CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, sentenza n. 5558 depositata il 1° marzo 2024
Tributi – Impugnazione avviso di accertamento – IRPEF – Attività lavorativa dipendente svolta all’estero – Residenza fiscale – Doppie imposizioni – Anagrafi della popolazioni residente – Accoglimento
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle entrate ricorre, con due motivi, contro T.C. avverso la sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione tributaria regionale della Puglia ha rigettato l’appello proposto dall’ufficio, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di accertamento, che rilevava in capo al contribuente per l’anno 2004 un reddito imponibile ai fini Irpef di Euro 33.123,37, con riferimento all’attività lavorativa dipendente svolta all’estero, irrogando la sanzione di Euro 14.993,38.
2. Il giudice di appello riteneva che il principio di tassazione su base mondiale dei redditi ovunque prodotti da soggetti residenti, di cui all’art.3 d.P.R. 22 dicembre 1986, n.917, doveva essere correlato con il concetto di residenza fiscale, di cui all’art.2 del citato decreto.
Secondo il giudice di appello, ai sensi di tale ultima norma, non erano considerati residenti coloro che non erano iscritti nelle anagrafi comunali dei residenti per un periodo di almeno 183 giorni, che non avevano nel territorio dello Stato italiano il domicilio, inteso come sede principale dei propri interessi, né la residenza o dimora abituale.
Riteneva la C.t.r. che la sussistenza di anche una sola delle menzionate condizioni era sufficiente a radicare la residenza fiscale in Italia.
Dunque, secondo il giudice di appello, nel caso di specie, in cui il contribuente aveva dimostrato di aver soggiornato più di 183 giorni in Kazakhstan, dove lavorava come dipendente di una azienda kazakha, non era pertinente il richiamo all’art.15 della Convenzione Italia -Repubblica del Kazakhstan contro le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali, né l’art.51, comma 8 bis, del T.u.i.r.
La C.t.r. concludeva, quindi, nel senso che il contribuente aveva pagato le imposte in Kazakhstan, dove era residente fiscalmente, e, non avendo alcun obbligo di dichiarazione in Italia, non poteva essere assoggettato ad alcuna sanzione per omessa dichiarazione.
3. Avverso il ricorso dell’Agenzia delle entrate, parte contribuente resiste con controricorso.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione degli artt.2, 3, 165 (ex art.15), 51 (ex art.48), d.P.R. 22 dicembre 1986, n.917 (T.u.i.r.), e dell’art.15 della Convenzione Italia – Repubblica del Kazakhstan contro le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali, sottoscritta a Roma il 22 settembre 1994, ratificata con legge n.174 del 12 marzo 1996 ed entrata in vigore il 26 febbraio 1997, 12 D.Lgs. 18 dicembre 1997, n.472, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.
La ricorrente rileva che nel caso di specie è pacifico che il contribuente abbia soggiornato in Kazakhstan oltre 183 giorni nell’annualità in contestazione; pertanto l’importo percepito a titolo di retribuzione dalla ditta estera era imponibile sia in Italia sia in Kazakhstan, ai sensi dell’art.15 della Convenzione.
Tale importo, a norma dell’art.3 T.u.i.r., doveva essere dichiarato in Italia, dove il contribuente era residente anche fiscalmente, in quanto aveva la sua abitazione principale (sua unica casa di proprietà), i propri legami familiare ed il centro dei propri interessi patrimoniali e sociali.
1.2. Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la violazione dell’art.112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n.4, cod. proc. civ.
Secondo la ricorrente, la C.t.r., nell’annullare l’atto impositivo anche con riguardo alle sanzioni, avrebbe omesso di pronunciarsi sulla specifica censura, contenuta nell’atto di appello, secondo cui parte contribuente per l’annualità in contestazione non aveva sollevato alcuna eccezione sul calcolo delle sanzioni.
2.1. Preliminarmente vanno rigettate le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla controricorrente sul presupposto della violazione dell’art. 366 cod. proc. civ, stante la proposizione di un ricorso generico e non autosufficiente.
