CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 luglio 2013, n. 17122
Lavoro – Lavoro subordinato – Licenziamento – Omessa specificazione dei motivi – Richiesta del lavoratore – Conseguenze
Svolgimento del processo
1.- La sentenza attualmente impugnata, decidendo sull’appello principale della C. s.n.c. e sull’appello incidentale di F. V. avverso la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata n. 399/2008: 1) in parziale accoglimento dell’appello incidentale, determina in 700 euro l’ultima retribuzione globale di fatto mensile percepita dal V. prima del licenziamento; 2) in parziale accoglimento dell’appello principale e in applicazione della tutela obbligatoria ordina la riassunzione del V. nel termine di giorni tre o, in mancanza, il pagamento in suo favore del risarcimento del danno con il versamento di una indennità commisurata a tre mensilità dell’ultima retribuzione, come sopra determinata; 3) conferma per il resto la sentenza di primo grado.
La Corte d’appello di Napoli, per quel che qui interessa, precisa che:
a) sulla specifica domanda relativa alle differenze retributive va confermata la decisione del primo giudice in ordine alla riscontrata carenza di allegazione dei fatti posti a fondamento della pretesa e sull’essersi tale carenza riverberata sul difetto di prova, in quanto sul punto il ricorso introduttivo è privo della indicazione delle modalità di espletamento del rapporto di lavoro, poste a base della richiesta di differenze retributive;
b) in assenza dell’indicazione dell’esatto contenuto delle prestazioni e in considerazione dell’eccezione di nullità della controparte, il suddetto difetto di allegazione non è superabile né con l’esercizio dei poteri officiosi del giudice, né con prove orali e neppure con l’esame dei documenti prodotti in giudizio, che hanno natura di mezzi di prova diretti ad asseverare gli clementi già contenuti nel ricorso;
c) va confermata la statuizione dei primo giudice in merito all’inefficacia del licenziamento per mancata risposta della società alla richiesta del lavoratore di specificazione dei motivi, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966;
d) il giudice di primo grado ha, fra l’altro, ritenuto che andasse disposta la reintegrazione nel posto di lavoro, come richiesto dal lavoratore, perché il datore di lavoro non aveva provato la mancata sussistenza del requisito dimensionale;
e) tuttavia, è fondata la censura della C.. sulla inapplicabilità della tutela reale, in quanto dalla comunicazione di assunzione inoltrata il 7 luglio 2003 risulta che il numero dei dipendenti della società era pari a quattro;
f) a fronte di tale riscontro documentale avrebbe dovuto essere il lavoratore a provare il contrario e ciò non è avvenuto;
g) non essendo applicabile la tutela reale e non ricorrendo le ipotesi residuali di libera recedibilità, va applicata la tutela obbligatoria, il che comporta l’obbligo del datore di lavoro di riassumere il V. o, in mancanza, di risarcirgli il danno con il versamento di una indennità commisurata a tre mensilità dell’ultima retribuzione, ammontare che si reputa congruo rispetto alla modesta dimensione della azienda;
h) la sentenza di primo grado non ha precisato l’entità dell’ultima retribuzione mensile globale di fatto percepita dal lavoratore, deve essere quindi accolta la relativa censura dell’appellante principale e il suddetto importo va determinato in 700 euro mensili, sulla base delle dichiarazioni dell’interessato non contestate.
2.- Il ricorso di F. V., illustrato da memoria, domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, la C. s.n.c.
Motivi della decisione
I – Profili preliminari
1.- La società controricorrente deduce preliminarmente “la nullità e inammissibilità del ricorso per carenza di una valida procura speciale ad litem”, rilevando che mentre l’intestazione dell’atto indica la controparte come rappresentata e difesa dall’avv. F. R., che si dichiara procuratore domiciliatario di F. V. “in virtù di procura speciale a margine del presente ricorso”, detta procura non reca le complete generalità del suddetto legale, essendovi indicato soltanto il nome senza il cognome identificativo. Si sostiene che non può essere considerata valida la procura nel caso in cui nella stampigliatura della formula della procura manchi il cognome del difensore e che all’assenza dì tale indicazione non può supplire la presenza del nome del difensore che ha firmato l’autentica, trattandosi di una nullità insanabile.
