CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 ottobre 2017, n. 24868
Tributi locali – ICI – Accertamento – Aree di destinazione urbanistica residenziale
Fatti rilevanti e ragioni della decisione
1. La B.G. Costruzioni spa propone, in fase rescindente, due motivi di revocazione, ex artt. 391 bis e 395 n.4) cod. proc. civ., della ordinanza ex art. 375 cod. proc. civ. n. 10711/12 con la quale questa corte di cassazione (sezione sesta tributaria) ha rigettato, nel contraddittorio con il Comune di Manerba del Garda (BS), il ricorso da essa proposto avverso la sentenza della commissione tributaria regionale della Lombardia n. 162/65/2010.
Ripropone altresì, in fase rescissoria, tre motivi di ricorso per la cassazione di quest’ultima sentenza, così come già proposti nel ricorso rigettato con l’ordinanza oggetto di istanza di revocazione.
Resiste con controricorso il Comune di Manerba del Garda.
La ricorrente ha depositato memoria.
2.1 Con il primo motivo rescindente di ricorso per revocazione la società deduce errore di fatto “per supposizione dell’esistenza di una fattispecie concreta diversa da quella oggetto del giudizio”. Per avere la corte di cassazione: – ritenuto che nella specie si vertesse di un procedimento di rimborso Ici per una annualità di imposta, invece che di opposizione agli avvisi di accertamento Ici per gli anni 2003/2006; – frainteso la questione giuridica fondamentale da essa dedotta; che non concerneva affatto il diritto del contribuente di beneficiare, se non per il futuro, della minore tassazione Ici conseguente alla variazione in pejus della destinazione urbanistica dell’area intercorsa durante il periodo di imposta, bensì l’insussistenza del diritto del Comune di tassare l’area, anche per il futuro, sulla base del maggior valore venale che questa aveva avuto nel periodo in cui la sua destinazione urbanistica era economicamente più favorevole; così come desumibile dal suo valore di negoziazione, provvisoriamente influenzato da tale più vantaggiosa destinazione, poi venuta meno.
Con il secondo motivo rescindente di ricorso per revocazione la società deduce errore di fatto per “mancata lettura degli atti difensivi e per svista nella lettura del significato del primo motivo di ricorso”. Per avere la corte di cassazione omesso di esaminare il primo motivo di ricorso per cassazione (ed anche la memoria 18 maggio 2012, da essa depositata per far emergere la stessa omissione, così come già risultante dalla relazione ex articolo 380 bis cod. proc. civ); motivo con il quale essa aveva dedotto l’illegittimità degli avvisi di accertamento per violazione, da parte del Comune, degli articoli 52 e 59 lett. g) L. 446/97. Atteso che il Comune aveva qui preteso di determinare il valore venale delle aree sulla base del maggior prezzo negoziato negli atti di acquisto intercorsi tra il marzo ed il giugno 2003 (allorquando tali aree avevano destinazione urbanistica residenziale), nonostante che essa contribuente avesse, nelle annualità in questione, corrisposto regolarmente l’Ici sulla base del valore venale ad esse attribuito in via regolamentare dalla delibera comunale n. 199/01 in materia; e ciò dopo che, con delibera n. 38 del 17 luglio 2003, il Comune si era dotato di un nuovo strumento urbanistico con il quale aveva cancellato, per le aree in questione, la pregressa destinazione residenziale, ripristinando quella (di minor pregio) turistico-alberghiera.
2.2 Con i tre motivi rescissori di ricorso, la società contribuente chiede la cassazione della citata sentenza della commissione tributaria regionale della Lombardia, sotto i seguenti profili: 1. mancato rilievo della illegittimità degli avvisi di accertamento per violazione dei citati articoli 52 e 59 lett. g) L. 446/97; posto che il Comune non poteva determinare la base imponibile Ici delle aree su un valore venale (quello del prezzo di trasferimento pattuito nel momento in cui le aree stesse fruivano di una più conveniente destinazione urbanistica) eccedente quello stabilito in via regolamentare, nell’esercizio di un invalicabile potere di autolimitazione, con le delibere consiliari e di Giunta in materia (nella specie, la cit. delibera n. 199/01, sulla base della quale essa aveva regolarmente corrisposto l’Ici nelle annualità di riferimento); 2. mancato rilievo della illegittimità degli avvisi di accertamento per violazione dell’articolo 5 d.lgs. 504/92; dal momento che assumere a riferimento il suddetto prezzo di trasferimento, nonostante il successivo venir meno della più favorevole destinazione urbanistica, comportava l’applicazione in concreto di un valore venale difforme dai parametri indicati dall’articolo 5 cit.; 3. contraddittorietà ed insufficienza della motivazione della commissione tributaria regionale; la quale non aveva spiegato, fatto salvo il richiamo illogico e generico al “rischio di impresa”, i motivi per i quali il prezzo di vendita stabilito in presenza della più favorevole destinazione urbanistica poteva continuare ad essere preso a riferimento dal Comune, senza altre specificazioni, discostandosi dalle proprie determinazioni tabellari di valore.
