CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, sentenza n. 3386 depositata il 6 febbraio 2024
Tributi – Imposta di registro – Avviso di liquidazione di maggior imposta – “Esterovestizione” di società – Regole di derivazione UE e OCSE – Modesta struttura organizzativa – Accoglimento
Fatti di causa
Con atto pubblico per notar L.D. di N del 3 agosto 2011 G.I. conferiva alla I.E. Ltd. (d’ora in poi I.), avente sede legale in Londra, beni immobili di sua proprietà siti in Italia, in esecuzione di un aumento di capitale deliberato dalla predetta società.
L’atto era assoggettato all’imposta di registro nella misura fissa prevista dalla disposizione agevolativa recata dall’art. 4, nota IV, della parte I della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 per il caso in cui la società destinataria del conferimento abbia sede legale o amministrativa in altro Stato membro dell’Unione Europea.
In data 26 maggio 2014 l’Ufficio di Napoli dell’Agenzia delle Entrate notificava alla I. e allo G.I. avviso di liquidazione di maggior imposta di registro con l’applicazione dell’aliquota proporzionale del 7% sul valore degli immobili conferiti, sul presupposto che la prefata società operasse solo apparentemente all’estero, avendo invece in Italia il centro principale dei suoi interessi.
Entrambi i contribuenti impugnavano l’atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, che con sentenza n. 9932/2014 del 26 settembre 2014 rigettava il ricorso.
L’appello successivamente proposto dalle parti private soccombenti veniva accolto dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania, che con sentenza n. 8088/29/16 depositata il 23 settembre 2016, in riforma della decisione gravata, annullava l’impugnato avviso di liquidazione, compensando fra le parti le spese dell’intero giudizio.
Rilevava il giudice regionale: – che in termini generali, grava sul Fisco l’onere di dimostrare l'”esterovestizione” di una società; – che, nel caso di specie, tale prova non era stata offerta dall’Ufficio.
Contro questa sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
La I. e lo G.I. hanno resistito con controricorso.
La causa è stata trattata all’udienza pubblica del 20 dicembre 2023.
In prossimità dell’udienza il Pubblico Ministero ha depositato memoria, con la quale ha chiesto di accogliere il primo motivo di ricorso, dichiarando assorbito o inammissibile il secondo.
Anche i controricorrenti hanno depositato sintetica memoria illustrativa, insistendo per il rigetto dell’avverso gravame.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., è denunciata la violazione degli artt. 2697 e 2728 c.c., dell’art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR) e dell’art. 115, comma 1, c.p.c..
1.1 Viene contestato alla CTR di avere, in contrasto con la presunzione legale relativa di “esterovestizione” dettata dall’art. 73, comma 5-bis, TUIR, erroneamente addossato all’Amministrazione Finanziaria l’onere di dimostrare che la I. non avesse la propria sede effettiva in Inghilterra.
1.2 Si deduce, in proposito: – che nell’avviso di liquidazione impugnato erano stati indicati una serie di elementi dai quali poter inferire che la prefata società londinese aveva la propria sede amministrativa in Italia, e precisamente a Napoli; – che, in particolare, nell’atto impositivo era stato evidenziato quanto segue: (a) la compagine sociale della I. era costituita da un unico socio di nazionalità italiana, G.I.; (b) lo stesso G.I. era l’amministratore unico della società; (c) nel 2011 la I. non aveva propri uffici in Inghilterra, né dipendenti ivi impiegati, e in bilancio non aveva indicato costi di gestione amministrativa; (d)i bilanci di esercizio da essa presentati in Inghilterra avevano rappresentato il “puro adempimento di un obbligo camerale, senza evidenza degli immobili ubicati in Italia, senza indicazione dei correlati ricavi da locazione e con evidenza di aumenti di capitale sottoscritti ma non ancora versati”; – che, pertanto, mentre l’Ufficio aveva fornito “piena prova” del fatto che la I. fosse amministrata in Italia, per contro, i contribuenti non avevano dimostrato un concreto radicamento nello Stato estero della direzione effettiva della predetta società; – che, in violazione dell’art. 115, comma 1, c.p.c., il giudice regionale ha fondato la decisione esclusivamente sull’atto costitutivo della società, dal quale emergeva che nell’anno 2011 era presente in Inghilterra una «segreteria diretta dal sig. Cinquegrana», trascurando di considerare che la presunzione di “esterovestizione” poteva essere superata solamente ove fosse stato accertato che le decisioni rilevanti per la gestione societaria venivano effettivamente assunte all’estero e che ivi risultavano fiscalmente residenti i suoi amministratori.
2. Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c., è lamentato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dalle dichiarazioni dei redditi presentate in Italia dalla I. in relazione agli anni d’imposta 2011, 2012 e 2013 e prodotte in atti dall’Agenzia delle Entrate nel giudizio di primo grado.
2.1 Si sostiene che tali documenti, non tenuti in alcun conto dalla CTR, assumevano un rilievo decisivo ai fini della soluzione della controversia, in quanto dimostravano la consapevolezza della società di avere nel territorio nazionale la propria stabile organizzazione.
3. Il primo motivo è fondato, nei termini che si vanno ad esporre.
3.1 Deve anzitutto rilevarsi che, contrariamente a quanto eccepito dai controricorrenti, la questione attinente alla lamentata violazione dell’art. 73, comma 5-bis, TUIR non può ritenersi nuova, avendo formato oggetto di uno dei motivi di appello da loro stessi articolati dinanzi alla CTR (il quarto e ultimo, richiamato a pag. 3 della sentenza impugnata).
3.2 Tanto premesso, va osservato che la citata disposizione normativa, introdotta dall’art. 35, comma 13, D.L. n. 223 del 2006, convertito in L. n. 248 del 2006, così recita: «Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa: a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato; b)sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato». I «soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1», ai quali essa fa riferimento, sono, rispettivamente: «a) le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le società europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato; b)gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali».
3.3 Come si ricava dal chiaro tenore testuale della norma in commento, il legislatore ha inteso limitare l’applicabilità della presunzione legale relativa di cd. “esterovestizione” ivi stabilita, subordinandola alla ricorrenza del duplice presupposto che la società avente sede all’estero, oltre a detenere la partecipazione di controllo in una società o in un altro ente commerciale residente in Italia, sia a sua volta controllata, anche indirettamente, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, c.c., da soggetti residenti nel territorio dello Stato ovvero amministrata da un consiglio di amministrazione composto in prevalenza di consiglieri residenti nel medesimo territorio. Lo stesso legislatore si è premurato di specificare che il controllo, anche solo indiretto, deve manifestarsi nelle forme previste dall’art. 2359, comma 1, c.c., in base al quale si considerano controllate: 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria (cd. controllo interno di diritto); 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria (cd. controllo interno di fatto); 3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
3.4 Sono questi i parametri normativi cui deve necessariamente farsi riferimento onde poter ritenere sussistente quello specifico rapporto fra soggetti distinti che può radicare, eventualmente, l’applicazione della disciplina dell’”esterovestizione” di cui all’art. 73, comma 5-bis, cit..
3.5 Ciò posto, deve rilevarsi che nella presente fattispecie, alla stregua delle stesse allegazioni dell’Agenzia e degli accertamenti fattuali compiuti dalla CTR, appare insussistente il primo fondamentale presupposto legale di operatività della cennata presunzione, non risultando che la I. detenga partecipazioni di controllo -secondo una delle modalità contemplate dall’art. 2359, comma 1, c.c. – in società o altro ente commerciale residente nel territorio dello Stato.
3.6 Sotto tale profilo, dunque, il motivo in disamina si rivela privo di fondamento.
3.7 Fermo quanto precede, occorre, però, tener presente che, giusta il disposto del comma 3 dello stesso art. 73 TUIR, «si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato».
Proprio su tale norma fa leva la tesi dell’Ufficio, il quale, muovendo dall’assunto che la I. abbia strumentalmente localizzato all’estero la propria residenza fiscale al solo scopo di poter fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa, ritiene che l’atto di conferimento immobiliare in discorso debba essere assoggettato all’imposta di registro calcolata in misura proporzionale sul valore dei beni conferiti.