L’eccezioni non è fondata. Va richiamato, al riguardo, il consolidato e condiviso orientamento di questa Corte secondo cui la procura a margine del ricorso per cassazione, sebbene priva dell’indicazione della generalità dei difensori, è validamente rilasciata allorché il dato carente possa senza incertezza desumersi dalla compiuta specificazione dei nomi dei difensori stessi, contenuta nell’intestazione dell’atto, nonché dalla sottoscrizione da essi apposta sia in calce a questo sia per autenticazione della firma della parte che ha rilasciato la procura (Cass. SU 1 giugno 2001, n. 7862; Cass. 27 febbraio 1979, n. 1281; Cass. 2 marzo 1981, n, 1218; Cass. 29 ottobre 1983 n.6455; Cass. 14 giugno 1990 n. 5799; Cass. 24 febbraio 1988 n. 1992; nonché nello stesso senso Cass. 18 aprile 2000 n. 4991; Cass. 10 aprile 2000 n. 4495; Cass. 26 settembre 2002, n. 13979; Cass. 19 luglio 2008, n. 20061; Cass. 14 aprile 2010, n. 8903; Cass. 28 luglio 2010, n, 17629; secondo cui la mancanza del nome dei difensore nella procura ad litem non determina la nullità dell’atto quando, avuto riguardo agli altri riferimenti in esso contenuti ed al contesto in cui esso è inserito, non possa sorgere alcun ragionevole dubbio sulla individuazione del difensore e sulla legittimazione del medesimo alle attività processuali da lui compiute).
In applicazione al suddetto indirizzo, nella specie la procura – che non risulta del tutto priva dell’indicazione delle generalità del difensore, ma solo sfornita della menzione del cognome diquesti, pur essendovi indicato il nome dell’avvocato (F.), peraltro assolutamente poco comune – deve ritenersi validamente conferita all’avvocato F. R. indicato nell’epigrafe del ricorso come destinatario della procura a margine dell’atto, il quale ha apposto la sua sottoscrizione sia in calce al ricorso, sia per autenticazione della firma della parte che ha rilasciato la procura stessa.
II – Sintesi dei motivi di ricorso
1.- Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., degli artt. 2 e 8 della legge n. 604 del 1966 e degli artt. 18 e 35 della legge n. 300 del 1970; b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. insufficiente e contraddittoria motivazione.
Si sostiene che la Corte d’appello abbia errato nell’individuazione delle conseguenze risarcitorie del licenziamento, esattamente configurato come inefficace, perché ha dato rilievo al tipo di tutela applicabile in relazione al requisito dimensionale anziché applicare le comuni regole dell’inadempimento contrattuale.
In tal modo la Corte partenopea avrebbe violato l’art. 2 della legge n. 604 del 1966 che impone di ricondurre l’ipotesi di mancata tempestiva comunicazione dei motivi del recesso richiesti dal lavoratore – al pari dell’ipotesi della mancanza della forma scritta del licenziamento – ad un regime di nullità di diritto comune, non consentendo di ricorrere all’applicazione del successivo art. 8 della stessa legge n. 604 del 1966, testualmente riferito alle ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo.
Se la Corte partenopea avesse correttamente interpretato la normativa, sulla base dell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità (spec. Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508), avrebbe sicuramente riconosciuto al lavoratore il diritto di percepire le retribuzioni contrattualmente dovutegli dal momento del licenziamento sino all’effettiva reintegra, data la persistenza del vincolo contrattuale (desumibile dall’offerta della prestazione lavorativa da parte dell’interessato) e l’imputabilità dell’inadempimento alla datrice di lavoro, ulteriormente aggravata dalla irrogazione al ricorrente di un nuovo licenziamento dopo la sentenza di primo grado, ancora una volta in totale violazione dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966.
2- Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 345 e 416 cod. proc. civ., del combinato disposto degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. nonché dell’art. 2697 cod. civ.; b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. insufficiente e contraddittoria motivazione.
Si contesta la decisione della Corte partenopea di ritenere ammissibile la doglianza spiegata dalla società C. in merito alla non applicabilità della tutela reale di cui all’art. 18 St. lav., in riforma della sentenza di primo grado, senza tenere conto della rituale eccezione di inammissibilità del lavoratore proposta per violazione da parte della società dell’art. 345 cod. proc. civ., che non aveva in precedenza formulato alcuna contestazione sul punto e sulla conseguente pretesa di reintegra nel posto di lavoro.