Il ricorso contiene tutto quanto necessario a porre il giudice di legittimità in condizione di avere completa cognizione della controversia e del suo oggetto, nonché di cogliere il significato e la portata delle censure contrapposte. La ricorrente, inoltre, ha esplicitato quale sia, per la parte rilevante, il contenuto degli atti o dei documenti menzionati.
2.2. Passando all’esame del primo motivo di ricorso, esso è fondato e va accolto.
L’art.3 del T.u.i.r. prevede: “1. L’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato per i residenti da tutti i redditi posseduti e per i non residenti soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato, al netto degli oneri deducibili indicati nell’art. 10, nonché della deduzione spettante ai sensi dell’articolo 10-bis.
2. In deroga al comma 1 l’imposta si applica separatamente sui redditi elencati nell’art. 16, salvo quanto stabilito nei commi 2 e 3 dello stesso articolo”.
Solo per completezza va rilevato che l’art. 3, commi 1 e 3, lett. c) del d.P.R. n. 917/1986 – disposizione normativa rimasta in vigore fino al 31/12/2000 in forza dell’art. 38 della l. n 16/1998 – escludeva dall’imposizione i redditi derivanti da lavoro dipendente prestato all’estero (norma non applicabile ratione temporis al caso di specie).
Ai fini dell’applicazione dell’imposta nei confronti dei non residenti, l’art.23 T.u.i.r. (“Applicazione dell’imposta ai non residenti”) prevede che “si considerano prodotti nel territorio dello Stato “…” i redditi di lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato”.
Dunque, in materia di imposte sui redditi, la legislazione nazionale prevede che l’obbligazione tributaria gravi, in linea di principio, su tutti i possessori di reddito (art. 1 T.u.i.r.), residenti o meno nel territorio dello Stato (art. 2 T.u.i.r.). I soggetti residenti vengono incisi in base al criterio soggettivo dell’utile mondiale (nel senso che “l’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato, per i residenti, da tutti i redditi posseduti”, come precisa l’art. 3, par.1, T.u.i.r.), mentre per i soggetti non residenti il prelievo fiscale avviene in base al criterio oggettivo di “territorialità” della fonte del reddito (nel senso che il reddito complessivo imponibile per i non residenti è formato soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato).
In particolare, per i lavoratori dipendenti non residenti, il criterio di collegamento ai fini dell’attrazione dei redditi di lavoro dipendente nella potestà impositiva di uno Stato è costituito dal luogo in cui è svolta la prestazione lavorativa.
In tale ipotesi L’Italia, a seguito della Raccomandazione del Consiglio OCSE del 24 ottobre 1991, si è impegnata a seguire il cosiddetto “metodo della presenza fisica”, che tiene conto della effettiva durata dell’attività svolta nel territorio dello Stato dal lavoratore dipendente non residente (cfr. Cass. n.27278/2023).
Di conseguenza, per determinare il corretto regime fiscale della retribuzione e delle indennità corrisposte al lavoratore dipendente per il lavoro svolto all’estero non può prescindersi dalla individuazione della residenza fiscale del percipiente al momento della corresponsione e del luogo di svolgimento dell’attività lavorativa che ha dato causa alla erogazione degli emolumenti.
Per quanto riguarda la residenza fiscale, ai sensi dell’art.2 T.u.i.r., “1. Soggetti passivi dell’imposta sono le persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato.
2. Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.
2- bis. Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, individuati con decreto del Ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale “.
Tale articolo individua, perché sussista la residenza fiscale nello Stato, tre presupposti, indicati in via alternativa: il primo, formale, rappresentato dall’iscrizione nelle anagrafi delle popolazioni residenti, gli altri due, di fatto, costituiti dalla residenza o dal domicilio nello Stato ai sensi del codice civile; ne consegue che l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorché il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali (Cass. n. 13803 del 7/11/2001; Cass. n. 10179 del 26/6/2003; Cass. n. 14434 del 15/6/2010; Cass. 24246 del 18/11/2011; n. 29576 del 29/12/2011; n. 678 del 16/1/2015).
