Corte di Cassazione sentenza n. 4901 del 27 febbraio 2013
ACCERTAMENTO – MINUSVALENZA – ABUSO DIRITTO
massima
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È abuso del diritto ripianare la perdita della partecipata e successivamente cedere la quota di partecipazione generando una minusvalenza. Il fatto che la capogruppo avesse ripianato la perdita della partecipata e poi avesse rivenduta la quota si configurava quale complesso di atti privo di valide ragioni: pertanto i costi conseguenti sono indeducibili.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
R.T.I. s.p.a. propose ricorso avverso avviso di accertamento, con il quale l’Ufficio aveva determinato a suo carico, per l’anno 1990, maggior imponibile IRPEG ed ILOR, con conseguente applicazione di maggior imposte ed irrogazione delle corrispondenti sanzioni.
L’avviso contemplava sei riprese e, per quanto ancora rileva, si basava sul recupero a tassazione dell’importo di L. 22.643.150.000, quale minusvalenza da alienazione di partecipazione in altra società (Rete 2000 s.r.l.) ritenuta dall’Ufficio solo parzialmente deducibile.
In proposito, era avvenuto che, il 18 dicembre 1990, l’assemblea di R.2000, partecipata al 99% da R.T.I., aveva deliberato l’approvazione della situazione economico-patrimoniale al 30 novembre 1990, dalla quale risultava una perdita di L. 23.123.796.330, che, sommata a quella relativa all’esercizio 1989 (di 1.2.489.353.433), configurava una perdita complessiva pari a L. 25.613.149.763. Di conseguenza, erano stati deliberati: l’azzeramento dell’intero capitale sociale della partecipata, pari a L. 3.000.000.000, a parziale copertura della predetta perdita; la ricostituzione e l’aumento del suo capitale sociale, per una somma di L. 25.613.149.763, interamente sottoscritto e versato dai soci; la riduzione di detto capitale sociale a L. 3.000.000.000, a copertura della residua perdita di L. 22.613.149.763.
Ricostituito il capitale sociale della partecipata R.2000, R.T.I. provvide alla cessione dell’intera partecipazione ad altra società del Gruppo (Publitalia 80 s.p.a.) al prezzo di L. 2.970.000.000, corrispondente al valore della quota del patrimonio netto della società compravenduta al momento della cessione. In esito a tali operazioni, la società contribuente contabilizzò quindi, per l’anno 1990, minusvalenza da partecipazione (a R.2000), pari a L. 25.357.018.265, data dalla differenza tra il prezzo della cessione (di L. 2.970.000.000) e quanto affluito al “conto partecipazioni” (il valore di carico della partecipazione, pari a L. 2.970.000.000, più il valore dei versamenti effettuati a titolo di ripianamento perdite, pari a L. 25.357.018.265).
A fronte di tale situazione, l’Ufficio riscontrata la corrispondenza della dedotta minusvalenza da partecipazione all’ammontare complessivo dei versamenti effettuati ai fini del ripianamento delle perdite della società partecipata (1. 25.613.149.763) e considerata, altresì, l’immediatamente successiva cessione dell’intera partecipazione ad altra società del Gruppo a prezzo corrispondente al relativo valore nominale (L. 2.970.000.000) – riprese a tassazione la minusvalenza medesima, sino al limite della concorrenza con il valore della partecipazione, ritenendola, in tali limiti, priva del “carattere della necessarietà e dell’inerenza” e sostanzialmente configurante “atto di liberalità a favore di altra società del gruppo”, in quanto tale, “fiscalmente indeducibile”.
La società contribuente impugnò l’accertamento con riferimento a tutte le riprese contemplate e l’adita commissione provinciale, accogliendo in parte il ricorso, lo accolse, in particolare, per il profilo attinente alla ripresa sopra descritta nonché per quello relativo all’invocata deduzione, dall’IRPEG, della maggior ilor accertata. In esito all’appello dell’Agenzia, la decisione fu confermata dalla commissione regionale.