La prima contestazione al riguardo la società l’ha effettuata nell’atto di appello, oltretutto facendo riferimento alla comunicazione di assunzione inoltrata il 7 luglio 2003 – cui anche la Corte territoriale ha fatto rinvio – che sebbene fosse in atti non era mai stata precedentemente richiamata nelle difese della società.
Sulla base di tale documento – che si sostanzia in una dichiarazione unilateralmente predisposta e indirizzata dalla C. al Centro per l’Impiego competente per territorio e come tale non può avere valore probatorio in favore della società stessa – la Corte ha ritenuto di porre a carico del lavoratore l’onere di fornire la prova del contrario.
3.- Con il terzo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 414 cod. proc. civ. e dell’art. 1362 cod. civ.; b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. insufficiente e contraddittoria motivazione.
Si contesta la decisione della Corte napoletana di rigetto della domanda del lavoratore relativa alle differenze retributive.
Si precisa, al riguardo, che nel ricorso introduttivo il V., lamentando di aver ricevuto un trattamento economico inadeguato, aveva quantificato complessivamente la somma pretesa specificando analiticamente le singole spettanze e i relativi titoli.
La “carenza di allegazione” rilevata dalla Corte partenopea appare del tutto immotivata e comunque in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, dalla quale si desume che la nullità del ricorso introduttivo sul punto è sanabile se la controparte non l’ha tempestivamente eccepita (come accade nella specie) e che nel processo del lavoro le parti concorrono a delineare la materia del contendere
III – Esame delle censure
4.- In ordine logico verranno esaminati, prima il terzo motivo, poi il primo e per ultimo il secondo motivo.
5.- Il terzo motivo va accolto per le ragioni di seguito precisate.
5.1.- In base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte nel rito del lavoro per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto che ne costituiscono il fondamento non è sufficiente che taluno di tali elementi non venga formalmente indicato, ma è necessario che attraverso l’esame complessivo dell’atto – che compete al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione – sia impossibile l’individuazione esatta della pretesa dell’attore e il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa (Cass. 9 maggio 2012, n. 7097; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3126; Cass. 23 marzo 2004, n. 5794; Cass. 25 luglio 2001, n. 10154; Cass. 1 marzo 2000, n. 2257; Cass. 1 luglio 1999, n. 6714; Cass. 29 gennaio 1999, a 817; Cass. 27 febbraiol998, n. 2205; Cass. 27 aprile 1998, n. 4296).
In applicazione a tali indirizzi la suddetta nullità è stata esclusa, con riferimento ad ipotesi di domande aventi ad oggetto spettanze retributive:
a) allorché l’attore abbia indicato il periodo di attività lavorativa, l’orario di lavoro, l’inquadramento ricevuto ed abbia altresì specificato la somma complessivamente pretesa e i titoli in base ai quali vengono richieste le spettanze, rimanendo irrilevante la mancata formulazione di conteggi analitici o la mancata notificazione, con il ricorso, del conteggio prodotto dal lavoratore (vedi, per tutte: Cass. 8 febbraio 2011, n. 3126 cit; Cass. 7 gennaio 2003, n. 41; Cass. 20 gennaio 1999, n. 817);
b) qualora l’attore abbia indicato i titoli delle spettanze retributive richieste, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esaurientemente le proprie difese, restando a tal fine irrilevante la mancanza di un’originaria quantificazione monetaria delle suddette pretese, anche in considerazione della facoltà dell’attore medesimo di modificarne l’ammontare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine alla individuazione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere (Cass. 24 ottobre 2008, n. 25753; Cass., 20 marzo 2004, n. 5649; Cass. 5 ottobre 2002, n. 14292);
