Corte di Cassazione sentenza n. 3668 del 14 febbraio 2013
LAVORO (RAPPORTO DI) – LAVORO SUBORDINATO – DIRITTI ED OBBLIGHI DEL DATORE E DEL PRESTATORE DI LAVORO – MANSIONI – DOMANDA DI RISARCIMENTO DANNI – IPOTESI DI DEQUALIFICAZIONE – FATTISPECIE
massima
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L’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti – che legittima lo “ius variandi” del datore di lavoro – deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto, precisandosi, inoltre, che il divieto di variazioni “in peius” (demansionamento) opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- La sentenza attualmente impugnata in totale riforma della sentenza del Tribunale di Venezia n. 620 del 2006 – di parziale accoglimento del ricorso di V.C. con conseguente reintegrazione dello stesso e condanna della ULSS 12 Veneziana al risarcimento del patito danno professionale da demansionamento – respinge tutte le domande proposte dall’originario ricorrente, che condanna alla restituzione di quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre che al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di merito del giudizio.
La Corte d’appello di Venezia, per quel che qui interessa, precisa che:
a) in base alla giurisprudenza di legittimità perché una modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore sia configurabile come demansionamento si deve tenere conto della relativa incidenza: 1) sul livello professionale raggiunto; 2) sulla collocazione nell’ambito aziendale; 3) per i dirigenti, sulla rilevanza del ruolo rivestito;
b) nella specie non vi è stato demansionamento in quanto il C. non è stato totalmente privato delle proprie mansioni, come sostenuto dal Tribunale, ma soltanto esonerato da quelle meno gratificanti, rappresentate dai turni di guardia e dalla reperibilità, mentre per le funzioni operatorie è stato, sia pure indirettamente, destinatario di un trattamento privilegiato derivante dal costante affiancamento al Primario;
c) in tal modo, in realtà, si è prodotto l’effetto perverso della creazione di una “nicchia privilegiata” in favore di una persona problematica, che ha manifestato con i colleghi un atteggiamento perennemente conflittuale, riflettentesi negativamente anche sul trattamento dei pazienti;
d) è, quindi, comprensibile che il C. abbia accettato il provvedimento del Primario del giugno 2000, di cui si discute, “con sommesso entusiasmo” e ciò porta alla totale riforma della sentenza di primo grado, nei suindicati termini.
2.- Il ricorso di V.C., illustrato da memoria, domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, la Azienda Unità locale socio sanitaria – ULSS 12 Veneziana.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I – Sintesi dei motivi di ricorso
1.- Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c.
Si rileva che la Corte veneziana, ribaltando sul punto da decisione di primo grado, ha escluso che il provvedimento del Primario dott. G. in data 6 giugno 2000 abbia comportato un demansionamento ai danni dell’attuale ricorrente, avendolo configurato come provvedimento che si è limitato a modificare solo in senso quantitativo (esonero dai turni di guardia e dall’onere della reperibilità) ma non qualitativo le funzioni svolte dal C.
Tale assunto, tuttavia, sarebbe il frutto di una erronea e parziale valutazione dell’intera vicenda successiva al suddetto provvedimento, ivi compreso il consenso manifestato dall’interessato.
Ciò risulterebbe dimostrato in modo evidente dalla relazione in data 13 marzo 2003 del Capo Dipartimento di Chirurgia, dott. P., ove risultava che il dott. C., pur essendo una unità di alto livello dirigenziale, in seguito al provvedimento del giugno 2000, risultava in pratica avulso dalle normali attività istituzionali della divisione di appartenenza.
Tale relazione ha indotto il Primario dell’Unità operativa Chirurgia II ad adottare un nuovo ordine di servizio di ripresa in pieno di tutte le attività istituzionali da parte del dott. C. (turni di guardia, reperibilità, attività di sala operatoria e ambulatoriale).