Avverso la decisione di appello, l’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione in due motivi.
La società contribuente ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) – Con riguardo al primo residuo profilo della controversia, il giudice a quo ha, in particolare, ritenuto che la cessione da parte di R.T.I. della partecipazione (99% del capitale) in R.2000 ad altra società del Gruppo, previo ripianamento delle perdite della partecipata, s’inseriva in un piano di riordino del complessivo assetto societario, rientrante nell’ambito della discrezionalità manageriale della società capogruppo, e che il ripianamento delle perdite non poteva configurare liberalità, posto che esso, riconnettendosi allo stato in cui al tempo versava il capitale della società partecipata per il quale era stata deliberata la copertura delle perdite, rispondeva alla previsione degli artt. 2447 e 2327 c.c. (applicabile ratione temporis).
Con riguardo al secondo residuo punto controverso, il giudice a quo, prestando adesione alle determinazioni in proposito assunte dal giudice di primo grado, ha respinto il motivo di appello proposto dell’Agenzia in merito alla ritenuta immediata deducibilità, dall’irpeg, della maggior ilor oggetto dell’accertamento.
2) 1. – A fronte di tali determinazioni del giudice a quo, con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia – deducendo “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 5” – censura la decisione impugnata per non aver affermato l’indeducibilità, per difetto di inerenza, del costo di ripianamento delle perdite della società partecipata, nonostante che il correlativo importo superasse di gran lunga il valore nominale della partecipazione, al quale la partecipazione medesima era stata subito dopo ceduta ad altra società del Gruppo, così da escludere che il ripianamento medesimo potesse ragionevolmente reputarsi apportare un qualche effettiva utilità all’attività propria della società contribuente.
2. – La doglianza è fondata.
2.1 – Il citato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5, (nella formulazione applicabile ratione temporis) recita: “Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito”.
La norma sancisce, dunque, la deducibilità dei soli costi che specificamente ineriscano all’attività economica svolta dal contribuente.
Peraltro, l’indicato requisito dell'”inerenza” pur non risolvendosi necessariamente nel rapporto con una ben precisa e determinata componente attiva del reddito dell’impresa del contribuente – richiede comunque, ai fini della deducibilità, che il costo sia specificamente correlato all’impresa suddetta, nel senso che esso deve essere, in ogni caso, finalizzato all’esplicazione di un’attività, almeno, potenzialmente idonea ad incidere utilmente sulla produzione dei relativi utili (cfr. Cass. 24065/11, 26851/09, 1465/09, 1682 6/07). Mentre incombe sul contribuente, che ne intenda contestare il disconoscimento dell’Amministrazione, l’onere di fornire la prova dell’inerenza, all’attività dell’impresa, delle spese dedotte ai fini dell’imposizione diretta (cfr. Cass. 19949/12, 1946/12, 23626/11, 18930/11, 4554/10).
2.2 – Atteso che, in tema di determinazione del reddito d’impresa, rileva esclusivamente l’utile specificamente ritratto dal contribuente e non pure quello ricavato da altri soggetti ad esso in qualche modo collegati, sicchè l’inserimento in un gruppo non annulla, a fini fiscali, la soggettività del singolo contribuente (cfr. Cass. 10981/09), dagli esposti rilievi s’inferisce, con riguardo alla fattispecie in rassegna, che – se è vero quanto affermato dal giudice a quo in merito al fatto che il riordino degli assetti societari è espressione d’insindacabili scelte imprenditoriali ed in particolare di quelle della società capogruppo – non è meno vero che il ripianamento delle perdite della partecipata, realizzato dalla società partecipante, per un importo (L. 25.357.018.265) di oltre otto volte superiore al valore della partecipazione (L. 2.970.000.000), e l’immediatamente successiva cessione di tale partecipazione, al valore predetto, ad altra società del medesimo Gruppo, danno luogo, nel loro complesso, ad un’operazione assolutamente antieconomica, per la società partecipante, e già in astratto oggettivamente priva di qualsiasi potenziale idoneità ad incidere positivamente sulla sua capacità di produrre utili; ad un’operazione, quindi, che, nella prospettiva di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 75, e rispetto all’attività propria del soggetto che l’ha posta in essere, si rivela del tutto carente di nesso di inerenza, come in precedenza definito.