c) se il giudice del merito abbia ritenuto che il ricorso introduttivo non consentisse di individuare gli estremi della domanda – sul rilievo che in esso non veniva indicato quale fosse in concreto il tipo di rapporto di dipendenza dedotto e non venivano precisate le relative modalità operative – avendo questa Corte, viceversa, precisato che il ricorso introduttivo, contenendo l’indicazione in cifra di vari crediti retributivi riferiti tutti a titoli tipici ed esclusivi di un rapporto dì lavoro subordinato, era da considerare conforme all’art. 414 cod. proc. civ., in quanto le suddette indicazioni dovevano considerarsi sufficienti a configurare il petitum e il thetna decidendum, mentre le carenze rilevate dal giudice del merito riguardavano elementi che il ricorrente aveva l’onere di dedurre e provare per sostenere la fondatezza della propria domanda (Cass. 25 luglio 2001, n. 10154 cit.), cioè elementi da configurare come mezzi di prova, la cui omessa specificazione si pone in contrasto a quanto prescritto dall’art. 414 n. 5 cod. proc. civ. ma non comporta la nullità del ricorso introduttivo, bensì la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo (Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass. 22 luglio 2009, n. 17102);
d) nell’ipotesi in cui il giudice del merito, in sede di appello, possa trarre elementi di conforto del proprio convincimento positivo circa la sufficienza degli elementi contenuti nel ricorso dal rilievo che essi consentirono al giudice di primo grado di impostare e svolgere l’istruttoria ritenuta necessaria per la decisione della controversia (Cass. 16 luglio 2002, n. 10316; Cass. 9 maggio 2012, n. 7097 cit.), ciò in quanto l’individuazione del petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale, attraverso l’esame complessivo dell’atto introduttivo del giudizio, deve compiersi anche d’ufficio e anche in grado di appello (Cass. 18 giugno 2002, n. 8839; Cass. 13 novembre 2001, n. 14090; Cass. 27 aprile 1998, n. 4296);
e) allorché il ricorrente abbia fatto riferimento agli atti allegati al ricorso introduttivo, qualificati come parte integrante dello stesso, visto che, in tale ipotesi, l’accertamento del giudice del merito deve estendersi, con eguale profondità, al contenuto degli allegati richiamati, i quali, specialmente se di natura tecnica, costituiscono lo strumento necessario a manifestare compiutamente la volontà posta a base della domanda giudiziale, sicché il giudice del merito deve motivare le conclusioni delle sue indagini, indicando le ragioni per cui elementi, quali quelli anzidetti, pur astrattamente idonei, non siano stati ritenuti concretamente sufficienti a condurre ad una diversa determinazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che la decisione non si sottragga al sindacato di legittimità (Cass. 19 maggio 2009, n. 11599; Cass. 28 luglio 2005, n, 15802; Cass. 21 settembre 2004, n. 18930).
5.2.- Dall’insieme dei su riportati orientamenti si desume che il criterio generale cui sono ispirati è quello secondo cui Tatto introduttivo del giudizio deve essere interpretato – sulla base del generale principio di conservazione dell’atto al raggiungimento del proprio scopo, che governa tutte le nullità anche processuali – alla luce dei principi regolatori del giusto processo di cui all’art. Ili Cost. e, in particolare, della garanzia del diritto di difesa, sancita anche dall’art. 24 Cost.
Ciò vale, a maggior ragione nel rito del lavoro i cui principi informatori (come si desume fin dalla legge istitutiva 11 agosto 1973 n 533) sono finalizzati soprattutto all’esigenza di tenere conto delle peculiari caratteristiche dei rapporti sottostanti – nei quali il lavoratore si configura come il contraente più debole, tanto più in caso di licenziamento – tanto che il rigoroso sistema di preclusioni in esso previsto in materia di produzioni probatorie trova un contemperamento – ispirato alla esigenza di coniugare il principio dispositivo con la ricerca della verità materiale – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ. e dell’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., nel giudizio di appello (Cass. 2 ottobre 2009, n. 21124; Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577).
Dalla sentenza attualmente impugnata risulta che la Corte partenopea – confermando sul punto la sentenza di primo grado – ha ritenuto la specifica domanda del V. relativa alle differenze retributive carente di allegazione dei fatti posti a fondamento della pretesa per il fatto che nel ricorso introduttivo non sarebbero state indicate le modalità di espletamento del rapporto di lavoro, poste a base della richiesta di differenze retributive. Tale carenza ha portato la Corte territoriale ad accogliere l’eccezione di nullità parziale del ricorso introduttivo avanzata dalla controparte, sull’assunto dell’insuperabilità del suddetto difetto di allegazione né con l’esercizio dei poteri officiosi del giudice, né con prove orali e neppure con l’esame dei documenti prodotti in giudizio, che avrebbero natura di mezzi di prova diretti ad asseverare gli clementi già contenuti nel ricorso.