3.8 Sull’argomento, è utile rammentare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, la ”sede dell’amministrazione“ -in quanto contrapposta a quella ”legale“, che rispetto ad essa costituisce criterio di collegamento paritetico e alternativo- va considerata coincidente con la ”sede effettiva“ della società, intesa, in senso civilistico, come il luogo di concreto svolgimento delle attività amministrative e di direzione della società e dove si convocano le assemblee, e cioè come il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l’accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari, in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (cfr. Cass. n. 1544/2023, Cass. n. 23150/2022, Cass. n. 11710/2022, Cass. n. 24872/2020, Cass. n. 15184/2019).
3.9 È bene, inoltre, sottolineare che il contrasto del fenomeno dell’esterovestizione societaria assume valenza di principio generale dell’ordinamento applicabile non soltanto alle imposte sui redditi -nel cui testo unico sono inserite le norme esaminate-, ma anche alle imposte indirette, trovando il suo fondamento nel diritto tributario europeo, nel dovere costituzionale di partecipare alla spesa pubblica e nelle regole di derivazione UE e OCSE (cfr. Cass. n. 2869/2013).
3.10 Giova, infine, evidenziare che la disciplina interna, tesa ad attribuire prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui la società ha la sua sede legale, non si pone in conflitto con la libertà di stabilimento.
Se ne trae conferma dalla sentenza della Corte di Giustizia 12 settembre 2006, C-196/04, C.S. e C.S.O., secondo la quale la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro dell’Unione Europea per fruire di una legislazione fiscale più vantaggiosa non costituisce di per sé abuso della libertà di stabilimento, fermo restando che una misura nazionale restrittiva di tale libertà è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad escludere l’applicabilità della normativa dello Stato membro interessato (cfr. Cass. n. 6476/2021); il che accade quando alla formale localizzazione della sede della società all’estero non corrisponde l’esercizio quivi di un’attività economica reale (cfr. Cass. n. 1753/2023, Cass. n. 26538/2022, Cass. n. 16679/2019, Cass. n. 2869/2013).
3.11 Entro queste coordinate giuridiche si colloca il precedente sezionale costituito dall’ordinanza n. 5537/2023, riguardante una fattispecie analoga a quella che qui ci occupa: nell’occasione, venne chiarito che l’impugnato avviso di liquidazione di maggior imposta di registro non si fondava su un’interpretazione riduttiva della nota IV dell’art. 4 della parte I della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, bensì sul disconoscimento, da parte dell’Agenzia delle Entrate, dello stabilimento in Inghilterra della sede legale della società destinataria del conferimento, reputato del tutto fittizio e strumentalmente volto a conseguire un indebito vantaggio tributario, in assenza di alcun collegamento effettivo con lo Stato estero. Il precitato arresto rileva che la direttiva 2008/7/CE, concernente le imposte indirette sulla raccolta dei capitali, all’art. 10, la cui rubrica fa espressamente riferimento alla distribuzione della potestà impositiva tra gli Stati membri, individua lo Stato al quale spetta il potere impositivo unicamente con quello ove è situata la sede della ”direzione effettiva“ della società al momento in cui è effettuato il conferimento.
Pertanto, prosegue tale decisione, la nota IV dell’art. 4 della tariffa del D.P.R. n. 131 del 1986, in base alla quale l’imposta di registro si applica in misura fissa (200 euro) agli atti di conferimento di beni immobili in favore di società con sede legale o amministrativa in un altro Stato membro dell’UE, si giustifica proprio perché la società avente sede legale o amministrativa, ”effettiva e non fittizia“, in altro Stato membro è in realtà soggetta al potere impositivo di quest’ultimo (conf. Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 2/E/2014, punto 3).
3.12 Venendo ora al caso in esame, va notato che, in base agli accertamenti in fatto compiuti dalla CTR: -«risulta ampiamente dimostrato un collegamento tra I. e l’Italia, come confermato proprio dall’operazione che ha portato all’emanazione dell’atto di imposizione impugnato; e ciò perché lo G.I., che risiede in Italia, non solo è l’amministratore unico della I., ma è anche il dominus della società SISA, che, sua volta, è socio unico della I.E.»; – lo G.I. è divenuto «anche formalmente» socio della I. «con la sottoscrizione dell’aumento del capitale, mediante il conferimento di propri immobili» alla predetta società.