Passando alla disciplina convenzionale, l’art.4, comma 1, della Convenzione Italia – Kazakhstan a sua volta prevede: “1. Ai fini della presente Convenzione, l’espressione “residente di uno Stato contraente” designa ogni persona che, in virtu’ della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato, a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sua direzione, della sua costituzione o di ogni altro criterio di natura analoga. Tuttavia, tale espressione non comprende le persone che sono assoggettate ad imposta in questo Stato soltanto per il reddito che esse ricavano da fonti situate in detto Stato”.
Nel caso di specie, il contribuente non ha mai negato di essere residente in Italia, né ha contestato gli elementi rilevati dall’amministrazione finanziaria, quali la stabile residenza della famiglia del contribuente in Italia, la proprietà dell’unico immobile adibito a residenza familiare in Italia, l’accredito dei compensi derivanti dall’attività lavorativa prestata all’estero su conti correnti accesi presso istituti bancari italiani.
Inoltre, l’elemento evidenziato dal giudice di appello, della permanenza del contribuente in Kazakhstan per un periodo superiore a 183 giorni nell’anno, non vale di per sé ad escludere la sua residenza in Italia, in applicazione dei criteri enunciati in particolare dall’art.4 della Convenzione (cui la C.t.r., peraltro, fa espresso riferimento).
Dunque, nella specie viene in rilievo la disciplina convenzionale prevista dall’art. 15 per i lavoratori dipendenti, residenti in Italia, che svolgono la loro attività all’estero.
L’art. 15 della Convenzione Italia – Kazakhstan prevede:” 1. Salve le disposizioni degli articoli 16, 18, 19 e 20, i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato.
2. Nonostante le disposizioni del paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel primo Stato se:
a) il beneficiario soggiorna nell’altro Stato per un periodo e periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni in un periodo di dodici mesi che inizi o termini nel corso dell’anno fiscale considerato, e
b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente dell’altro Stato, e
c) l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato.
3. Nonostante le disposizioni precedenti del presente articolo, le remunerazioni percepite in corrispettivo di un lavoro subordinato svolto a bordo di navi o di aeromobili impiegati in traffico internazionale sono imponibili nello Stato contraente del quale è residente l’impresa esercente la nave o l’aeromobile”.
L’articolo, dunque, stabilisce che i salari che un residente di uno Stato riceve come corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili solo in detto Stato, salvo che l’attività non sia svolta nell’altro Stato contraente. In tale ultimo caso, la tassazione esclusiva nel Paese di residenza del percettore presuppone la coesistenza di tre requisiti:
1) il beneficiario soggiorna nell’altro Stato per un periodo non superiore a 183 giorni dell’anno fiscale;
2) le remunerazioni sono pagate da un datore di lavoro che non è residente nell’altro Stato;
3) l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione che il datore ha nell’altro Stato.
Al proposito, come più volte evidenziato da questa Corte, deve ricordarsi che la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (art. 31, comma 1) stabilisce che “un trattato deve essere interpretato in buona fede in base al senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto ed alla luce del suo oggetto e del suo scopo”.
Nell’interpretazione dell’art.15 della Convenzione (che sul punto riproduce i modelli predisposti dall’OCSE) assume importanza la differenza tra le ipotesi in cui espressamente è detto che la potestà impositiva è “soltanto” dello Stato di residenza e quelle in cui l’avverbio è omesso.
Sul rilievo da attribuire – in base ai criteri interpretativi dettati dall’art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati – alla presenza o meno, nelle singole disposizioni delle convenzioni contro le doppie imposizioni, dell’avverbio “soltanto”, al fine di stabilire la ripartizione della potestà impositiva tra gli Stati contraenti, questa Corte si è espressa con la sentenza n. 23984 del 2016 (alla cui ampia motivazione si rimanda), affermando, in tema di interpretazione dell’art. 17 della Convenzione tra Italia e Francia, che la presenza del “soltanto” non è affatto casuale, ma decisiva, in quanto, in assenza dell’avverbio, la potestà impositiva degli Stati contraenti è concorrente.
Il collegio ritiene, dunque, di superare il diverso orientamento espresso da questa Corte con la pronuncia n. 9725/21, secondo cui la Convenzione sarebbe chiara “nell’ancorare la potestà impositiva allo Stato di residenza solo se coincidente con quello in cui il lavoro viene esercitato”, dovendosi ritenere che il “soltanto” di cui al primo periodo sarebbe implicito anche nel secondo.
