CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 9856 depositata il 13 maggio 2017
TRIBUTI ERARIALI DIRETTI – IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE GIURIDICHE (I.R.P.E.G.) (TRIBUTI POSTERIORI ALLA RIFORMA DEL 1972) – DETERMINAZIONE – IN GENERE – Deducibilità accantonamenti su rischi cambi – Art. 103 bis del d.P.R. n. 917 del 1986 nel testo “ratione temporis” vigente – Valutazione complessiva di tipo forfettario – Fondamento.
Massima:
In tema di IRPEG, il metodo contabile per la deducibilità degli accantonamenti su rischi di cambi, prescritto ai sensi dell’art. 103 bis del d.P.R. n. 917 del 1986, “ratione temporis” applicabile, implica una valutazione complessiva di tipo forfettario e si configura come alternativo e disomogeneo rispetto a quello della conversione diretta di tutti i crediti e debiti in valuta estera al cambio in vigore alla data di chiusura dell’esercizio dovendosi tener conto dell’effetto di copertura dei rischi di oscillazione dei cambi in forza della stipulazione di contratti di vendita a termine di valuta straniera o di assicurazione, sicché tale criterio di valutazione si applica ai soggetti che, pur non essendo enti creditizi o finanziari, abbiano comunque acquistato valute o titoli a termine e non a quelli che, invece, li abbiano ceduti. Massima tratta dal CED della Cassazione
Testo:
Fatto
L’Agenzia delle entrate ha notificato alla contribuente un avviso di accertamento concernente l’anno d’imposta 2000, col quale, per quanto ancora d’interesse, nel recuperare maggiore reddito imponibile ai fini irpeg, nell’ampliare la base imponibile ai fini irap e nel determinare la maggiore iva dovuta, ha contestato le operazioni straordinarie di ristrutturazione del gruppo M., concretatesi nel conferimento di due rami d’azienda nella s.r.l. M. industriale e nella successiva trasformazione di questa nella s.p.a.
M. Seta, la quale, a dire dell’ufficio, è fotocopia della s.p.a. M. Seta preesistente alla riorganizzazione.
Secondo l’Agenzia questa sequenza di operazioni si traduce in una costruzione artificiosa, volta esclusivamente all’ottenimento di indebiti risparmi d’imposta, conseguiti mediante l’emersione in testa alla conferitaria di attività latenti e la rivalutazione di cespiti per circa 103 miliardi di lire, al fine di dedurne le quote di ammortamento, riducendo il reddito di esercizio e, quindi, la base imponibile dell’irpeg e dell’irap. A tanto l’ufficio ha aggiunto contestazioni concernenti il trattamento riservato in bilancio e nella dichiarazione dei redditi all’esposizione valutaria della società, formata da debiti e crediti in valuta, nonchè da operazioni di vendita a termine di valute estere.
La società ha impugnato l’avviso e la Commissione tributaria provinciale ha parzialmente accolto il ricorso, relativamente agli addebiti scaturenti dalla contestazione della fattispecie elusiva, alle violazioni in materia di iva ed alla dedotta indeducibilità dei compensi corrisposti alla società di revisione.
Quella regionale ha respinto l’appello dell’ufficio, accogliendo in parte quello incidentale della contribuente, limitatamente alla ripresa concernente la differenza di cambio su operazioni di copertura. In particolare, con riguardo alla deduzione dell’accantonamento rischi su cambi, nel confermare la legittimità dell’avviso, il giudice d’appello ha rimarcato che l’accantonamento ha tenuto conto anche dei debiti e dei crediti per i quali il rischio di cambio era stato coperto da contratti a termine o da contratti di assicurazione, aggiungendo che malamente la società ha applicato contestualmente le disposizioni del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 72 e 76, nel testo vigente all’epoca dei fatti, i quali, di contro, delineano metodi di valutazione alternativi.
Contro questa sentenza propongono ricorso dapprima la società, affidandolo a sei motivi e poi l’Agenzia, che articola il proprio in sette motivi, cui reagisce la contribuente con controricorso e ricorso incidentale affidato ad un mezzo.
Diritto
1.-Si dispone, ex art. 335 c.p.c. , la riunione dei ricorsi, perchè aventi ad oggetto la medesima sentenza.