3.13 Le surriferite circostanze sono state giudicate dalla Commissione «non … sufficienti a dimostrare (1) che lo G.I. dirige e gestisce la società dall’Italia, (2) che la sede londinese è fittizia e (3) che I., in realtà, non opera all’estero», in quanto l’Amministrazione Finanziaria non ha «provato nulla che smentisca l’esistenza nella sede legale londinese (Office 5 – 105 London Street, Reading, Berkshire, Regno Unito) di una segreteria diretta dal sig. Cinquegrana (come risulta invece dall’atto costitutivo della società), né ha dimostrato assenza di costi di gestione amministrativa (non avendo esibito il relativo bilancio)».
In breve, dalla ricostruzione fattuale operata dal giudice di secondo grado si evince che lo G.I., residente in Italia, era socio e amministratore unico della I., con sede nel Regno Unito, e che quest’ultima aveva come sola altra socia la propria controllante inglese SISA International INC., di cui lo stesso G.I. era il «dominus».
3.14 Pur in presenza di una pluralità di elementi suscettibili di essere apprezzati, sulla scorta di una valutazione d’insieme, come indicativi della contestata fittizietà della localizzazione della residenza fiscale dell’ente societario in altro Stato (all’epoca) membro dell’Unione Europea, detto giudice ha escluso la configurabilità di un’ipotesi di esterovestizione, attribuendo decisivo rilievo al riferimento contenuto nell’atto costitutivo della I. a un ufficio di segreteria esistente in Londra, diretto da tale Cinquegrana.
Sennonché, questa sola circostanza non risultava di per sé bastevole a dimostrare che nella capitale inglese fosse localizzata la sede «effettiva» della società, nei termini innanzi chiariti, tanto più ove si consideri: (1) che non erano state accertate eventuali spese iscritte in bilancio; (2) che la I. era stata costituita il 26 luglio 2011, ovvero appena otto giorni prima della stipula del menzionato atto pubblico per notar Di Persia, come si ricava dalle allegazioni svolte nell’odierna sede processuale dagli stessi contribuenti (pag. 2 del controricorso, lettera b); (3) che trattavasi di una “small company” (pag. 16 del controricorso, secondo periodo), cioè di una società dotata di una modesta struttura organizzativa.
3.15 Dalle esposte considerazioni appare, quindi, evidente come la CTR sia incorsa nella denunciata violazione delle norme in materia di presunzioni e di riparto dell’onere probatorio, secondo l’interpretazione che delle stesse è stata fornita dalla giurisprudenza di legittimità.
3.16 Sovviene, sul punto, il consolidato orientamento di questa Corte regolatrice, sintetizzato dalla seguente regula iuris: “In tema di prova per presunzioni, il giudice, posto che deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari, per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento” (cfr. Cass. n. 21035/2023, Cass. n. 6067/2023, Cass. n. 5374/2017, Cass. n. 23201/2015, Cass. n. 9108/2012).
Per quel che qui ancora residua d’utile, è stato, inoltre, precisato che la corretta attuazione del procedimento logico innanzi descritto deve trasparire dalla motivazione della sentenza, in quanto il giudice non può limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, essendo questo il solo contenuto “statico” della complessa dichiarazione motivazionale, ma deve impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto “dinamico” della dichiarazione stessa (cfr. Cass. n. 1974/2022, Cass. n. 32980/2018, Cass. n. 15964/2016, Cass. n. 1236/2006).
3.17 Nella specie, ferma l’inoperatività della presunzione legale relativa di cui all’art. 73, comma 5-bis, TUIR, è mancata da parte del giudice regionale una valutazione, prima analitica e poi globale, degli elementi indiziari raccolti – come emergenti dalla stessa motivazione della sentenza – e della loro idoneità a integrare una presunzione semplice di esterovestizione (ex art. 2729 c.c.), con conseguente spostamento sui contribuenti dell’onere della prova contraria.
4. Per le ragioni illustrate, va disposta, a norma dell’art. 384, comma 2, prima parte, c.p.c., la cassazione dell’impugnata sentenza con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, perché proceda a un nuovo esame della controversia uniformandosi ai princìpi di diritto sopra espressi e a quant’altro statuito con la presente pronuncia.
4.1 Al giudice del rinvio viene rimessa anche la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità, a mente dell’art. 385, comma 3, seconda parte, c.p.c..
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità.
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