Alcuni commentatori, in senso critico, hanno rilevato che tale ultima interpretazione non è consentita dal testo dell’art.15 della Convenzione, secondo i comuni canoni ermeneutici, anche se la differenza tra le due previsioni della tassazione esclusiva o concorrente può essere maggiormente apprezzata nel testo della Convenzione in lingua tedesca ed inglese (in tale ultima versione, shallbe taxable only nel primo caso, may be taxed in that other State nel secondo).
Anche la citazione in Cass. n.9725/21 delle istruzioni al Mod. Unico 2009 (secondo cui “vanno dichiarati gli stipendi … percepiti da contribuenti residenti in Italia: … b) prodotti in un paese estero con il quale esiste convenzione contro le doppie imposizioni in base alla quale tali redditi devono essere assoggettati a tassazione sia in Italia sia nello Stato estero; …”), secondo taluni dei commentatori, sarebbe viziata, dallo stesso fraintendimento.
Nella specie, la convenzione Italia – Kazakhstan è redatta ufficialmente sia in italiano, sia in inglese, e nel testo inglese si legge shall be taxable only nel primo periodo, may be taxed in that other State nel secondo periodo.
Sebbene il Commentario Ocse 2017 all’articolo 15 non accenni esplicitamente alla tassazione concorrente (Paragraph 1 establishes the general rule as to the taxation of income from employment -other than pensions-, namely, that such income is taxable in the State where the employment is actually exercised), tuttavia, all’articolo 23, punti 6 e 7, ha chiarito che la mancanza dell’avverbio soltanto determina una tassazione concorrente tra i due Paesi contraenti (“6. Forsome items of income or capital, an exclusive right to tax is given to one of the Contracting States, and the relevant Article states that the income or apital in question “shall be taxable only” in a Contracting State. The words “shall be taxable only” in a Contracting State preclude the other Contracting State from taxing, thus doublé taxation is avoided. The State to which the exclusive right to tax is given is normally the State of which the taxpayer is a resident within the meaning of Article 4, that is State R, but in Article 192 the exclusive right may be given to the other Contracting State (S) of which the taxpayer is not a resident within the meaning of Article 4″.
“7. For other items of income or capital, the attribution of the right to tax is not exclusive, and the relevant Article then states that the income or capital in question “may be taxed” in the Contracting State (S or E) of which the taxpayer is not a resident within the meaning of Article 4. In such case the State of residence (R) must give relief so as to avoid the double taxation. Paragraphs 1 and 2 of Article 23 A and paragraph 1 of Article 23 B are designed to give the necessary relief”).
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr., da ultimo, Cass. n. 36679/2022) in materia di convenzioni per evitare le doppie imposizioni (ex plurimis Cass. 20/11/2019, n. 30140; Cass. 19/12/2018, n. 32842; Cass. 7/9/2018, n. 21865; Cass. 10/11/2017, n. 26638; Cass. 21/12/2018, n. 33218, relativa proprio all’interpretazione della “stabile organizzazione”), deve riconoscersi rilievo interpretativo – così come prevede la stessa convenzione di Vienna (cfr. la citata Cass. n. 23984 del 2016 e Cass. nn. 3367 e 3368 del 2002, n. 7851 del 2004 e n. 9942 del 2000, ivi richiamate) – sia al modello di convenzione approvato in ambito Ocse nel 1963, aggiornato nel 1977 ed oggetto via via di ulteriori emendamenti, sia al commentario Ocse al relativo modello, il quale, pur non avendo valore normativo, costituisce, comunque, una raccomandazione diretta ai paesi aderenti all’Ocse (Cass. 28/7/2006, n. 17206).
Anche nei documenti della prassi amministrativa si legge: “L’articolo 15 della citata Convenzione prevede, al paragrafo 1, che “i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato”. In sostanza, nella disposizione convenzionale sopra richiamata è prevista la tassazione esclusiva dei redditi da lavoro dipendente nello Stato di residenza del beneficiario, a meno che l’attività lavorativa, a fronte della quale sono corrisposti i redditi, sia svolta nell’altro Stato contraente: ipotesi in cui i predetti emolumenti sono assoggettati a imposizione concorrente in entrambi i Paesi “(Agenzia delle entrate – Risposta 27 settembre 2021, n. 626).