Tuttavia, tale ultimo provvedimento non ha mai avuto attuazione per la rinnovata opposizione dei colleghi del ricorrente, derivanti dalle già manifestate divergenze sulle terapie mediche e chirurgiche che peraltro, data l’organizzazione del servizio, non avrebbero mai potuto comportare una modifica della terapia scelta da un collega da parte di un altro visto che ogni dirigente medico decide la terapia dei pazienti affidati alle sue cure per tutto il corso del ricovero, anche con riguardo ai periodi in cui non è di turno.
La Corte veneziana non ha tenuto conto di tali sviluppi e soprattutto non ha considerato che lo ius variandi del datore di lavoro incontra il limite dell’equivalenza delle mansioni che, nel caso di specie, non è stato rispettato.
D’altra parte, anche il consenso manifestato dal C. rispetto al provvedimento del giugno 2000 non è determinante visto che si deve considerare come direttamente derivante dalla riscontrata “incompatibilità ambientale” e non come il frutto di una consapevole scelta individuale sul mutamento delle mansioni, che è l’unico che validamente rileva ai fini dell’art. 2103 c.c., tanto più che nella specie dopo l’emissione del provvedimento de quo di fatto sono state precluse al ricorrente anche l’attività chirurgica e quella ambulatoriale, come rilevato dal dott. P. nella citata relazione del marzo 2003.
2.- Con il secondo motivo si denuncia “omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione in fatto circa un punto decisivo della controversia”.
Si sottolinea che, nella “stringata” motivazione della sentenza non si è tenuto nel debito conto: 1) dell’insieme delle mansioni proprie della figura professionale del Dirigente medico di Chirurgia generale di primo livello, con rapporto di lavoro esclusivo a tempo pieno, ricoperta dal dott. C. presso l’Unità Operativa Chirurgia generale II dell’Ospedale Umberto I di Mestre dal 17 aprile 1981; 2) degli sviluppi della vicenda anche successivi al provvedimento del Primario del giugno 2000, che da soli dimostrano che si è verificato il denunciato demansionamento (visto che solo tale evento avrebbe potuto giustificare l’esigenza di prevedere una reintegrazione del professionista nel proprio ruolo e nelle proprie attività).
II – Esame delle censure
3.- I motivi di ricorso – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – sono da accogliere, nei limiti e per le ragioni di seguito precisati.
3.1.- Per consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, compete al giudice del merito valutare – ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variarteli da parte del datore di lavoro – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente (Cass. SU 24 novembre 2006, n. 25033; Cass. 8 giugno 2009, n. 13173; Cass. 2 maggio 2006, n. 10091; Cass. 23 marzo 2005, n. 6326).
Tale valutazione dà luogo, pertanto, ad un giudizio di fatto, che è incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato.
Nella specie, però, è proprio la relativa motivazione a risultare inadeguata e a viziare quindi la sentenza.
3.2. Dal combinato dal combinato disposto degli artt. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. – e, in particolare, da tale ultima disposizione che si riferisce specificamente al contenuto della motivazione in senso stretto, stabilendo che la motivazione “consiste nell’esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione” – si desume che nella motivazione della sentenza deve essere esposto il ragionamento decisorio-giustificativo della decisione adottata, sulla base della esplicitazione delle sole ipotesi ritenute fondate, e rilevanti ai fini del decidere, con l’enunciazione degli argomenti logici e razionali che portano a preferire tali ipotesi (ed esse sole) nella comparazione con gli argomenti di segno contrario (vedi, per tutte: Cass. 24 novembre 2008, n. 27890; Cass. 4 marzo 2005, n. 4741).