2.-Va dichiarata l’inammissibilità del ricorso incidentale proposto in via condizionata dalla società in risposta al ricorso incidentale ad essa notificato dall’Agenzia, che censura l’omessa pronuncia sulla mancanza di motivazione in relazione alle deduzioni proposte dalla società in risposta ai rilievi formulati D.P.R. n. 600 del 1973 , ex art. 37-bis.
L’inammissibilità di un tale ricorso, col quale, in definitiva, la parte vittoriosa in sede di merito ripropone questioni su cui i giudici di appello non si sono pronunciati, avendole ritenute assorbite dalla statuizione adottata, scaturisce dal fatto che tali questioni, nel caso di cassazione della sentenza, restano impregiudicate e possono essere dedotte davanti al giudice di rinvio (vedi, da ultimo, Cass. 15 gennaio 2016, n. 574).
3.- Seguendo l’ordine logico delle questioni, va poi esaminato il sesto motivo del ricorso principale, col quale la società lamenta la nullità della sentenza impugnata, là dove il giudice d’appello si è limitato, nel respingere l’appello incidentale della contribuente, a trascrivere la motivazione di primo grado, senza alcuna autonoma valutazione.
La censura va risolta alla luce del principio affermato dalle sezioni unite della Corte (con sentenza 16 gennaio 2015, n. 642), secondo il quale la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari, senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esauriente. Ciò in quanto in base alle disposizioni costituzionali e processuali tale tecnica di redazione non si può ritenere, di per sè, sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità nè dei contenuti nè delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato.
4..- Proseguendo nella sequenza logica dei temi proposti dal ricorso principale, occorre quindi esaminarne, congiuntamente perchè connessi, il terzo ed il quinto motivo, con i quali, rispettivamente, la società lamenta:
-ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 72 e 76, nel testo all’epoca vigente, là dove la Commissione non ha valorizzato la condotta della società che, al fine di determinare l’accantonamento deducibile per rischi su cambi ed il valore del fondo rischi su cambi nel periodo d’imposta in contestazione, ha applicato il principio di coerenza valutativa, il quale comporta l’applicazione del cambio medio dell’ultimo mese dell’esercizio sia ai crediti, sia ai debiti di valuta, sia a tutte le operazioni di copertura, coerente, in base a prassi costante, con l’art. 72 -terzo motivo;
-ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’ art. 103-bis del tuir, nel testo all’epoca vigente, là dove il giudice d’appello, nel determinare la quota deducibile degli accantonamenti su rischi di cambio e delle rettifiche del valore del fondo rischi su cambi nel periodo d’imposta in considerazione, non ha fatto applicazione dell’art. 103-bis, il quale disciplinava, anche per enti diversi da quelli creditizi e finanziari, la deducibilità dei componenti negativi da valutazione delle operazioni a termine in valuta, nei limiti di cui al D.Lgs. n. 87 del 1992, art. 21 comma 2, lett. b, -quinto motivo.
In base al testo del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 72, vigente sino al 31 dicembre 2003 e dunque applicabile alla fattispecie in esame, che concerne l’anno d’imposta 2000, gli accantonamenti al fondo di copertura dei rischi di cambio erano deducibili nel limite rappresentato dalla differenza negativa tra:
– il saldo dei crediti e dei debiti in valuta estera risultanti in bilancio valutati secondo il cambio dell’ultimo mese dell’esercizio;
– il saldo degli stessi crediti e debiti valutati secondo il cambio del giorno in cui erano sorti o del giorno antecedente più prossimo e, in mancanza di tali cambi, secondo il cambio del mese in cui erano sorti.
La differenza si considerava negativa in caso di:
– riduzione del saldo attivo, vale a dire della differenza positiva tra crediti e debiti in valuta risultanti in bilancio;
– incremento del saldo passivo, vale a dire della differenza negativa tra crediti e debiti in valuta estera risultanti in bilancio.
Gli accantonamenti, dunque, erano considerati deducibili se e nella misura in cui le differenze di cambio, determinate dal confronto tra il saldo dei crediti e dei debiti in valuta straniera, valutati secondo il cambio dell’ultimo mese di esercizio – c.d. cambio effettivo, rilevato al momento del regolamento monetario- ed il saldo dei medesimi crediti e debiti, valutati secondo il cambio originario -c.d. cambio storico, rilevato al momento dell’iniziale iscrizione in contabilità delle partite in moneta estera-, evidenziassero un andamento dei cambi sfavorevole all’impresa (per diminuzione del saldo attivo oppure per aumento di quello passivo).
