CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 giugno 2018, n. 14964
Tributi – Agevolazioni fiscali “prima casa” – Revoca – Immobile con caratteristiche di lusso – Qualificazione – Disciplina anteriore all’art. 10, co. 1, lett. a), D.Lgs. n.23 del 2011 – Recupero maggiori imposte – Regime sanzionatorio – Principio del favor rei – Esclusione delle sanzioni
Fatti di causa
L’Agenzia delle Entrate, con tre avvisi di liquidazione d’imposta, accertava che la contribuente D.D. aveva indebitamente usufruito delle agevolazioni edilizie previste per l’acquisto della prima casa, di cui alla nota II bis apposta all’art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al d.p.r. n. 131 del 1986, in quanto l’immobile acquistato, grazie anche ai mezzi finanziari derivanti da due collegati contratti di mutuo, doveva essere considerato di lusso, in quanto avente superficie utile superiore a mq. 240, ed un’area scoperta di pertinenza superiore di oltre sei volte la superficie coperta, e pertanto ne disponeva il recupero del dovuto, applicando interessi e sanzioni.
Avverso gli avvisi in questione la contribuente proponeva ricorso davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Udine, che lo respingeva, con sentenza confermata dalla Commissione Tributaria Regionale del Friuli Venezia Giulia, la quale disattendeva l’appello ritenendo sufficiente la motivazione degli atti impositivi, stante la richiamata ed allegata perizia dell’Agenzia del Territorio, da cui emergevano i criteri utilizzati per il computo della superficie utile complessiva dell’immobile, in conformità delle prescrizioni di legge, ed osservando che, alla luce della nuova perizia, la quale aveva parzialmente accolto le deduzioni difensive, nel computo di tale superficie dovessero essere esclusi gli “altri spazi estranei all’elenco tassativo previsto” dal d.m. Lavori Pubblici 2 agosto 1969 n. 1072, dei quali neppure era stata prospettata la inagibilità.
Avverso la sentenza la contribuente ha proposto ricorso per cassazione con cinque motivi, illustrati con memoria, cui resistite con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, insufficiente motivazione della sentenza impugnata circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, giacché non dà conto della doglianza della appellante contribuente concernente la mancata specificazione, nella allegata perizia dell’Agenzia del Territorio, dei conteggi metrici effettuati e dei vani inclusi nei conteggi medesimi, e del fatto che in tal modo si è reso impossibile comprendere le ragioni tecniche su cui si basa l’imposizione, non avendo il giudice di secondo grado esplicitato il percorso logico seguito per superare la denunciata carenza informativa di cui è affetta suddetta perizia.
Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, insufficiente motivazione della sentenza impugnata circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, giacché la CTR non ha considerato che la perizia di parte prodotta in giudizio dalla contribuente aveva escluso dai conteggi quegli spazi che non sono abitabili, o per natura o perché non conformi alle norme edilizie e igienico sanitarie, con particolare riferimento al vano denominato cucina ed al vano scale.
Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione di norme di diritto, segnatamente, l’art. 5 del D.M. Lavori Pubblici 2 agosto 1969 n. 1072, posto che per determinare la superficie di un’abitazione occorre escludere anche il vano scale, per intero e non limitatamente alla superficie dei soli gradini delle scale medesime.
Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione di norme di diritto, segnatamente, l’art. 5 del citato d.m. Lavori Pubblici 2 agosto 1969 n. 1072, giacché la CTR ha considerato illegittima l’esclusione, operata dal perito di parte, della taverna, portico, centrale termica, lavanderia, cucina e vano scale, quando invece la cucina è costituita da una porzione di portico dotata di copertura di materiale plastico priva di finestre e di adeguata ventilazione, e quindi è inabitabile mancando i requisiti minimi di abitabilità e igienico sanitari previsti dalle vigenti normative.
Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, insufficiente motivazione della sentenza impugnata circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, giacché la CTR non ha considerato la sussistenza di obbiettive condizioni di incertezza sull’interpretazione dell’art. 8, d.lgs. n. 546 del 1992, per cui sono inapplicabili le sanzioni che, unitamente agli altri accessori, sono pretese dal Fisco.
