quanto diretto ad ottenere una rivalutazione delle risultanze probatorie già sottoposte ai giudici di merito; la censura si riduce ad una richiesta di “diversa interpretazione, valutazione delle risultanze processuali e ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità” (Cass. n. 9097 del 07/04/2017; Cass. n. 29404 del 07/12/2017).
6.2. Di poi, la censura, invocando sia il vizio di violazione di legge che l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, non consente l’esame separato delle doglianze non distinguendosi, nel corpo del motivo, il capo afferente l’error in iudicando e quello afferente al difetto motivazionale.
Le Sezioni Unite (Cass. 06/05/2015, n. 9100) hanno chiarito che “In materia di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sé, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati“. Ancora, in precedenza, le SS.UU. (Cass. 01/10/2007, n. 20603) hanno affermato che “In tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poiché secondo l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità“. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il motivo non fosse stato correttamente formulato, in quanto la contraddittorietà imputata alla motivazione riguardava punti diversi della decisione, non sempre collegabili tra di loro e comunque non collegati dal ricorrente).
Nella fattispecie in esame, la formulazione del motivo non permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato, vieppiù che è del tutto obliterata la formulazione dei quesiti di diritto, richiesti dall’art. 366 bis cod. proc. civ. (ormai abrogato, ma ancora applicabile ratione temporis nella presente fattispecie), riferibili a tutti i suaccennati profili di doglianza, espressione di quel “momento di sintesi” che deve corredare la denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata.
7. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono il criterio della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese processuali che si liquidano in Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo art. 13, se dovuto.
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