La deduzione era bilanciata, in caso d’inversione di tendenza dell’andamento dei cambi, dal recupero a tassazione del fondo accantonato nella misura in cui esso fosse divenuto superiore al nuovo risultato del confronto.
In seno a questo sistema, poichè l’accantonamento è volto a coprire il rischio di eventuali oscillazioni negative del cambio, non vi è motivo di includere nel computo poste relative alle quali il rischio fosse stato già coperto mediante contratti di vendita a termine di valute estere o contratti di assicurazione: si finirebbe, altrimenti, col duplicare il relativo componente negativo di reddito riferibile alla medesima operazione, consentendo sia la deduzione del premio pagato a fronte del contratto di vendita a termine o di assicurazione, sia la deduzione del correlativo accantonamento.
In definitiva, il sistema contabile prefigurato dall’art. 72 era ispirato al principio di globalità, l’applicazione del quale imponeva una valutazione complessiva di tipo forfettario, volta a compensare le differenze di cambio attive e passive che si generavano su tutti i crediti e i debiti in valuta, evidenziandone il risultato netto. Il metodo prevedeva la correzione indiretta delle partite, mantenute ai valori storici nello stato patrimoniale, mediante l’iscrizione, nel passivo dello stato patrimoniale, sub B.3) dell’art. 2424 c.c. , del fondo rischi e l’imputazione a conto economico delle differenze di conversione, sia negative sia positive.
Il fatto che fosse previsto l’accantonamento del solo saldo negativo di conversione, peraltro, propiziava anche un risparmio fiscale altrimenti non ottenibile, consistente nel differimento della tassazione di eventuali utili netti su cambi.
4.1.-Risponde ad una diversa logica l’ art. 76 del t.u.i.r., il quale, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, disponeva che “la valutazione, secondo il cambio alla data di chiusura dell’esercizio, dei crediti e dei debiti in valuta estera risultanti in bilancio, anche sotto forma di obbligazioni o titoli similari, è consentita se effettuata per la totalità di essi”, imputando a conto economico i rispettivi proventi ed oneri di conversione. La norma assume dunque a riferimento un valore di cambio diverso, ossia il cambio di chiusura, rilevato al momento della redazione del bilancio con riferimento alle partite, creditorie e debitorie, ancora attuali ed in attesa di essere incassate o pagate.
In questo contesto, il richiamo all’art. 72 contenuto nell’art. 76 su cui punta la società non può che riferirsi esclusivamente al caso in cui non siano stati adeguatamente considerati i contratti di vendita a termine di valuta straniera o di contratti di assicurazione, che producono l’effetto della copertura dei rischi di oscillazione dei cambi, andando ad incidere sulla valutazione mediante la conversione diretta richiesta dalla norma.
Coerentemente, anche il metodo contabile prescelto dall’art. 76 risponde ad una logica opposta rispetto a quello prescritto dall’art. 72.
Nel caso dell’art. 76 al contribuente era riconosciuta la facoltà non già di operare in maniera forfettaria una compensazione, secondo una logica matematica, sibbene di procedere alla conversione diretta dei singoli crediti e debiti in moneta estera, ancora in essere in bilancio alla data di chiusura dell’esercizio, al cambio puntuale vigente a tale data.
Questo metodo valutativo, per conseguenza, a differenza dell’altro (recte, contrariamente all’altro), implica la necessità che siano valutati la totalità dei debiti e dei crediti, senza poter ricorrere a considerazioni forfettarie.
4.2.- Di qui scaturisce l’ineludibile conseguenza dell’impossibilità di commistione e d’integrazione fra i due metodi, che la prospettazione della società propone, in maniera tra l’altro arbitraria, perchè riferita al “tasso medio dell’ultimo mese di esercizio”, estraneo sia al primo, sia al secondo metodo.