Il primo motivo d’impugnazione è inammissibile, per difetto di autosufficienza, in quanto non vengono trascritti i documenti richiamati e, segnatamente, la perizia dell’Agenzia del Territorio (Cass. n. 16134/2015, n. 8569/2013), ed è comunque infondato atteso che, come la CTR ha puntualmente evidenziato, “la perizia di stima eseguita dall’Agenzia del Territorio doveva contenere, ed in effetti contiene, i parametri tecnici di indicazione dell’immobile (…) e le superfici, utile complessiva e dell’area scoperta pertinenziale, precisando che la superficie era stata calcolata < al netto delle murature interne e di quelle perimetrali, con esclusione della consistenza di balconi, terrazze, scale, cantine e soffitte >”, come peraltro riscontrabile dalle “allegate planimetrie dell’immobile e dell’area scoperta”.
La motivazione della sentenza impugnata resiste alle critiche della contribuente, che si risolvono in una contrapposizione di differenti valutazioni della consistenza dell’immobile, le quali, a ben vedere, confermano il pieno ed immediato esercizio, da parte della odierna ricorrente, delle proprie facoltà difensive.
Il secondo, il terzo ed il quarto motivo d’impugnazione, scrutinabili congiuntamente in quanto strettamente connessi, investono il merito della controversia e si appalesano inammissibili laddove sollecitano, in questa sede di legittimità, un riesame degli elementi probatori valutati dai giudici di merito, allo scopo di contrastare la ritenuta prevalenza dell’efficacia dimostrativa della perizia dell’Ufficio, emendata peraltro all’esito dell’eseguito sopralluogo, rispetto all’accertamento di cui alla perizia di parte, essendo possibile soltanto un controllo < estrinseco > della delibazione del giudice di appello.
Questa Corte, decidendo analoghe controversie, ha avuto modo di affermare il principio secondo cui, “in tema di imposta di registro, per stabilire se un’abitazione sia di lusso e, quindi, esclusa dai benefici per l’acquisto della prima casa ai sensi dell’art. 1, parte prima, nota D bis della tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, occorre fare riferimento alla nozione di < superficie utile complessiva > di cui all’art. 6 del d.m. Lavori Pubblici 2 agosto 1969, in forza del quale è irrilevante il requisito della <abitabilità > dell’immobile, siccome da esso non richiamato, essendo invece rilevante quello della < utilizzabilità > degli ambienti, a prescindere dalla loro effettiva abitabilità” (Cass. n. 1173/2016; n. 861/2014; n. 25674/2013; n. 22279/2011).
La CTR, dunque, ha fatto applicazione del principio che precede, avendo ritenuto “del tutto arbitraria l’esclusione, operata dal geom. C. della taverna, portico, centrale termica, lavanderia, cucina e < vano > scale. Infatti, è proprio da siffatta, ed illegittima, esclusione di superfici utili che si determina la differenza tra le due valutazioni”, e che risulta sussistente, poi, anche l’altro parametro concorrente della pertinenza di < un’area di pertinenza dell’immobile determinata, già nella perizia di stima dell’Agenzia del Territorio, e mai contestata dalla parte, risulta pari a mq. 3.099,75″, valore accertato, alla luce del citato d.m., senza tenere conto, in quanto ininfluenti, delle “caratteristiche morfologiche dello stesso, essendo sufficiente che trattasi di area scoperta pertinenziale all’immobile”.
La decisione è giuridicamente corretta in quanto il giudice di appello, esaminando la perizia di parte, ha escluso che, ai fini del calcolo della superficie complessiva rilevante per la qualificazione di < lusso > dell’immobile, possa valutarsi l’abitabilità o meno di taluni dei vani che lo compongono, perché non conformi ai parametri previsti dalla normativa edilizia, trattandosi di requisito non richiamato dall’art. 6 del d.m. Lavori Pubblici 2 agosto 1969, che fa riferimento alle singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mg. 240 (esclusi balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine) mentre costituisce parametro idoneo utilizzabilità > degli ambienti, nel caso di specie oggettivamente sussistente, per cui, ferma restando la congruità motivazionale della sentenza impugnata, non v’è spazio, in questa sede, per una diversa delibazione fattuale.
Il quinto ed ultimo motivo d’impugnazione, invece, così come meglio illustrato con la memoria difensiva depositata in atti, va accolto per le ragioni di seguito riportate. Non v’è dubbio che i presupposti della revoca dell’agevolazione permangono integri anche alla luce dello jus superveniens di cui all’articolo 10, primo comma, lettera a) D.Leg, n.23 del 2011, il quale, nel sostituire il secondo comma dell’art. 1, parte prima, tariffa allegata al D.P.R. 131 del 1986, ha sancito il superamento del criterio di individuazione dell’immobile di lusso – non ammesso, in guanto tale, ai benefici “prima casa” – incentrato sui parametri di cui al D.M. 2 agosto 1969, il cui elevato tecnicismo ha dato causa ad un elevato contenzioso.