Pertanto, nella specie deve concludersi che, in base all’art.15, paragrafo 1, secondo periodo, della Convenzione tra Italia e Kazakhstan lo Stato della fonte esercita la potestà impositiva in regime di tassazione concorrente con quella dello Stato di residenza e che quest’ultimo deve garantire, con l’esenzione o il credito di imposta, l’eliminazione della doppia imposizione giuridica.
Può, dunque, enunciarsi il seguente principio di diritto: “In materia d’imposte sul reddito, l’art.15 della Convenzione Italia – Repubblica del Kazakhstan contro le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e per prevenire le evasioni fiscali, sottoscritta a Roma il 22 settembre 1994, ratificata con legge n.174 del 12 marzo 1996 ed entrata in vigore il 26 febbraio 1997, non esclude che il reddito percepito da un soggetto residente in Italia per il lavoro svolto in Kazakhstan, quale dipendente di una società di diritto kazako, pur essendo stato già tassato attraverso ritenute alla fonte nel Paese dove viene svolta la prestazione lavorativa, sia imponibile anche nello Stato di residenza del lavoratore e debba essere dichiarato, ferma la possibilità per il contribuente di portare in detrazione le imposte corrisposte all’estero, nella specie mediante il meccanismo del credito d’imposta previsto dall’art.165 T.u.i.r.“.
Per completezza, è anche il caso di precisare che quando il lavoratore dipendente, residente in Italia, presti la propria attività lavorativa all’estero per oltre 183 giorni nell’arco di 12 mesi, diventa applicabile l’art.51, comma 8-bis, d.P.R. n. 917/86, il quale prevede che la base imponibile del reddito da lavoro dipendente prestato all’estero sia determinata sulla base delle retribuzioni convenzionali, come definite annualmente con il Decreto del Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale di cui all’articolo 4, comma 1, del D.L. n. 317/87, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 398/87.
In caso di reddito determinato convenzionalmente in misura ridotta, in base a quanto previsto dall’articolo 51, comma 8-bis, d.P.R. n. 917/86, il lavoratore dipendente residente fruisce, per le imposte assolte all’estero, di un credito di imposta non in misura piena, ma proporzionale al reddito estero, che concorre alla formazione del proprio reddito complessivo.
Nel caso di specie, non è contestato che il contribuente non abbia presentato la dichiarazione dei redditi in Italia, rendendo inapplicabile il meccanismo previsto dall’art.51, comma 8-bis, d.P.R. n. 917/86.
Pertanto, il giudice di appello, nel ritenere che il contribuente non fosse residente fiscalmente in Italia e che non vi fosse la potestà impositiva concorrente dello Stato Italiano, ai sensi dell’art.15 della Convenzione, è incorso nella denunziata violazione della normativa nazionale e convenzionale.
2.3. Il secondo motivo è chiaramente inammissibile, in quanto non coglie la ratio della decisione di appello.
Invero la C.t.r. ha ritenuto che l’accertamento del reddito fosse illegittimo e che il contribuente non fosse incorso in alcuna omissione dichiarativa sanzionabile; pertanto, ha annullato integralmente l’avviso di accertamento, anche con riferimento alle sanzioni irrogate, per le quali è rimasta assorbita ogni questione relativa alla loro quantificazione.
3.1. Infine, in relazione alla violazione dell’art.6 l. n.212/2000, eccepita da parte controricorrente per la prima volta nel presente giudizio, essa è inammissibile sotto plurimi profili, in quanto non risulta avanzata nei precedenti gradi di giudizio e, comunque, è volta ad affermare la violazione di un generale obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, che non sussiste in tema di imposte dirette, come definitivamente chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n.24823/2015).
3.2. In conclusione il primo motivo di ricorso va accolto, dichiarato inammissibile il secondo, la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, in diversa composizione, cui è demandato di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiarato inammissibile il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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