Nessuna coerenza valutativa è dunque predicabile, traducendosi, anzi, l’opzione proposta in una manifesta incoerenza di applicazione frammista dei due metodi. Correttamente, per conseguenza, il giudice d’appello ha rimarcato l’alternatività dei due metodi di valutazione, cui va aggiunta la valutazione della loro disomogeneità, a fondamento del giudizio d’impossibilità del loro contestuale impiego.
4.3.-Infondata è altresì la contestazione riguardante l’applicabilità del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 103-bis, che il giudice d’appello ha riferito ai soli enti creditizi e finanziari.
Indubbiamente, come rileva la contribuente, il comma 2-bis della norma prescrive che “i criteri di valutazione previsti dal comma 2 si applicano anche per i soggetti, diversi dagli enti creditizi e finanziari, che nei conti annuali valutano le operazioni fuori bilancio di cui al comma 1”.
Ma tanto non giova alle ragioni del ricorso.
L’art. 103-bis disciplina operazioni di acquisto di valute o di titoli a termine, con individuazione predefinita di un determinato tasso di cambio – c.d. operazione fuori bilancio o outright valutario- escludendo, limitatatamente alle fiscalità di outrights in corso alla data di chiusura dell’esercizio, che se ne debba attendere l’esito definitivo, alla scadenza del termine (Cass. 31 marzo 2008, n. 8257).
Il che comporta che si debba aver riguardo ai soggetti i quali, pur non essendo enti creditizi o finanziari, comunque abbiano acquistato valute o titoli a termine, non già a soggetti, come la contribuente, che le valute o i titoli a termine abbiano ceduto.
Va quindi affermato il seguente principio di diritto:
“In tema di irpeg, il metodo contabile prescritto ratione temporis per la deducibilità degli accantonamenti su rischi di cambi implicava una valutazione complessiva di tipo forfettario, configurandosi come alternativo e disomogeneo rispetto a quello consistente nella conversione diretta di tutti i crediti e debiti in valuta estera al cambio in vigore alla data di chiusura dell’esercizio, tenendo conto dell’effetto di copertura dei rischi di oscillazione dei cambi dovuto alla stipulazione di contratti di vendita a termine di valuta straniera o di assicurazione”.
5.- Fondato è, invece, il primo motivo del ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 4, col quale la società denuncia la nullità della sentenza per omessa pronuncia sul motivo di appello riguardante l’errata omessa applicazione, in sede di liquidazione della maggiore irpeg dovuta, dell’aliquota agevolata dual income fax, in violazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, art. 1. Il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 1, comma 5, che la disciplinava, comportava che gli incrementi dovuti ai conferimenti in danaro rilevassero a partire dalla data del versamento, mentre i decrementi rilevavano dall’esercizio in cui si erano verificati. Ne consegue (Cass. 6 luglio 2011, n. 14922) che l’incremento patrimoniale che la conferente può utilizzare per beneficiare dell’aliquota irpeg agevolata (c.d. base dit) dev’essere sempre ridotto dell’intero ammontare dei conferimenti in danaro che la società abbia operato nell’anno d’imposta, senza tener conto del momento in cui il versamento è stato eseguito e perciò senza ragguagliare l’importo del versamento, in ragione annuale, a tale momento.
Mancando ogni pronuncia sul punto, benchè la stessa narrativa della sentenza impugnata riferisca che la contribuente “chiede…dichiarare l’Ufficio tenuto a riliquidare l’imposta in applicazione dell’aliquota DIT”, la censura va accolta, con rinvio, previa cassazione della sentenza, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Lombardia, affinchè, nel conformarsi al principio indicato verifichi la sussistenza dei presupposti di fatto per l’applicazione dell’agevolazione.
6.- Infondato è poi il quarto motivo del ricorso principale, col quale la società lamenta, ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 1, là dove il giudice d’appello non ha considerato che la società, allorquando ha applicato il principio di coerenza valutativa, si è adeguata alla costante prassi interpretativa, di per sè conforme all’ art. 72 del t.u.i.r..
Anzitutto, si è visto, la prassi interpretativa invocata non è affatto di per sè conforme all’ art. 72 del t.u.i.r. nel testo applicabile all’epoca dei fatti.