In forza della disciplina sopravvenuta, infatti, l’esclusione dalla agevolazione non dipende più dalla concreta tipologia del bene e dalle sue intrinseche caratteristiche qualitative e di superficie (individuate sulla base del suddetto D.M.), bensì dalla circostanza che la casa di abitazione oggetto di trasferimento sia iscritta in categoria catastale A1, A8 ovvero A9 (rispettivamente: abitazioni di tipo signorie; abitazioni in ville; castelli e palazzi con pregi artistici o storici).
Al fine di allineare allo stesso criterio dell’imposta di registro anche l’agevolazione “prima casa” attribuita con aliquota IVA ridotta, il legislatore è poi intervenuto con l’articolo 33 del D.Lgs. 175 del 2014 che, nel modificare il n. 21 della tab. A, parte seconda, allegato al D.P.R. n. 633 del 1972, ha espressamente richiamato il “criterio catastale”; con il risultato che anche l’agevolazione IVA è esclusa (indipendentemente dalla sussistenza di tutti gli altri requisiti) per gli immobili rientranti in una delle suddette categorie.
Orbene, il nuovo regime trova applicazione ai trasferimenti imponibili realizzati successivamente al 1° gennaio 2014, come espressamente disposto dall’art. 10, comma 5, D.Lgs. 23 del 2011, per cui l’atto di trasferimento dedotto nel presente giudizio, antecedente a questo discrimine temporale, continua ad essere disciplinato in base alla previgente disciplina, sicché resta fermo il pregresso regime impositivo sostanziale, secondo i parametri del D.M. 2 agosto 1969, e la correlata potestà di revoca dell’agevolazione, con conseguente recupero delle imposte dovute dal contribuente in misura ordinaria.
Per quanto concerne, invece, le sanzioni contemplate nell’atto qui impugnato, si impone una diversa soluzione, alla luce del principio del favor rei di cui all’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 472 del 1997, in forza del quale, in materia di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, “salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato”.
In ragione della disposizione sopravvenuta, invero, la condotta che prima integrava una violazione fiscale, e cioè il mendacio del contribuente ricadente sulle caratteristiche non di lusso dell’abitazione acquistata, non avrebbe più possibilità di realizzarsi, in quanto “la riformulazione ex novo della fattispecie legale di non spettanza dell’agevolazione” costituisce “una situazione di favore per il contribuente ancor più radicale ed evidente di quella (prevista nel terzo comma dell’art. 3 D.Lgs. n. 472/97) del sopravvenire di un regime sanzionatorio semplicemente più mite”, fondata com’è “su un parametro (quello catastale) dei tutto differente da quello, precedentemente rinvenibile, fatto oggetto di mendacio” (in senso conforme, Cass. n. 2010/2018, n. 3357/2017, n. 3362/2017, n. 2889/2017, n. 13235/2016).
Il principio di legalità e di favor rei in materia tributaria – già ampiamente valorizzato, in presenza di sanzioni amministrative di sostanziale valenza penale, anche ex artt. 49 della Carta dei diritti fondamentali UE, e 7 CEDU – conduce a considerare che le sanzioni per cui è causa vennero inflitte per avere la contribuente dichiarato che l’immobile acquistato possedeva, contrariamente al vero, qualità intrinseche “non di lusso” (secondo i sopra richiamati parametri ministeriali), vale a dire, per aver reso una dichiarazione che, per effetto della modifica normativa, oggi non avrebbe più alcuna rilevanza per l’ordinamento.
In altri termini, l’accertato mendacio originario della dichiarazione resa a riguardo di requisiti coevi all’atto di acquisto – costituente l’espresso fondamento della sanzione, così come stabilito dal quarto comma dell’articolo 1, parte prima, della tariffa allegata al D.P.R. 131 del 1986 – non avrebbe più modo di realizzarsi, essendo caduta la dichiarazione dell’acquirente su un elemento (caratteristiche non di lusso dell’immobile) espunto come tale dalla fattispecie agevolativa, e, per quanto possa occorrere, l’immobile acquistato dalla D., come evidenziato dalla parte ricorrente, era iscritto catastalmente “in categoria A7” per cui secondo la vigente normativa agevolativa non è di lusso.