Dalla lettura del ricorso introduttivo – necessaria anche in questa sede, dato il tipo di censura prospettato (arg. ex Cass. SU 22 maggio 2012, n. 8077; Cass. 13 agosto 2004, n. 15817) – risulta che la Corte d’appello, con la suddetta motivazione, si è discostata dai suindicati principi affermati da questa Corte, in quanto nel ricorso introduttivo risulta che sono stati indicati dati sufficienti per escludere la nullità dell’atto in ordine alla domanda volta ad ottenere le spettanze retributive per lavoro ordinario, straordinario, notturno e festivo con relative maggiorazioni nonché per indennità di malattia ed altro. Il V., infatti, ha specificato l’inquadramento ricevuto (pompista comune senza responsabilità di cassa o alternativamente, in base ai turni stabiliti dal datore di lavoro, addetto all’erogazione dì carburante), ha offerto una quantificazione delle diverse voci retributive in oggetto, rinviando ad un conteggio analitico allegato e chiedendo la quantificazione, con CTU contabile, solo per l’indennità relativa al periodo di comporto.
È, pertanto, evidente che l’esame complessivo dell’atto – di competenza del giudice del merito – è censurabile in questa sede in quanto effettuato – e motivato – in modo totalmente difforme dai criteri elaborati al riguardo dalla giurisprudenza di legittimità, essendo il ricorso in oggetto formulato in modo tale da consentire l’individuazione esatta della pretesa dell’attore onde porre la società convenuta in condizione di apprestare una compiuta difesa.
In questa situazione, non è condivisibile neppure l’assunto della Corte partenopea secondo cui né l’esercizio dei poteri officiosi del giudice, né prove orali e neppure l’esame dei documenti prodotti in giudizio avrebbero potuto essere utilizzati per sopperire alle riscontrate carenze del ricorso introduttivo.
Tale assunto, infatti, si basa sull’erronea premessa di configurare la rilevata mancata indicazione delle modalità di espletamento del rapporto di lavoro come insuperabile “difetto di allegazione e prova” del diritto alle richieste differenze retributive, mentre da una corretta lettura del ricorso introduttivo si desume che, in realtà, la Corte d’appello, ai fini dell’esame della ritualità del ricorso introduttivo del giudizio, era chiamata ad effettuare l’individuazione del petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale, attraverso l’esame complessivo dell’atto.
Tale operazione – che deve compiersi anche d’ufficio e anche in grado di appello, come si è detto (Cass. 18 giugno 2002, n. 8839; Cass. 13 novembre 2001, n. 14090; Cass. 27 aprile 1998, n. 4296 cit.) – deve essere distinta da quella relativa alla rilevazione di carenze riguardanti elementi che il ricorrente ha l’onere di dedurre e provare per sostenere la fondatezza della propria domanda (Cass. 25 luglio 2001, n. 10154 cit), cioè di elementi da configurare come mezzi di prova, la cui omessa specificazione, pur ponendosi in contrasto a quanto prescritto dall’art. 414 n. 5 cod. proc. civ., non comporta la nullità del ricorso introduttivo, bensì la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo (Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass. 22 luglio 2009, n. 17102 cit.), salva la possibilità di ricorrere all’esercizio dei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ. e dell’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., nel giudizio di appello (Cass. 2 ottobre 2009, n. 21124; Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577 cit.).
6.- Anche il primo motivo merita accoglimento, per quanto di seguito precisato.
6.1.- La questione in esso affrontata è quella delle conseguenze del licenziamento inefficace -per mancata comunicazione dei motivi, richiesta dal lavoratore – nei rapporti assoggettati alla stabilità obbligatoria.
Tale questione è stata oggetto di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, delineatosi per effetto di Cass. 23 dicembre 1996, n. 11497, che discostandosi dalla giurisprudenza prevalente, aveva ritenuto applicabile all’ipotesi di mancata tempestiva comunicazione dei motivi di recesso anziché la disciplina della nullità del licenziamento quella sui licenziamenti individuali, con conseguente obbligo di riassunzione o, in alternativa, corresponsione dell’indennità a ristoro del danno subito, come previsto (e nella misura stabilita) dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966.
Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508 – in sede di composizione di tale contrasto – ha affermato il principio secondo cui “nei rapporti sottratti al regime della tutela reale di cui all’art. 18 legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1 legge n. 108 del 1990, il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all’art. 2 legge n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 2 legge n. 108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto di lavoro, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali inficiami l’atto e, in particolare, senza che possa ritenersi applicabile al vizio della mancata comunicazione dei motivi del recesso richiesti dal lavoratore la disciplina sanzionatoria dettata dall’art. 8 legge n. 604/66 cit. per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo; tuttavia, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l’inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, eventualmente facendosi riferimento anche alle mancate retribuzioni, ma nella suddetta ottica”.