Ma, e soprattutto, mal posta è la censura, che riguarda la determinazione dell’ammontare deducibile degli accantonamenti e le rettifiche del valore del fondo, giacchè qualora il contribuente si sia conformato ad un’interpretazione erronea fornita dall’amministrazione finanziaria, è esclusa soltanto l’irrogazione delle relative sanzioni e degli interessi, senza alcun esonero dall’adempimento dell’obbligazione tributaria (tra varie, Cass. 9 marzo 2012, n. 3757).
6.- Col secondo motivo del ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 4, la contribuente lamenta la nullità della sentenza per l’omessa pronuncia sul motivo di appello riguardante l’inapplicabilità, giusta il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 e art. 6, comma 2, la L. n. 212 del 2000, art. 10,comma 3, e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, delle sanzioni dovute a riprese a tassazione conseguenti a violazioni del principio di competenza. La società rimarca di aver introdotto ritualmente in giudizio e di aver riproposto al giudice d’appello la tesi dell’inapplicabilità delle sanzioni derivanti dall’erronea imputazione a periodo di elementi di reddito, che configura come violazione formale senza maggior debito o credito d’imposta.
L’omissione di pronuncia, se pure sussistente, non è rilevante, di guisa che i principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. , comma 2, nonchè una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c. comportano la possibilità di omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, esaminando il merito del ricorso, risultando evidente che la pronuncia da rendere, che non richieda ulteriori accertamenti di fatto, debba andare a confermare il dispositivo della sentenza di appello (tra varie, Cass. ord. 11 aprile 2012, n. 5729; 21 marzo 2014, n. 6662).
6.1.- Sulla questione dedotta la Corte ha già avuto occasione di precisare (Cass. 13 settembre 2013, n. 20975) che il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 1, esclude la sanzionabilità delle “rilevazioni eseguite nel rispetto della continuità dei valori di bilancio e secondo corretti criteri contabili”, oltre che delle valutazioni eseguite secondo corretti criteri di stima, ma che questa causa di non punibilità non può legittimare la violazione, ad opera del contribuente, del principio di competenza fiscale, quand’anche siano stati puntualmente osservati i corretti principi contabili, ammettendosi altrimenti la non sanzionabilità di condotte fiscalmente illecite solo perchè, dal punto di vista civilistico- contabile, l’operato del contribuente risulti corretto.
A maggior ragione il principio va applicato nel caso in esame, in cui la stessa contribuente riconosce di aver erroneamente applicato il principio di competenza. Ed una tale erronea applicazione non si traduce in una violazione formale non punibile, ossia in una violazione meramente formale, la quale deve rispondere ai due concorrenti requisiti, di non arrecare pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e, al contempo, di non deve incidere sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo (Cass. 8 marzo 2013, n. 5897; conformi, 14402/14; 27211/14; 15767/15). Là dove la violazione del principio di competenza è di per sè idonea almeno ad ostacolare l’esercizio dell’azione di controllo.
Nessun rilievo assumono poi, per un verso, la dedotta mancanza di dolo, risultando sufficiente, a norma del D.Lgs. n. 472 del 1997 art. 5, che la violazione sia commessa con coscienza e volontà, gravando sul contribuente l’onere di provare l’assoluta mancanza di colpa (tra varie, Cass. 3 giugno 2015, n. 11433) e, per altro verso, la dedotta incertezza normativa, postulata, secondo la prospettazione offerta in ricorso, di per sè per “l’errata imputazione a periodo di elementi reddituali”.
7.- Quanto al ricorso incidentale dell’Agenzia, ne va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del sesto e del settimo motivo, con i quali l’ufficio denuncia, in entrambi i casi ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, l’insufficienza della motivazione della sentenza (sesto motivo) e la sua contraddittorietà (settimo motivo), là dove, per un verso, il giudice d’appello ha trascurato che le differenze negative contabilizzate in relazione alle operazioni di copertura comprendono anche la parte di premio riconducibile al periodo precedente all’esercizio in esame e, per altro verso, ha contraddittoriamente escluso la recuperabilità dei costi di lire 470.300.000 perchè non di competenza dell’esercizio, pur essendo in tale somma compresa quella di lire 97.376.000, che la Commissione ha considerato deducibile in quanto di competenza dell’anno in esame.