E’ vero che la modifica legislativa non ha abolito né l’imposizione (nella specie individuabile nel recupero a piena tassazione dell’agevolazione indebitamente fruita), né le previsioni sanzionatorie derivanti dalla falsa dichiarazione, atteso che il quarto comma della nota II bis dell’art. 1, parte prima, della tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, sia ai fini dell’imposta di registro, sia per l’IVA, dispone ancora che, in caso di dichiarazione mendace, sono dovute le imposte di registro, ipotecaria e catastale (queste ultime applicate in misura fissa) nella misura ordinaria, nonché una sovrattassa pari al 30% delle stesse imposte, e gli interessi di mora, con ciò ponendo la questione – che qui si esamina – della permanenza della legittimità della sua irrogazione dopo la modifica sostanziale apportata nel 2011 al sistema agevolativo.
Si tratta di disciplina dettata a tutela dello specifico interesse di prevenire dichiarazioni mendaci in sede di stipula di atti pubblici di vendita di immobili destinati a prima abitazione, che rivela una impronta chiaramente sanzionatoria nei confronti dell’acquirente, tanto nel caso di mendacio sulle condizioni “soggettive”, contemplate nelle lettere a), b), c), del più volte menzionato art. 1, nota II bis, della tariffa, parte prima, allegata dal D.P.R. n. 131 del 1986, quanto nel caso di mendacio sul presupposto “oggettivo”, oggi rappresentato dalla categoria catastale di iscrizione del fabbricato.
E’, tuttavia, proprio l’oggetto della dichiarazione, costituente elemento normativo della fattispecie, ad essere stato cancellato dall’ordinamento, tanto che, in base al regime sopravvenuto, l’agevolazione ben potrebbe sussistere (in assenza di iscrizione nelle categorie catastali ostative) anche in capo ad immobili abitativi – in ipotesi – connotati dalle caratteristiche la cui mancata o falsa dichiarazione in precedenza avrebbe costituito il motivo della sanzione, il che rende peculiare la presente fattispecie rispetto a quelle con riguardo alle quali è stato affermato che – in difetto di abolitio criminis – permane a carico del contribuente tanto l’obbligo del versamento dell’imposta dovuta prima della modificazione normativa, quanto quello sanzionatorio (Cass. 25754/2014; Cass. 25053/2006).
Del resto, l’interpretazione estensiva del principio del favor rei, riconducibile al contenuto intrinseco della norma, non solo è consentita in via generale, ma neppure appare in concreto preclusa da una previsione espressa e contraria contenuta nella disciplina transitoria.
Non ignora il Collegio che, in fattispecie sostanzialmente sovrapponibile, questa Corte, in altra composizione, con la sentenza n. 18421/2017, proprio in ragione della mancata abrogazione della norma precetto, ha ritenuto di escludere l’applicabilità del canone, di fonte penalistica, dell’applicazione retroattiva della norma più favorevole, in quanto, in assenza di abolitio criminis, resta ininfluente la circostanza che, se l’acquisto dell’abitazione fosse stato fatto oggi, il contribuente avrebbe fruito dei benefici “prima casa”, permanendo integralmente a suo carico tanto l’obbligazione tributaria, che l’applicabilità delle norme sanzionatorie che la assistono, considerato che la fattispecie sanzionatoria che prevedere il mendacio è rimasta identica.
Assolutamente condivisibile appare l’esigenza, come emerge dalla lettura della motivazione della predetta pronuncia, di mantenere fermo il principio secondo cui di abolitio criminis, “in relazione agli illeciti connessi all’accertamento ed alla riscossione di un’imposta”, possa parlarsi “soltanto quando questa venga radicalmente meno, di guisa che essa non possa essere più pretesa e riscossa neppure in riferimento alle annualità pregresse (come a seguito di incostituzionalità dell’obbligazione ILOR per i lavoratori autonomi” ); quando, invece, la legge istitutiva di un’imposta venga abrogata a far tempo da una data stabilita dal legislatore, ma l’imposta continui ad essere dovuta per i fatti verificatisi anteriormente, in relazione ad essi l’obbligo di corrispondere l’imposta rimane in vigore, sicché non sono abrogate le norme sanzionatorie che tale obbligazione tributaria assistono” (Cass. n. 25754/2014, n. 25053/2006 citate).
