La Cassazione con la sentenza 8962 del 12 aprile 2013 e stata chiamata a dirimere una controversia attinente l’Irap ed ha chiarito che l’utilizzo del lavoro di terzi per la fornitura di tutti i necessari servizi (dalla telefonia al segretariato) in forma rilevante e non occasionale, ma continuativa, integra il presupposto dell’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata, previsto dall’articolo 2, comma 1, del Dlgs 446/1997, non rilevando che la struttura posta a sostegno e potenziamento dell’attività professionale del contribuente sia fornita da personale dipendente o da un terzo in base a un contratto di fornitura.
La vicenda ha inizio con la presentazione dell’istanza di rimborso Irap presentata da un professionista, che riteneva di svolgere la propria attività senza la cosiddetta autonoma organizzazione essenziale ai fini dell’imposizione del tributo.
L’Agenzia non si pronunciava nei termini facendo formare il silenzio diniego il contribuente ricorreva alla Commissione tributaria provinciale che accoglieva parzialmente le richieste del ricorrente, riconoscendo il rimborso per solo tre annualità, poichè lo stesso professionista aveva presentato istanza di condono per le altre annualità.
L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso in Commissione Tributaria Regionale ed il giudizio di quest’ultima ribaltava il giudizio di primo grado.
Nulla questio per le tre annualità per cui era stato chiesto il condono, i giudici di merito di secondo grado riconoscevano l’erogazione, da parte del professionista, di ingenti compensi a favore di terzi in diversi anni, come tra l’altro risultava dalle relative dichiarazioni dei redditi, circostanza che provava il carattere non occasionale delle prestazioni effettuate nei confronti del contribuente.
A sostegno della decisione veniva altresì evidenziato che il ricorrente era socio di minoranza e membro del consiglio di amministrazione della società che gli forniva le prestazioni di servizio di cui non aveva mai fornito la reale natura.
Il commercialista soccombente ricorreva per cassazione, adducendo nelle motivazioni che i giudici di merito non avevano tenuto conto dei documenti presentati comprovanti, invece, la mancanza dell’autonoma organizzazione dell’attività svolta, principio essenziale su cui si basa la pretesa impositiva.
Nel ricorso si lamentava la mancata considerazione, in entrambi i giudizi di merito, della documentazione prodotta per dimostrare che i compensi erogati alla società, di cui il contribuente era sia socio che membro del consiglio di amministrazione, erano da considerarsi come mero affitto del locale in cui egli svolgeva la professione e non anche il corrispettivo dei servizi organizzativi fornitigli dall’azienda.
Gli Ermellini hanno dichiarato il ricorso inammissibile ritenendo infondate le due motivazioni in esso contenute.
Per quanto concerne la doglianza relativa alla violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto nella sentenza dei giudici di merito il Collegio ha ritenuto che la questione sollevata dalla difesa investe solo il merito, estranea, pertanto, alla corretta applicazione delle norme di diritto, sostanziale e processuale, di competenza della Corte di cassazione.
In merito al secondo motivo del ricorso inerente la pretesa impositiva ai fini dell’Irap da parte dell’Agenzia delle Entrate che contestava al contribuente l’impiego di collaboratori per lo svolgimento dell’attività di commercialista e la fruizione dei locali della società di cui il professionista era sia amministratore sia membro del consiglio di amministrazione, circostanze che giustificano il presupposto della stabile organizzazione.
La copiosa giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di Irap, nonché l’orientamento costituzionale della Consulta fornito con la sentenza 156/2001, hanno più volte fornito chiarimenti in merito al presupposto impositivo dell’Irap basato sull’esercizio abituale della professione, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diversa dall’impresa commerciale che deve, necessariamente, essere autonomamente organizzata.
Va sottolineato che precedenti sentenze degli Ermellini hanno chiarito che il requisito dell’autonoma organizzazione va accertato dal giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità.
Con la sentenza in parola la Suprema Corte ribadisce, ai fini dell’applicazione dell’imposta regionale, il principio civil-tributaristico dell’inversione dell’onere della prova, secondo il quale spetta al contribuente provare che l’attività svolta non ricada nel campo d’applicazione dell’Irap che, come ricordano i giudici di legittimità, ricorre quando il professionista “a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che, secondo l'”id quod plerumque accidit”, costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”.
A fortiori, la sentenza della Cassazione 10151/2010 aveva chiarito che “il ricorso al lavoro di terzi per la fornitura di tutti i necessari servizi (dalla telefonia al segretariato) in forma rilevante e non occasionale, ma continuativa, integra il presupposto dell’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata, previsto dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, comma 1” aggiungendo inoltre che non rileva “che la struttura posta a sostegno e potenziamento dell’attività professionale del contribuente sia fornita da personale dipendente o da un terzo in base ad un contratto di fornitura”.
Per cui, secondo quanto statuito dalla Corte con i principi sopra esposti, il semplice impiego di lavoro altrui configura di per sé il requisito impositivo della stabile organizzazione.
Nella fattispecie oggetto della sentenza in esame, posto che il professionista aveva versato compensi con continuità e sistematicamente, per più annualità, in ragione dei servizi ricevuti dalla società di cui era amministratore e socio e non avendo provato ai giudici, di merito e di legittimità, la natura dei servizi ricevuti producendo nel ricorso opportuna documentazione, come lo statuto della società e le relative fatture dalle quali si poteva pacificamente evincere la natura della prestazione, si è visto legittimare la pretesa impositiva degli uffici finanziari che gli avevano negato il rimborso dell’Irap ed è stato condannato dalla Corte al pagamento delle spese di giudizio.
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