Tale principio è rimasto fermo nella giurisprudenza di questa Corte attraverso molteplici applicazioni, tutte basate sulla premessa secondo cui nei rapporti sottratti al regime della tutela reale il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all’art. 2 della legge n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 2 della legge n.108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali e, in particolare, tra mancanza di forma scritta e mancata comunicazione dei motivi di recesso, richiesta dal lavoratore.
È stato così affermato che nella suindicata situazione:
a) non si possono fare distinzioni tra i diversi vizi formali, ritenendo applicabile a quello derivante dalla mancata comunicazione dei motivi del recesso la disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 8, legge n. 604 del 1996; tuttavia, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive, l’inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, ma solo il diritto al risarcimento del danno, che va determinato secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni ed eventualmente quantificato in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso alla data della pronuncia che ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento (Cass. 18 agosto 2003, n. 12079);
b) non è applicabile la disciplina sanzionatoria dettata dall’art. 8 legge n. 604 del 1966 per la diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, ma, nel caso di difetto di attuazione della prestazione lavorativa imputabile al datore di lavoro, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, normalmente quantificabile con riferimento alle retribuzioni perse. Per la determinazione di tale danno deve essere valutata sia l’incidenza di un eventuale successivo licenziamento formale idoneo a produrre ex nunc effetti risolutivi del rapporto, sia la tempestiva deduzione dell’aliunde perceptum. Pertanto il datore di lavoro non può essere condannato al pagamento delle “retribuzioni medio tempore non corrisposte”, senza attribuire rilevanza alla successiva intimazione formale del licenziamento e senza esaminare la deduzione in appello dell’aliunde perceptum, con richiesta di prova in riferimento al periodo successivo al giudizio di primo grado (Cass. 8 giugno 2005, n. 11946);
c) non è necessaria – per dare rilievo, ai fini risarcitori, alla perdita delle retribuzioni conseguente al licenziamento – la costituzione in mora del datore di lavoro, mediante l’offerta delle prestazioni, occorrendo tuttavia che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire il rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni lavorative (Cass. 18 maggio 2006, n. 11670; Cass. 18 febbraio 2003, n. 2392);
d) la conseguenza del fatto che il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all’art. 2 della legge n. 604 del 1966 e succ. mod. non produce effetti sulla continuità del rapporto – che deve pertanto considerarsi mai interrotto – consiste, per i rapporti non rientranti nell’area della tutela reale, nel riconoscimento al lavoratore del diritto al risarcimento del danno, determinabile secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, anche facendo eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute ma sempre considerando che la natura sinallagmatica del rapporto richiede ai fini dell’adempimento dell’obbligazione retributiva che siano messe a disposizione le operae e, cioè, che vi sia l’offerta, della prestazione lavorativa, mediante formale costituzione in mora o, comunque, con altra modalità (Cass. 30 agosto 2010, n. 18844);
e) il licenziamento intimato oralmente è radicalmente inefficace, per inosservanza dell’onere della forma scritta, imposto dall’art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall’art. 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando, ai fini di escludere la continuità del rapporto stesso, né la qualità di imprenditore dei datore di lavoro, né il tipo di regime causale applicabile (reale od obbligatorio), giacché la sanzione ivi prevista non opera soltanto nei confronti dei lavoratori domestici e di quelli ultrasessantenni (salvo che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto), sicché la radicale inefficacia del licenziamento orale prescinde dalla natura stessa del recesso, trovando applicazione l’ordinario regime risarcitone con obbligo di corrispondere, trattandosi di rapporto di lavoro in atto, le retribuzioni non percepite a causa dell’inadempimento datoriale (Cass. 10 settembre 2012, n. 15106; Cass. 1 agosto 2007, n. 16955).
6.2.- La Corte partenopea, pur muovendo dall’esatta duplice premessa che il licenziamento del V. deve considerarsi inefficace – per mancata risposta della società alla richiesta del lavoratore di specificazione dei motivi, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966 – e che al rapporto di lavoro in oggetto va applicata la tutela obbligatoria, tuttavia nel determinare le conseguenze risarcitone di tale licenziamento si è discostata dai principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte e su riportati.
Dalla sentenza risulta, infatti, che la Corte territoriale ha a tal fine, erroneamente, dato rilievo al tipo di tutela applicabile in relazione al requisito dimensionale anziché applicare le comuni regole dell’inadempimento contrattuale, facendo, in particolare, riferimento al generale regime della nullità del contratto a prestazioni corrispettive richiamato da Cass. SU 27 luglio 1999, n. 508 e dalla successiva giurisprudenza ad essa conforme.