Infatti, il secondo comma dell’art. 3, D.Lgs. n. 472 del 1997 (“Salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato.”), sovverte il principio tempus regit actum di cui all’art. 20, L. n. 4 del 1929, il quale stabiliva che “Le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione”, e dunque sanciva, in tema di successione di leggi penali tributarie, il principio della c.d. ultrattività, ai sensi del quale si applica sempre la legge in vigore al momento del fatto, anche se essa sia stata successivamente abrogata o modificata, principio che, a ben vedere, rappresenta una deroga a quello della retroattività della legge più favorevole al reo stabilito, per le leggi penali comuni, dall’art. 2, terzo comma, del codice penale.
Il legislatore, mutuando dal diritto penale il principio del favor rei, ha inteso sancire in ambito tributario la regola della non ultrattività della norma (tributaria) sanzionatoria, prevedendo (art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 472 del 1997) che non si possa essere assoggettati a sanzioni per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce più violazione punibile, sia nei casi in cui la legge posteriore si limiti ad abolire la sola sanzione, lasciando in vita l’obbligatorietà del comportamento prima sanzionabile, sia nell’ipotesi in cui venga eliminato un obbligo strumentale e, quindi, solo indirettamente la previsione sanzionatoria, nonché la regola della sanzione più favorevole, ipotesi diversa da quella della eliminazione della sanzione, prevedendo (art. 3, comma 3, D.Lgs. citato) che nel caso di legge vigente al momento della commissione della violazione e di leggi posteriori che stabiliscano sanzioni diverse, venga applicata la sanzione concretamente più favorevole al contribuente.
Ulteriori e rilevanti modifiche legislative sono state apportate, con il D.Lgs. n. 158 del 2015, al sistema sanzionatorio penale tributario, così come a quello delle sanzioni amministrative, intervenendo in particolare sul D.Lgs. n. 471 del 1997 e sul D.Lgs. n. 472 del 1997.
Esse offrono argomenti a conforto della esattezza della linea interpretativa – alla quale il Collegio intende dare continuità – secondo cui la successione di norme nel tempo ha, per il contribuente che ha posto in essere comportamenti irregolari, effetti immediati e la conseguente applicazione del trattamento più favorevole, per cui, nella fattispecie in esame, è venuto meno il titolo per applicare le sanzioni, non certo la falsità delle dichiarazioni della contribuente, in quanto riferite a parametri normativi non più vigenti, proprio perché, riguardo alla condotta da quest’ultima posta in essere, si è spezzato il collegamento tra la norma sanzionatoria (il comma 4, della nota II bis, dell’art. 1, tariffa, parte prima, allegata al d.p.r. n. 131 del 1986) e la noma impositiva, così significativamente modificata.
Né, in conclusione, appare superfluo ricordare che, “in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 3, che ha esteso il principio del favor rei anche al settore tributario, sancendone l’applicazione retroattiva, le più favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute debbono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in sede di legittimità, all’unica condizione che il provvedimento sanzionatorio non sia divenuto definitivo: pertanto, qualora, essendo in contestazione l’an della violazione tributaria, sussista ancora controversia sulla debenza delle sanzioni, s’impone l’applicazione del pìù favorevole regime sanzionatorio sopravvenuto” (Cass. n. 23564/2012, n. 8243/2008, n. 18775/2006).
L’avvenuta contestazione, da parte della contribuente, della legittimità della revoca dell’agevolazione, esclude per ciò solo che sia divenuto definitivo il provvedimento di irrogazione delle sanzioni che da tale revoca consegue, né la questione oggetto di esame comporta accertamenti fattuali di sorta, trattandosi di eliminazione delle sanzioni e non di loro rimodulazione all’esito di una determinata opzione per il regime più favorevole concretamente applicabile.
La sentenza impugnata va in relazione al motivo accolto cassata e, decidendo la causa nel merito, le irrogate sanzioni vanno annullate.
La peculiarità della fattispecie, l’evoluzione della disciplina di riferimento, la relativa novità della esaminata questione, l’esito complessivo della controversia, consentono l’integrale compensazione delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
Rigetta i primi quattro motivi di ricorso, accoglie il quinto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, annulla le sanzioni. Compensa integralmente le spese dell’intero giudizio.
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