In particolare, con riguardo alla motivazione della sentenza del giudice di appello e al fine della valutazione di congruità nel rispetto del combinato disposto degli artt. 132, n. 4, c.p.c. e 118, primo e secondo comma, disp. att. stesso codice, in base a orientamenti consolidati e condivisi di questa Corte:
a) è sufficiente il riferimento alle ragioni in fatto ed in diritto ritenute idonee a giustificare la soluzione adottata, tenuto conto dei motivi esposti con l’atto di appello avverso la sentenza, di segno opposto, resa dal primo giudice, non essendo necessaria altresì la compiuta esposizione della motivazione data dal medesimo primo giudice e l’esplicita esternazione delle ragioni del dissenso da quella motivazione, poiché tale dissenso risulta implicitamente dal confronto tra le due sentenze (tra le tante: Cass. 17 giugno 2003, n. 9670;
b) la congruità della motivazione della sentenza del giudice di appello deve essere verificata con esclusivo riguardo alle questioni che sono state sottoposte al medesimo, e dallo stesso risolte per decidere la controversia, restando ad essa del tutto estranea la decisione eventualmente diversa che sia stata adottata dal giudice di primo grado, interamente travolta ed assorbita da quella emessa, in sua sostituzione, dal giudice di appello il quale compie la valutazione diretta del materiale probatorio messo a disposizione dalle parti, nell’ambito delle questioni sottopostegli dai motivi d’impugnazione, senza obbligo di puntuale confutazione dei singoli punti della sentenza di primo grado (Cass. 22 dicembre 2005, n. 28487);
c) l’obbligo di motivazione della sentenza di appello non si estende a tutte le potenziali ricostruzioni del fatto che possano suffragare o contraddire la soluzione adottata con la decisione di primo grado, ma solo a quelle, ritenute decisive, che siano state prospettate dalle parti, ovvero che siano immediatamente correlate alle emergenze istruttorie (Cass. 21 maggio 2007, n. 11673).
3.3.- D’altra parte, per altrettanto consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, “la nozione di punto decisivo della controversia, di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., sotto un primo aspetto si correla al fatto sulla cui ricostruzione il vizio di motivazione avrebbe inciso ed implica che il vizio deve avere inciso sulla ricostruzione di un fatto che ha determinato il giudice all’individuazione della disciplina giuridica applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio di merito e, quindi, di un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo od estintivo del diritto. Sotto un secondo aspetto, la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, asserisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo, peraltro, necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa. Infatti, se il vizio di motivazione per omessa considerazione di punto decisivo fosse configurabile sol per il fatto che la circostanza di cui il giudice del merito ha omesso la considerazione, ove esaminata, avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione del fatto diversa da quella adottata dal giudice del merito, oppure se il vizio di motivazione per insufficienza o contraddittorietà fosse configurabile sol perché su uno specifico fatto appaia esistente una motivazione logicamente insufficiente o contraddittoria, senza che rilevi se la decisione possa reggersi, in base al suo residuo argomentare, il ricorso per cassazione ai sensi del n. 5 dell’art. 360 si risolverebbe nell’investire la Corte di cassazione del controllo sic et sempliciter dell’iter logico della motivazione, del tutto svincolato dalla funzionalità rispetto ad un esito della ricostruzione del fatto idoneo a dare luogo ad una soluzione della controversia diversa da quella avutasi nella fase di merito” (vedi, per tutte: Cass. 7 dicembre 2004, n. 22979; Cass. 22 settembre 2006, n. 20636).
Ciò significa che, nel caso in cui si denunci l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. l’attività di esame del giudice del merito che si assume omessa concerne una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi su uno dei fatti cosiddetti principali della controversia (vedi, per tutte: Cass. 14 marzo 2006, n. 5444; Cass. 14 marzo 2006, n. 5473; Cass. 28 giugno 2006, n. 14973).
Resta, comunque, salvo che:
a) il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c., è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (tra le tante: Cass. 2 febbraio 2007, n. 2272; Cass. 18 giugno 2007, n. 14084);
b) il motivo di ricorso ex art. 360, n. 5, c.p.c., mediante il quale si deduca il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di esaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sul piano logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (ex plurimis: Cass. SU 11 giugno 1998, n. 5802; Cass. 11 febbraio 2002, n. 1892, Cass. 9 agosto 2004, n. 15355, Cass. 19 gennaio 2006, n. 1014; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436).