Come rilevato dal ricorrente, se la Corte d’appello avesse correttamente applicato la suindicata disciplina avrebbe dovuto affermare l’obbligo della società C. di corrispondere al lavoratore – trattandosi di rapporto di lavoro ancora in atto – le retribuzioni non percepite a causa dell’inadempimento, non potendo nutrirsi dubbi sulla persistenza del vincolo contrattuale (desumibile dall’offerta della prestazione lavorativa da parte dell’interessato) e sull’imputabilità dell’inadempimento alla datrice di lavoro, il cui comportamento avrebbe dovuto essere valutato anche tenendo conto dalla intimazione al ricorrente di un nuovo licenziamento, dopo la sentenza di primo grado del presente giudizio, ancora una volta effettuata in totale violazione dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966.
7.- All’accoglimento del primo motivo consegue il rigetto del secondo motivo di ricorso.
Infatti, la questione riguardante la contestazione dell’ammissibilità della doglianza spiegata in appello dalla società C.. in merito alla non applicabilità della tutela reale di cui all’art. 18 St. lav. – affrontata dal ricorrente nel secondo motivo – è, all’evidenza, da considerare del tutto superata dalla soluzione data alla questione della conseguenze del licenziamento inefficace – per mancata comunicazione dei motivi, richiesta dal lavoratore – nei rapporti assoggettati alla stabilità obbligatoria, su cui poggia l’accoglimento de! primo motivo.
IV – Conclusioni
8.- In sintesi, il ricorso deve essere accolto, per le ragioni dianzi esposte e con assorbimento di ogni altro profilo di censura.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguente:
1) “nel rito del lavoro, ai fini dell’esame della ritualità del ricorso introduttivo del giudizio, il giudice del merito è chiamato ad effettuare l’individuazione del petitum, sotto il profilo sostanziale e processuale, attraverso l’esame complessivo dell’atto. Tale operazione – che deve compiersi anche d’ufficio e anche in grado di appello – va distinta da quella relativa alla rilevazione di eventuali carenze riguardanti elementi che il ricorrente ha l’onere di dedurre e provare per sostenere la fondatezza della propria domanda, cioè di elementi da configurare come mezzi di prova, la cui omessa specificazione, pur ponendosi in contrasto a quanto prescritto dall’art. 414 n. 5 cod. proc. civ., non comporta la nullità del ricorso introduttivo, bensì la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo, salva la possibilità di ricorrere all’esercizio dei poteri d’ufficio de! giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ. e dell’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., nel giudizio di appello”;
2) “nei rapporti sottratti al regime della tutela reale il licenziamento affetto da uno dei vizi formali di cui all’art. 2 della legge n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 2 della legge n.108 del 1990, non produce effetti sulla continuità del rapporto, senza che possa distinguersi tra i diversi vizi formali e, in particolare, tra mancanza di forma scritta e mancata comunicazione dei motivi di recesso, richiesta dal lavoratore. Pertanto, in ipotesi di licenziamento viziato per la mancata comunicazione dei motivi del recesso richiesti dal lavoratore – non applicandosi la disciplina sanzionatoria dettata dall’art. 8 legge n. 604 del 1966 (propria della diversa ipotesi di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo), ma, comunque, vertendosi in tema di contratto a prestazioni corrispettive – l’inidoneità del licenziamento ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento inefficace, bensì solo il risarcimento del danno da determinare secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, eventualmente facendosi riferimento anche alle mancate retribuzioni, ma nella suddetta ottica. Inoltre, nella ipotesi considerata, da un lato, non è necessaria – per dare rilievo, ai fini risarcitori, alla perdita delle retribuzioni conseguente al licenziamento – la costituzione in mora del datore di lavoro (mediante l’offerta formale delle prestazioni, pur occorrendo che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire il rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni lavorative) e d’altra parte, nella valutazione dell’imputabilità dell’inadempimento al datore di lavoro deve tenersi conto dalla intervenuta intimazione al lavoratore di un nuovo licenziamento, successivo alla sentenza di primo grado favorevole al lavoratore, effettuata, ancora una volta, in totale violazione dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966”.
P.Q.M.
Accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso e rigetta il secondo motivo. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione.
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