Ciò in quanto anzitutto i due motivi non sono corredati del quesito di fatto, pur essendo l’impugnazione della sentenza soggetta ratione temporis al regime dell’art. 366-bis c.p.c. , che, secondo l’interpretazione fornitane dalla Corte, lo prescriveva. Manca inoltre una precisa specifica indicazione del contenuto dei documenti su cui l’ufficio fa leva a sostegno del sesto motivo, il che rifluisce anche sul difetto di specificità del settimo, strettamente correlato al precedente.
8.- Infondato è il primo motivo del ricorso incidentale, proposto ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 4, col quale l’Agenzia lamenta la motivazione apparente della sentenza, là dove il giudice d’appello avrebbe anapoditticamente escluso la sussistenza di valide ragioni economiche a sostegno dell’operazione di riorganizzazione societaria sunteggiata in narrativa.
La sentenza dà conto difatti, sia pure in maniera concisa, del percorso seguito dalla Commissione, la quale ha fatto leva sulla “…semplificazione della struttura societaria e – sulla…focalizzazione del ruolo e dei futuri sviluppi di ogni società partecipante all’operazione”, a suo dire emergenti dal “…capo H della memoria, presentata il 05.05.2008 dalla ricorrente e non contrastata dall’Ufficio”.
9.- Fondato è, invece, il secondo motivo del ricorso incidentale, che spiega efficacia assorbente del terzo, col quale, ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, l’ufficio denuncia l’insufficienza della motivazione, là dove la Commissione ha trascurato di esplicare il contenuto della memoria e, quindi, di chiarire le valide ragioni economiche, pure a fronte delle considerazioni di segno opposto compiutamente sviluppate in appello, del quale trascrive lo stralcio rilevante. A fronte della ricostruzione offerta, secondo la quale la riorganizzazione societaria ha prodotto la creazione di una società in tutto e per tutto assimilabile a quella precedente all’operazione, le affermazioni contenute in sentenza sono del tutto inappaganti, in quanto non esplicano gli argomenti, asseritamente indicati nella memoria di parte, idonei a superare le deduzioni dell’ufficio.
10.- Fondato è poi il quarto motivo del ricorso incidentale, proposto ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 4, col quale l’ufficio lamenta il vizio di motivazione apparente della sentenza impugnata, in relazione al capo concernente la ripresa dell’iva, là dove la Commissione ha fatto leva su altra sentenza resa dalla Commissione, della quale ha assunto l’identità oggettiva e soggettiva.
La motivazione della sentenza per relationem è ammissibile, purchè il rinvio sia operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione (sentenze nn. 13937/02, 979/09, 3367/11 e, più recente, 11 maggio 2012, n. 7347); ma è parimenti vero che, per poter ritenere che la motivazione per relationem sia idonea a soddisfare l’obbligo motivazionale imposto dall’art. 132 c.p.c. , comma 2, n. 4, è necessario che stessa dia conto delle argomentazioni delle parti e della identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto del rinvio. Nella specie, la sentenza gravata risulta completamente priva anche della mera enunciazione degli argomenti delle parti, assumendo anche il passaggio in giudicato della sentenza oggetto di rinvio, che l’ufficio contesta; ed anche quanto all’identità oggettiva e soggettiva delle controversie, giudice d’appello si limita ad un’affermazione apodittica, senza alcuna esplicazione di contenuto.
11.- L’accoglimento di questo motivo determina l’assorbimento del quinto, calibrato sull’insufficienza della motivazione.
12.- In definitiva, del ricorso principale va accolto il solo primo motivo, respinti gli altri, mentre vanno accolti il secondo ed il quarto motivo del ricorso incidentale proposto dall’Agenzia, assorbiti il terzo ed il quinto e respinti i restanti.
Per questi aspetti la sentenza va cassata, con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Lombardia, affinchè riesamini la fattispecie e regoli le spese.
P.Q.M.
la Corte:
dispone la riunione dei ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso incidentale proposto dalla società e ne accoglie, nei limiti specificati in motivazione, il solo primo motivo di quello principale, respinti gli altri; rigetta il primo motivo del ricorso incidentale proposto dall’Agenzia, accoglie il secondo, in esso assorbito il terzo, accoglie il quarto, in esso assorbito il quinto, rigetta il sesto ed il settimo motivo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione complessiva delle spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Lombardia.
Così deciso in Roma, il 7 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2016
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