Gli Ermellini con sentenza n. 16445 del 11 aprile 2013 ha statuito l’illegittimità dell’impiego delle norme incriminatrici di diritto comune, estranea alle fattispecie tipizzate dal sistema penale tributario, al fine di perseguire condotte lesive degli interessi fiscali dello Stato. Sussiste infatti una specialità delle previsioni penali tributarie per la frode fiscale che, regolando condotte tipiche e riferendosi ad uno specifico ambito di intervento della repressione penale, esauriscono la pretesa punitiva statale. Lo ha ricordato la Suprema corte, con espresso riferimento a quanto già statuito dalle Sezioni unite (sent. n. 1235/11), e concludendo – nel caso di specie – che “qualora le irregolarità fiscali commesse durante il periodo d’imposta non integrino alcuna fattispecie criminosa di cui al DLgs. 74/2000, è illegittimo, attraverso la contestazione della fattispecie di cui all’art. 640 c.p., disporre il sequestro per equivalente, in funzione della successiva confisca, ex artt. 640-quater e 322-ter c.p.”.
Peraltro la riforma introdotta dal DLgs 74/2000 ha di fatto negato “autonoma rilevanza penale alle violazioni ‘a monte’ della dichiarazione stessa, non ancora produttive di danno reale ed effettivo per l’erario (v. S.U. 25 ottobre 2000 n. 27; Corte cost. 27 febbraio 2002, n. 49).” D’altra parte punire le violazioni “preparatorie” finalizzate ad una falsa dichiarazione (il momento di rilevanza penale della fattispecie di evasione) limiterebbe la ratio della norma che è anche quella di stimolare la resipiscenza del contribuente (in quel momento, prima della dichiarazione, ancora soltanto potenzialmente autore di frode) che venga scoperto nel corso del periodo di imposta.
Gli stessi giudici nella sentenza in oggetto hanno rilevato che «Le Sezioni unite di questa Corte (n. 1235/10) hanno recentemente affrontato il quesito se il sistema delle sanzioni penali in materia fiscale debba essere integrato con le fattispecie di diritto comune, talché le condotte non previste dalle norme speciali potrebbero comunque ricadere nell’ambito di applicazione di quelle generali; ovvero se esso costituisca un sistema autonomo ed esclusivo, con la conseguente irrilevanza penale dei fatti non espressamente tipizzati dalle disposizioni fiscali, sebbene astrattamente riconducibili a fattispecie incriminatrici di diritto comune.
3. Al riguardo la citata sentenza ha rilevato innanzitutto come il legislatore, in occasione della riforma introdotta con il DLgs. n. 74 del 2000, con una scelta di radicale alternatività rispetto al pregresso modello di legislazione penale tributaria, ha inteso abbandonare il modello del c.d. “reato prodromico” (caratteristico della precedente disciplina di cui al DL 10 luglio 1982, n. 429, conv. L 7 agosto 1982, n. 516), che anticipava la linea d’intervento repressivo già sulla fase “preparatoria” dell’evasione d’imposta, Ii favore della focalizzazione del disvalore sul momento dell’effettiva offesa degli interessi dell’erario. Questa strategia, come si legge nella relazione ministeriale, ha impuntato la reazione punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione; di contro, è stata negata autonoma rilevanza penale alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa, non ancora produttive di danno reale ed effettivo per l’erario (v. S.U 25 ottobre 2000 n. 27; Corte cost. 27 febbraio 2002, n. 49).
4. Ai fini della questione che ci interessa, assume particolare rilievo il DLgs. n. 74 del 2000, art. 6, che esclude la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo (artt. 2, 3 e 4 DLgs. cit). La disposizione mira ad evitare che le violazioni “preparatorie”, già autonomamente represse nel vecchio sistema, possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se a titolo di delitto tentato, quali atti idonei preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione. La ratio risiede nell’intenzione di stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta.
5. Sulla base di tale rilievo, le Sezioni unite hanno concluso che la negazione di un rapporto di specialità tra la fattispecie penale tributaria e quella comune di truffa aggravata ai danni dello Stato si porrebbe in palese contrasto con la linea di politica criminale e con la stessa ratio che ha ispirato il legislatore nel dettare le linee portanti della riforma introdotta con il DLgs. n. 74 del 2000. Ciò in quanto, se il legislatore individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica e il momento di rilevanza penale della fattispecie di evasione, espressamente escludendo che la soglia di punibilità possa essere “anticipata”, ai sensi dell’art. 56 c.p., anche nel caso di accertamento di irregolarità fiscali compiute nel corso del periodo d’imposta, non può recuperarsi l’illiceità penale della condotta preparatoria utilizzando un’ipotesi delittuosa comune contro il patrimonio, quale la truffa aggravata ai danni dello Stato (eventualmente anche sub specie di tentativo). A ragionare diversamente, si finirebbe con lo stravolgere il sistema di repressione penale dell’evasione fiscale, consapevolmente disegnato dalla riforma del 2000 su basi radicalmente diverse.
6. In favore della esclusività del sistema penale fiscale depone anche la disciplina del “condono fiscale” di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 8, comma 6, lett. c) e comma 12 (legge finanziaria 2003). Il ravvedimento del contribuente comporta l’esclusione della punibilità per i reati tributari di cui al DLgs. 10 marzo 2000, n. 74 e l’integrazione dei redditi e degli imponibili non determina obbligo di denunzia all’autorità giudiziaria, in quanto non costituisce notizia di reato. Emergono quindi due elementi che attestano come il legislatore abbia inteso escludere il concorso con il delitto di truffa ai danni dello Stato. In primo luogo, diversamente opinando, la non punibilità dei soli reati fiscali esporrebbe il contribuente alla responsabilità penale per truffa ai danni dello Stato, con l’effetto di disincentivare – anziché auspicare – il perseguimento delle finalità a cui l’intervento normativo è rivolto».
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