Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio, sezione n. 5, sentenza n. 5566 depositata il 1° dicembre 2022
Processo tributario – Ritenute effettivamente operate dal sostituto e subite dal sostituito – Mancato riversamento all’erario da parte del sostituto – Responsabilità solidale – Non sussiste – Comunicazione di irregolarità – Impugnabilità – Sussiste.
Massima:
La responsabilità solidale, ai sensi dell’art. 35 d.P.R. 602/1973, tra sostituito d’imposta, contribuente che subisce la ritenuta sui compensi ricevuti, ed il sostituto, che corrisponde somme al percettore sulle quali è tenuto ad operare la ritenuta e riversarla all’erario, sussiste solo se la ritenuta sulle somme corrisposte non risulti versata all’erario da parte del sostituto e se non risulti subita dal contribuente sostituito. È ammissibile il ricorso originario concernente la diretta impugnabilità della comunicazione di irregolarità, notificata nel caso di specie, che l’Agenzia, Ris. A.E. 22 ottobre 2010 n. 110/E, ritiene non impugnabile perché non indicata nell’art. 19 d.lgs. 546/92 e costituente mero atto interlocutorio. Comunicazione ritenuta invece impugnabile dalla Corte in quanto manifestazione di una pretesa fiscale definita.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza n. 14717/3/2019, depositata in data 12.11.2019, la CTP di Roma respingeva il ricorso avanzato dal contribuente, M. T., contro la comunicazione di rettifica della dichiarazione, avente codice atto 01978091*** (anno di imposta 2015) emessa dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 36 ter del DPR 600/1973, recante il disconoscimento delle ritenute subite dal contribuente, indicate per un importo di euro 1.250,00 nell’apposito rigo del mod. Unico 2016, le quali pur essendo state operate, non risultavano regolarmente versate dal sostituto di imposta, XXXXXX SRL.
Il giudice di primo grado respingeva le ragioni del contribuente in quanto “Il principio di solidarietà di fronte al fisco obbliga il contribuente ad onorare la pretesa dell’Ufficio anche nel caso vi sia, come nella fattispecie, inadempimento del sostituto d’imposta.”, salva la possibilità, per il ricorrente, di agire in sede civile per la restituzione di quanto indebitamente trattenuto dalla società e da lui pagato in sua vece.
In data 06.06.2020, il contribuente proponeva appello contro la sentenza, chiedendo di dichiararne la nullità oltre alla illegittimità della comunicazione impugnata.
In data 24.06.2020, l’Agenzia delle Entrate si costituiva in giudizio con proprio atto di controdeduzioni attraverso il quale chiedeva di respingere l’appello, per la asserita inammissibilità del ricorso originario.
All’esito della odierna udienza pubblica la causa veniva trattenuta per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La questione preliminare fatta valere dall’Agenzia delle Entrate, non esplicitamente affrontata né decisa dalla commissione di primo grado, ma riproposta in questa fase del giudizio, inerente all’inammissibilità del ricorso originario, concerne la diretta impugnabilità o meno della comunicazione di irregolarità.
In proposito, se la prassi (Ris. AE 22 ottobre 2010 n. 110/E) ha sempre ritenuto dette comunicazioni non impugnabili (non sono indicate nell’art. 19 D.Lgs. 546/92 fra gli atti impugnabili), la giurisprudenza ha nel tempo assunto orientamenti contrastanti.
Da una parte la comunicazione è stata ritenuta non impugnabile in quanto atto interlocutorio volto a prevenire le controversie mediante la comunicazione al contribuente di situazioni che sembrano rilevanti per l’accertamento, in modo che esso possa presentare documenti o, in alternativa, riprendere il contraddittorio con l’Ufficio (Cass. 20 ottobre 2011 n. 21854, Cass. SU 24 luglio 2007 n. 16293 e Cass. SU 26 luglio 2007 n. 16428 e Cass. SU 26 luglio 2007 n. 16429).
Dall’altra, è stata ritenuta invece impugnabile in quanto manifestazione di una pretesa fiscale definita (Cass. 11 maggio 2012 n. 7344, Cass. 25 novembre 2005 n. 24975, ecc.).
Con la Sentenza 11 febbraio 2021 n. 3466, la Cassazione ha dato recentemente seguito e continuità a questo orientamento di maggior favore per il contribuente, ritenendo impugnabile la comunicazione di irregolarità ex art. 36 bis DPR 600/73 o art. 54 bis DPR 633/72 (ma analogo discorso vale per la comunicazione, come nel caso di specie, da controllo formale ex art. 36 ter DPR 600/73) sulla base dell’interpretazione garantista dell’art. 19 D.Lgs. 546/92, che individua gli atti impugnabili nel processo tributario.
Per la Suprema Corte, il contribuente può impugnare avanti alla Commissione tributaria provinciale competente, tutti quegli atti con cui l’AF comunica al contribuente stesso una pretesa tributaria ormai definita, anche se tale comunicazione non si conclude con una formale intimazione di pagamento, non avendo rilievo la formale denominazione dell’atto (Cass. 9 dicembre 2009 n. 25699).