2.3 – L’evidente antieconomicita dell’operazione per R.T.I. e l’insussistenza di un suo obbligo giuridico al ripianamento delle passività della partecipata (tanto più, nei termini realizzati) consente, peraltro, di qualificare la fattispecie – con identico risultato con riguardo alla valutazione della legittimità della ripresa – anche nella diversa prospettiva dell’abuso di diritto.
La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, consolidatamente orientata a ritenere che, in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, seppur non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici (che restano, pertanto, inopponibili all’Amministrazione finanziaria) volti a conseguire un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici, che giustifichino l’operazione (cfr. Cass., 25537/11, 11236/11, 1372/11, 4737/10, 25726/09, 8481/09, 6800/09, ss.uu., 30055/08). E, in tale prospettiva, si è, altresì, puntualizzato che, mentre spetta all’Amministrazione delineare i termini del disegno elusivo e l’uso meramente strumentale di ordinari schemi negoziali al precipuo fine del conseguimento di un vantaggio fiscale, incombe sul contribuente la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico che siano idonee ad escludere l’abusività (cfr., anche, Cass. 1465/09, 10257/08).
3) 1. – Con il secondo motivo di ricorso, l’Agenzia – deducendo “violazione e falsa applicazione della L. 16 dicembre 1977, n. 604, art. 6, comma 1, e del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 64, comma 1” – censura la decisione impugnata per non aver considerato che, ai sensi delle disposizioni evocate (la seconda, nella formulazione applicabile ratione temporis), l’accertamento di maggior ILOR non comporta che relativo importo vada detratto dall’imponibile IRPEG in sede di accertamento.
2. – Il motivo è fondato.
Questa Corte, infatti, ha già condivisibilmente chiarito (v. Cass. 1472/06, che si riporta a quanto già affermato, con riferimento alla normativa previgente, da 16780/02) che – in forza del combinato disposto dalla L. n. 904 del 1977, art. 6, comma 1, e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 64, comma 1, (nel testo applicabile ratione temporis che recita: “le imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Le altre imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento”) – la maggior ILOR accertata in conseguenza di rettifica della dichiarazione deve essere dedotta dall’imponibile dell’IRPEG, non in sede di accertamento, ma nel periodo d’imposta in cui avviene il pagamento o ha inizio la riscossione dei ruoli nei quali le imposte sono iscritte; mentre la diversa conclusione prospettata dalla pronunzia (Cass. 20392/07) richiamata in sede di discussione nell’interesse della società controricorrente, risulta dichiaratamente circoscritta alle fattispecie regolate dalla normativa vigente precedentemente all’entrata in vigore (1.1.1988) del D.P.R. n. 917 del 1986, (così, peraltro, indirettamente confermando la diversa soluzione con riguardo alle fattispecie, quale quella in rassegna, regolate dalla normativa successiva).
4) – Alla stregua delle considerazioni che precedono, s’impone l’accoglimento del ricorso dell’Agenzia.
Non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, ult. parte, va decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo della società contribuente in relazione alle riprese sopra esaminate;
Per la natura della controversia e tutte le implicazioni della fattispecie, si ravvisano le condizioni per disporre la compensazione delle spese dei gradi di merito e la condanna della società contribuente, in base al criterio della soccombenza, alla refusione alla controparte delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte: accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della società contribuente in relazione alle riprese sopra esaminate; compensa le spese dei gradi di merito e condanna la società contribuente alla refusione alla controparte delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 40.000,00, oltre spese prenotate a debito.
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