3.1 I due motivi rescindenti di ricorso per revocazione sono destituiti di fondamento.
Per quanto concerne l’ipotesi, qui dedotta, di errore di fatto revocatorio ex art. 395 n.4) cod. proc. civ., occorre partire dal dato normativo, secondo cui “vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.
L’errore revocatorio deve dunque cadere – per regola generale, valevole anche nel caso di revocazione di sentenze di legittimità ex articoli 391 bis e ter cod. proc. civ., recettivi di quanto stabilito dalla corte costituzionale con le sentenze nn. 17/1986 e 36/1991 – su un “fatto”; esso si concreta in una falsa percezione della realtà, a sua volta indotta da una “svista” di natura percettiva e sensoriale.
Proprio per tale sua natura, questa falsa percezione della realtà – che nel procedimento di cassazione concerne necessariamente i soli atti interni al giudizio di legittimità, ossia quelli che la corte esamina direttamente nell’ambito del motivo di ricorso o delle questioni rilevabili d’ufficio: Cass. 4456/15, ord. – deve emergere in maniera oggettiva ed immediata dal solo raffronto tra la realtà fattuale e la realtà rappresentata in sentenza; con la conseguenza che non può dirsi revocatorio quell’errore la cui verificazione richieda indagini, procedimenti ermeneutici, svolgimento di argomentazioni giuridico-induttive (tra le molte: Cass. nn.3317/98; 14841/01; 2713/07; 10637/07; 23856/08; 8472/16, ord.).
Non varrebbe obiettare – con il richiamo alla motivazione della sentenza – che l’errore revocatorio non riguarda soltanto i fatti materiali (o storici, o empirici) di natura sostanziale, ma anche gli eventi del processo.
Questa affermazione deve ritenersi, in linea di principio, del tutto corretta.
Essa ha trovato varie applicazioni quanto ad errore costituito, ad esempio, dall’omesso esame di uno scritto difensivo (ma solo nell’ ipotesi in cui l’ omissione sia tale da comportare una svista percettiva del giudice in ordine all’esistenza o inesistenza di una circostanza fattuale di natura decisiva, non già una diversa valutazione in diritto della fattispecie sostanziale o processuale: Cass.3137/94); ovvero dall’omessa pronuncia su una domanda che si assuma essere stata ritualmente proposta, ma che il giudice abbia ritenuto non essere mai stata formulata in giudizio (Cass. 12958/11); ovvero, ancora, nell’omesso esame di un motivo di impugnazione non percepito (Cass.362/10; 17163/15).
E tuttavia, anche questa tipologia di errore, concernente le intrinseche modalità di svolgimento del giudizio, deve incidere su un “fatto”, ancorché di natura processuale; con esclusione anche in tal caso, pertanto, di qualsivoglia rilevanza dell’errore di “valutazione”‘ nel quale sia in ipotesi incorso il giudice nella ricostruzione fattuale della vicenda, ovvero nell’applicazione della legge e nella sussunzione della fattispecie.
Va ancora considerato che l’esclusione di rilevanza revocatoria per tutto ciò che sia errore non “di fatto” (sostanziale o processuale), ma sulla “valutazione” e sul “giudizio”‘ non implica lesione del diritto di difesa ex art. 24 Cost.. Sul punto si è osservato (fin da Cass.3137/94, cit.) che tale diritto va contemperato con l’esigenza, anch’essa di natura costituzionale, di assicurare la definizione della lite mediante la formazione del giudicato; con la conseguenza che l’opzione di accordare l’eccezionale strumento della revocazione soltanto in presenza di errori di fatto, lasciando quindi fuori ogni possibilità di sindacato sulla correttezza dei principi giuridici infine applicati (quand’anche astrattamente suscettibili di essere fondatamente confutati) esprime una valutazione discrezionale del legislatore ordinario coerente con detta esigenza. Affermazione, questa, già ritenuta compatibile anche con il diritto dell’Unione Europea, soccorrendo in proposito quanto stabilito da Cass. Sez. U, Ordinanza n. 13181 del 28/05/2013, secondo cui: “la disciplina risultante dal combinato disposto degli artt. 391-bis e 395, n. 4), cod. proc. civ. – nella parte in cui non prevede come causa di revocazione l’errore di giudizio o di valutazione – non viola il diritto dell’Unione Europea, non recando alcun “vulnus” al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti; atteso che la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea riconosce, da un lato, l’importanza del principio della cosa giudicata, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, e rimettendo, dall’altro, le modalità di formazione della cosa giudicata, e quelle di attuazione del relativo principio, agli ordinamenti giuridici degli stati membri”.