Ciò non toglie che l’art. 19 cit. nella parte in cui prevede che “Il ricorso può essere proposto avverso: a) l’avviso di accertamento del tributo; b) l’avviso di liquidazione del tributo; c) il provvedimento che irroga le sanzioni; d) il ruolo e la cartella di pagamento; e) l’avviso di mora; e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’articolo 77 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni; e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all’articolo 86 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni; f) gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’ art. 2, comma 2; g) il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti; h) il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari; h-bis) la decisione di rigetto dell’istanza di apertura di procedura amichevole presentata ai sensi della direttiva (UE) 2017/1852 del Consiglio del 10 ottobre 2017 o ai sensi degli Accordi e delle Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni di cui l’Italia è parte ovvero ai sensi della Convenzione relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/436/CEE; i) ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie“, abbia natura tassativa, che comporta, non che gli atti ivi non indicati non siano impugnabili ma, più semplicemente, che non sono suscettibili di divenire definitivi se non impugnati.
In definitiva: a fronte della notifica di un atto fra quelli indicati nell’art. 19 D.Lgs. 546/92 (come, ad esempio, l’avviso di accertamento), il contribuente che vuole contestarlo deve impugnarlo nel termine perentorio di legge (60 giorni) e se non lo impugna l’atto diventa definitivo e non più contestabile.
A fronte della notifica, invece, di un atto diverso da quelli elencati (come appunto la comunicazione di irregolarità), il contribuente può impugnarlo ma la mancata impugnazione non determina la definitività dell’atto stesso.
Tale interpretazione non è nuova nella giurisprudenza della Suprema Corte, essendo già stato enunciato in relazione a diversi tipi di atti (Cass. 15 febbraio 2018 n. 3775, Cass. SU 16 gennaio 2015 n. 640, Cass. SU 5 maggio 2014 n. 9570, Cass. 5 ottobre 2012 n. 17010).
Questa commissione ritiene di dovere applicare al caso di specie tale ultima e più recente interpretazione giurisprudenziale, più favorevole al contribuente, e dunque respingere l’eccezione preliminare fatta valere da parte resistente, concernente l’asserita inammissibilità del ricorso in primo grado.
Con riferimento al merito, risultano condivisibili le ragioni dell’appellante.
L’istituto del sostituto di imposta è sancito dall’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973. È sostituto di imposta il soggetto obbligato al pagamento delle imposte in sostituzione di altri soggetti per determinate imposte sia al titolo di acconto che al titolo definitivo.
Con il termine sostituto d’imposta viene quindi definita la persona fisica o giuridica indicata dalla legge a sostituire il soggetto passivo principale di imposta nel rapporto con l’amministrazione finanziaria.
Il sostituto d’imposta diventa quindi, per definizione di legge, il debitore dell’imposta, fatto salvo il diritto di rivalsa sul “sostituito” mediante la trattenuta dell’ammontare dallo stesso dovuto all’amministrazione finanziaria.
Il sostituto d’imposta effettua ritenute a titolo di acconto o a titolo di imposta: nel primo caso la ritenuta costituisce un’anticipazione del tributo senza estinguere l’obbligazione tributaria del sostituito mentre nel secondo caso la ritenuta estingue l’obbligazione tributaria del sostituito in relazione al reddito cui si riferisce.
Come correttamente evidenziato dall’appellante occorre distinguere, nell’eventualità di mancato versamento delle ritenute di imposta, fra il caso in cui queste non siano state operate ed il caso in cui, come nel caso di specie, risultino effettuate, seppure, appunto, non versate all’Erario.
La solidarietà passiva tra sostituto e sostituito, ai sensi dell’art. 35 D.P.R. 602/1973, si verifica al ricorrere di due condizioni: non devono essere state effettuate le ritenute a titolo di imposta, nè devono essere stati effettuati i relativi versamenti.
Nel caso di specie non sussiste pertanto solidarietà fra sostituto e sostituito.
Nella fattispecie portata all’attenzione di questa commissione risulta come, correttamente, nel modello Unico il contribuente abbia detratto il valore della ritenuta d’imposta, che risulta effettivamente attuata dal sostituto, benché non ritualmente versata.
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza del 12 aprile 2019 n. 10378, riconoscendo la distinzione fra solidarietà e sostituzione nell’imposta, ha stabilito a tal proposito: «nel caso in cui il sostituto ometta di versare le somme, per le quali ha però operato le ritenute d’acconto, il sostituito non è tenuto in solido in sede di riscossione, atteso che la responsabilità solidale prevista dall’art. 35 D.P.R. n. 602/1973 è espressamente condizionata alla circostanza che non siano state effettuate le ritenute».
Ne consegue l’illegittimità dell’atto, originariamente impugnato, con il quale l’AF disconosceva le ritenute subite dal contribuente.
Con riferimento alle spese processuali si deve applicare il principio generale della soccombenza.
P.Q.M.
- In riforma della sentenza impugnata, annulla l’atto oggetto del ricorso in primo grado;
- condanna l’Agenzia alle spese dei due gradi, liquidate in ? 500,00 per ciascuno dei due gradi.
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