La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 17122 del 10 luglio 2013 ha stabilito che nel rito del lavoro, ai fini dell’esame della ritualità del ricorso introduttivo del giudizio, il giudice del merito è chiamato ad effettuare l’individuazione del petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale, attraverso l’esame complessivo dell’atto. Tale operazione – che deve compiersi anche d’ufficio e anche in grado di appello – va distinta da quella relativa alla rilevazione di eventuali carenze riguardanti elementi che il ricorrente ha l’onere di dedurre e provare per sostenere la fondatezza della propria domanda, cioè di elementi da configurare come mezzi di prova, la cui omessa specificazione, pur ponendosi in contrasto a quanto prescritto dall’art. 414 n. 5 cod. proc. civ., non comporta la nullità del ricorso introduttivo, bensì la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo, salva la possibilità di ricorrere all’esercizio dei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ. e dell’at. 437, secondo comma, cod. proc. civ., nel giudizio di appello.
I giudici della Corte Suprema ribadiscono l’orientamento per cui il licenziamento intimato in violazione dei requisiti formali previsti dall’articolo 2 della legge 604/66 nei rapporti assoggettati alla stabilità obbligatoria non è idoneo a produrre l’effetto estintivo del rapporto di lavoro.
Da questo assunto, la Cassazione deduce la conclusione che non sia applicabile il regime di tutela residuale ex articolo 8 della legge 604/66, seppure i requisiti dimensionali dell’impresa non superino le 15 unità, per cui al lavoratore compete unicamente un indennizzo risarcitorio, in alternativa alla riassunzione, in misura compresa tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Sulla scorta di queste considerazioni, la Suprema corte ha ribadito il principio per cui il datore di lavoro inadempiente è tenuto a un risarcimento del danno determinato, in buona sostanza, sulla base delle retribuzioni perdute dal lavoratore nel periodo ricompreso tra il recesso e la effettiva ricostituzione del rapporto, con la precisazione che, a tale fine, è necessario valutare che il dipendente non abbia tenuto un comportamento incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro.
Gli Ermellini, inoltre, hanno affermato che nei rapporti sottratti al regime della tutela reale il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all’art. 2 della legge n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 2 della legge n. 108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali e, in particolare, tra mancanza di forma scritta e mancata comunicazione dei motivi di recesso, richiesta dal lavoratore. Pertanto, in ipotesi di licenziamento viziato per la mancata comunicazione dei motivi del recesso richiesti dal lavoratore – non applicandosi la disciplina sanzionatoria dettata dall’art. 8 legge n. 604 del 1966 (propria della diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo), ma, comunque, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive – l’inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, eventualmente facendosi riferimento anche alle mancate retribuzioni, ma nella suddetta ottica.
Inoltre, nella ipotesi considerata, da un lato, non è necessaria – per dare rilievo, ai fini risarcitori, alla perdita delle retribuzioni conseguente al licenziamento – la costituzione in mora del datore di lavoro (mediante l’offerta formale delle prestazioni, pur occorrendo che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire il rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni lavorative) e d’altra parte, nella valutazione dell’imputabilità dell’inadempimento al datore di lavoro deve tenersi conto dalla intervenuta intimazione al lavoratore di un nuovo licenziamento, successivo alla sentenza di primo grado favorevole al lavoratore, effettuata, ancora una volta, in totale violazione dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966
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