3.2 Tutto ciò considerato, va escluso che nella specie sussistano gli estremi dell’errore revocatorio.
Si osserva in proposito che l’ordinanza in questione dà specificamente atto della proposizione, da parte della società contribuente, di “tre motivi” di ricorso aventi ad oggetto, non già istanza di rimborso, ma “opposizione avverso i quattro avvisi di accertamento relativi all’Ici per gli anni 2003- 06”. Per quanto non risulti che la questione abbia natura decisoria ai fini della lite, va purtuttavia considerato come il richiamo al “diritto al rimborso” sia stato, nell’ordinanza in questione, effettuato non per “svista” o “travisamento” dell’oggetto del contendere, ma per trasposizione dalla giurisprudenza citata (SSUU 25506/06); avente appunto riguardo (ferma però restando, nel convincimento della corte, la valenza generale, e dunque estesa anche alla presente fattispecie, del principio di diritto da tale giurisprudenza desumibile) ad un’ipotesi di rimborso.
Va poi rilevato che la questione dell’affermata violazione degli artt. 52 e 59 lett. g) L. 446/97 e della conseguente violazione, da parte del Comune, della sua potestà di autolimitazione regolamentare mediante prefissazione di valori venali tabellari (oggetto del primo motivo di ricorso per cassazione), non risulta essere stata omessa, bensì disattesa in forza di un ragionamento con essa incompatibile. Ragionamento costituito dal fatto che, come si esprime testualmente l’ordinanza in questione, “comunque i terreni avevano ugualmente una vocazione edilizia”; e che “parimenti si doveva tenere conto della loro destinazione edificatoria all’epoca dell’acquisto”; e che, ancora, “l’ente impositore aveva la facoltà di basarsi sul prezzo del medesimo, come dianzi specificato”.
Si tratta di affermazioni in diritto, con le quali l’ordinanza in oggetto ha senz’altro escluso che l’adozione regolamentare dei valori tabellari precludesse di per sè al Comune il diritto di pretendere l’Ici sulla base di un maggior valore venale; quantomeno nel caso in cui quest’ultimo fosse desumibile dagli atti di acquisto delle aree.
Ci si trova dunque di fronte ad una tipica “valutazione” di tipo giuridicointerpretativo, del tutto estranea, sulla base dei principi che si sono premessi, all’ipotesi di revocazione per errore sul fatto derivante da svista percettiva o sensoriale; per giunta, ricadente su aspetto controverso e precipuo oggetto di contraddittorio tra le parti.
A riprova di ciò, basti considerare come l’ordinanza in questione abbia reso queste affermazioni, poste a fondamento della decisione, dopo aver dato compiutamente atto della peculiarità della fattispecie. Peculiarità rappresentata sia dal fatto che (secondo la ricorrente) il valore indicato negli atti di vendita era di molto superiore a quello effettivo; sia dalla circostanza che quest’ultimo si fosse determinato “a seguito della modifica del piano regolatore successivo, che aveva abolito l’edificabilità residenziale, destinando la zona soltanto a quella di tipo alberghiero”.
Sono conclusioni decisorie confermative di quanto aveva già stabilito la sentenza della commissione tributaria regionale impugnata, secondo la quale (come riportato dall’ordinanza in questione, nello svolgimento del processo) la considerazione, ai fini Ici, del prezzo indicato nei rogiti 2003 di acquisto dei quattro lotti di terreno edificabile era corretto “a prescindere dalle modifiche intervenute successivamente alla cessione rispetto all’indice di edificabilità dei suoli, rientrando la relativa facoltà nei poteri dell’ente locale”.
Da ciò si evince ulteriormente come quelli che la ricorrente prospetta come errori, travisamenti ovvero omissioni di fatti (sia pure di natura processuale), costituiscano invece gli esiti di un ragionamento giuridico conseguente ad una consapevole e completa individuazione degli elementi fondamentali della fattispecie controversa, così come desunti dai motivi di ricorso e dalla sentenza di appello impugnata.
Di tutto ciò, per la verità, pare consapevole anche la ricorrente là dove lamenta, da un lato, che l’ordinanza in questione sia incorsa nel fraintendimento della “questione giuridica” da essa posta; e, dall’altro, che essa non abbia tenuto conto del fatto che la base imponibile ai fini Ici non poteva “legittimamente” basarsi su un rialzo soltanto momentaneo del valore venale (così come risultante da una destinazione urbanistica successivamente modificata in pejus). Si tratta, infatti, di profili entrambi attinenti ad una delibazione di tipo strettamente giuridico-valutativo.
4. Ne segue pertanto il rigetto del ricorso, con condanna della ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio; liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in euro 5.600,00; oltre rimborso forfettario spese generali ed accessori di legge; v.to l’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla L. n. 228 del 2012; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.
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