3.4.- Nella specie, la Corte d’appello, nella parte della sentenza relativa allo “svolgimento del processo” ha riferito, fra l’altro, che:
1 ) in data 6 giugno 2000, richiamandosi alle lamentele espresse dai colleghi del ricorrente in una riunione del giorno precedente, il Primario dottor L.G., ha emesso un ordine di servizio nel quale ha comunicato di aver deciso di attribuire al C., in via ordinaria, compiti inerenti ad attività di corsia e di ambulatorio che non comportavano partecipazione ai servizi di guardia medica e di reperibilità nonché di stabilire che l’attività chirurgica del ricorrente avrebbe dovuto essere svolta soltanto sotto la diretta partecipazione del Primario stesso all’equipe operatoria;
2) a seguito di richiesta formulata dal Direttore medico del Presidio ospedaliero di Mestre, il Capo Dipartimento di chirurgia ha redatto il 13 marzo 2003 una relazione nella quale evidenziava che il ricorrente non partecipava alla vita del reparto, non effettuava né visite né turni di guardia e reperibilità e neppure svolgeva attività negli ambulatori divisionali;
3) con ordine di servizio del 3 luglio 2003 il Primario della U.O. chirurgica ha disposto la ripresa a pieno titolo di tutte le attività istituzionali da parte del C., con decorrenza dal 15 luglio 2003, poi spostata al 1° settembre 2003, in seguito al formale dissenso manifestato dai colleghi del ricorrente.
Tuttavia, nella motivazione, la Corte veneziana, non ha espresso alcuna valutazione in merito a suddetti sviluppi della vicenda, verificatisi successivamente al provvedimento del Primario del giugno 2000 e che dimostrano che – al di là del tenore letterale del provvedimento del giugno 2000 – nei fatti, sicuramente il C. si è trovato a svolgere un tipo di attività di gran lunga inferiore, per quantità e qualità, rispetto alla qualifica rivestita, tanto da giustificare l’esigenza di prevederne una reintegrazione nel proprio ruolo e nei compiti istituzionali.
Proprio, su tali fatti la sentenza di primo grado ha basato il disposto parziale accoglimento del ricorso di V.C. con conseguente reintegrazione dello stesso e condanna della ULSS 12 Veneziana al risarcimento del patito danno professionale da demansionamento, dopo aver escluso anche che alla lettera di risposta del ricorrente all’ordine di servizio del Primario del giugno 2000 possa essere attribuito il significato di un valido assenso alla disposta riduzione delle mansioni, riduzione che peraltro proprio, dai successivi provvedimenti indicati, nei fatti sembra essere andata ben al di là di quanto formalmente scritto nel suddetto ordine di servizio.
La Corte territoriale si è invece limitata a giustificare la propria decisione facendo esclusivo riferimento al suindicato provvedimento del giugno 2000, alle ragioni di “incompatibilità ambientale” che ne hanno determinato l’adozione e alla reazione del C. – cui ha dato il valore di un vero e proprio consenso – senza minimamente considerare i suddetti provvedimenti successivi e i motivi che hanno determinato l’incisivo esautoramento dalle mansioni del professionista, da tali provvedimenti inequivocamente attestato. La Corte veneziana, anzi, sulla base di tale incompleta ricostruzione e valutazione di fatti fondamentali, è pervenuta – aderendo alla prospettazione della Azienda, appellante principale – alla apodittica conclusione che il ricorrente sarebbe stato in realtà esonerato soltanto dalle mansioni meno gratificanti, sicché «si sarebbe prodotto l’effetto perverso della creazione di una “nicchia privilegiata” in favore di una persona problematica, che ha manifestato con i colleghi un atteggiamento perennemente conflittuale».
III – Conclusioni
4.- In sintesi, per le esposte ragioni, il ricorso deve essere accolto in quanto dall’esame del ragionamento svolto dalla Corte d’appello di Venezia, quale risulta dalla sentenza impugnata, emerge la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una decisione diversa da quella adottata e ciò vizia la stessa sentenza sul piano logico-formale e della correttezza giuridica.
Essa deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Trieste, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Trieste.
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