La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 27055 depositata il 3 dicembre 2013 intervenendo in tema di licenziamento ha affermato che che è illegittimo il licenziamento di una lavoratrice effettuato in violazione del contenuto dell’art. 1 legge n. 7 del 1963 il quale dispone ” del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa del matrimonio” specificando al comma 3 “si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio…. a un anno dopo la celebrazione., sia stato disposto per causa di matrimonio”. Il termine ” disposto” non lascia adito a dubbi di sorta, così come correttamente sottolineato nella sentenza impugnata, che la presunzione di nullità riguarda ogni recesso che sia stato ” deciso” nell’arco temporale indicato per legge, indipendentemente dal momento in cui la ” decisione ” di recesso sia stata attuata.
La vicenda ha riguardato una dipendente a cui la società, datrice di lavoro, aveva disposto il suo licenziamento entro l’anno di contrazione del matrimonio. La dipendente impugnava il provvedimento di espulsione inanzi al Tribunale, in veste di Giudice del lavoro, il quale accogliendo le doglianze della ricorrente dichiarava la nullità del recesso, condannando la società al pagamento delle retribuzioni non percepite sino alla riammissione in servizio.
La società avverso la decisione del giudice di prime cure proponeva ricorso dinanzi alla Corte di Appello, la lavoratrice presentava ricorso incidentale. I giudici territoriali rigettavano sia l’appello principale della società che quello incidentale della lavoratrice osservando che il recesso doveva ritenersi effettuato entro l’anno in quanto era stato disposto entro questo termine anche se differito per l’esecuzione al termine del preavviso. La norma utilizzava il termine “disposto” indicando chiaramente che si ci doveva riferire al momento in cui era stato deciso il recesso I giudici di merito convengono che “l’ipotesi di cessazione di attività nell’azienda non poteva estendersi sino a coprire mere ipotesi di ristrutturazione organizzativa nei reparti ricevimento e portineria e reparto centralino, come allegato dalla società appellante”.
Per la cassazione della sentenza del giudice di seconde cure la società proponeva ricorso, basata su tre motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini rigettano il ricorso della società. Per i giudici di legittimità la donna lavoratrice che contrae matrimonio per dare origine ad una famiglia ha diritto alla tutela rafforzata ex art. 41 Costituzione.
Per la Corte Suprema compete al giudice del merito interpretare il disposto dell’articolo 1 della legge n. 7/1963 dandone attuazione pratica, riscontrando il procedimento logico adottato nella motivazione. La legge stabilisce un arco temporale preciso entro il quale l’azienda non può procedere al licenziamento della dipendente; termine che non è stato rispettato nel caso di specie (un anno dalla contrazione del matrimonio). A nulla vale la contestazione della società circa l’effettiva intervenuta soppressione del ramo d’azienda presso cui era impiegata la dipendente: ella infatti era stata dapprima trasferita presso suddetto ramo, per poi essere licenziata.
“Si tratta comunque di questioni non rilevanti per giustificare un recesso nel periodo sospetto in quanto il legislatore a monte ha ritenuto (…) pertinente solo la cessazione dell’attività, non una sua ristrutturazione, giudicando in via presuntiva prevalente sul punto la necessità della tutela rafforzata della lavoratrice donna rispetto al diritto di cui all’art. 41 Cost.”. Una interpretazione autentica del disposto normativo ha permesso alla Cassazione di scongiurare l’ipotesi di intromissione giudiziale in ambiti discrezionali riservati alla sola organizzazione d’impresa, dunque respingere il ricorso aziendale e confermare l’illegittimità del licenziamento.
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