CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 06 settembre 2018, n. 21720
Licenziamento disciplinare – Comportamenti non adeguati o professionalmente scorretti con gli ospiti – Genericità della contestazione – Proporzionalità della sanzione
Fatti di causa
Con sentenza in data 17 agosto 2016, la Corte d’appello di Trieste accertava l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato da S. s.r.l. con lettera 9 gennaio 2014 alla dipendente M.B. e, in applicazione dell’art. 18, quinto comma I. 300/1970, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra le parti dal 27 dicembre 2013, condannando la società al pagamento, in favore della lavoratrice, di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva in misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge e alla restituzione della retribuzione, liquidata in € 347,93 oltre accessori maturati, trattenutale per il periodo di sospensione dal lavoro anteriore alla contestazione disciplinare: così riformando la sentenza di primo grado, che, sull’opposizione della lavoratrice avverso l’ordinanza dello stesso Tribunale, aveva accertato la tempestività della sanzione disciplinare e giusta la causa di licenziamento.
A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva la tardività della contestazione e negata, in esito ad argomentato esame delle risultanze istruttorie, l’addebitabilità, per genericità di contestazione con la lettera del 23 dicembre 2003, di “comportamenti non adeguati o professionalmente scorretti con gli ospiti” della Struttura gestita dalla società datrice ulteriori rispetto all’episodio del 10 dicembre 2013 (di soprusi verbali e maltrattamento fisico inferto dalla lavoratrice, addetta all’assistenza di 3° livello, all’ospite N.P.), riteneva illegittimo il licenziamento intimato, non però di gravità tale da giustificare la massima sanzione espulsiva, ma piuttosto quella conservativa di sospensione dal servizio fino a quattro giorni, rientrando tra le ipotesi da essa sanzionate. E ciò ne comportava l’applicazione, secondo la stessa richiesta della lavoratrice, del regime di tutela indennitario previsto dal testo novellato dell’art. 18, quinto comma I. 300/1970: con liquidazione nella misura minima di dodici mensilità, tenuto conto della modesta anzianità di servizio e del comportamento riprovevole di M.B.
Avverso tale sentenza la società, con atto notificato il 14 ottobre 2016, ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui resisteva la lavoratrice con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c. e 329, secondo comma c.p.c., anche come error in procedendo, per la formazione di giudicato sulla parte di ordinanza del Tribunale, a conclusione della fase sommaria del giudizio di primo grado, relativa alla gravità dell’episodio del 10 dicembre 2013 e alla proporzionalità del licenziamento alle ipotesi stabilite dall’art. 29 CCNL applicato, in quanto non oggetto dell’opposizione incidentale della società datrice, limitata al regime di tutela indennitaria forte (ai sensi dell’art. 18, quinto comma I. 300/1970), erroneamente applicato, né di quella incidentale della lavoratrice per il mancato accoglimento della domanda restitutoria dell’importo di € 1.197,17, indebitamente trattenutole a titolo di sospensione dal servizio.
2. Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., anche come error in procedendo, per vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata, non limitatasi a pronunciare sulle domande delle parti di conferma dell’ordinanza del Tribunale, all’esito della fase sommaria del giudizio di primo grado, in assenza di specifica domanda di applicazione del regime di tutela stabilito dall’art. 18, quinto comma I. 300/1970, come novellato dall’art. 1, comma 42, lett. b) I. 92/2012.
3. Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 18, quinto comma I. 300/1970, per la non integrazione della rilevata mancanza di domanda della lavoratrice (di reintegrazione nel posto di lavoro), in quanto ragione di carattere processuale, di alcuna delle “altre ipotesi” previste dalla norma denunciata in vista dell’applicazione del regime di tutela indennitaria forte.
4. Con il quarto, la ricorrente deduce nullità della sentenza per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili che ne inficiano la coerenza sotto il profilo motivo, in riferimento all’inutilizzabilità come fatti costitutivi del licenziamento dei “comportamenti” ulteriori rispetto all’episodio del 10 dicembre 2013 addebitato alla lavoratrice, in quanto genericamente contestati, tuttavia recuperati in funzione di elementi rilevanti per la valutazione dell’elemento psicologico dell’illecito e della conseguente gravità dell’infrazione commessa dalla lavoratrice, in difetto di istruzione della causa in ordine a tali elementi, sotto il detto ultimo profilo.
5. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c. e 329, secondo comma c.p.c., anche come error in procedendo per la formazione di giudicato sulla parte di ordinanza del Tribunale ai sensi dell’art. 1, comma 49 I. 92/2012 non oggetto di opposizione, è infondato.
5.1. Non sussiste la prospettata formazione di un giudicato, che, come noto, presuppone un atteggiamento di acquiescenza a fronte della possibilità di esperire un rimedio impugnatorio avverso un provvedimento giudiziale idoneo all’acquisizione di un tale carattere (Cass. s.u. 26 gennaio 2011, n. 1764; Cass. 23 settembre 2016, n. 18693; Cass. 27 febbraio 2017, n. 4908).
5.2. Ma una tale idoneità non ha l’ordinanza conclusiva della fase sommaria del giudizio di primo grado, salvo che in caso di omessa opposizione (Cass. s.u. 18 settembre 2014, n. 19674), posto che nel cd. “rito Fornero” il giudizio di primo grado è unico a composizione bifasica: con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore ed una seconda, a cognizione piena, che non costituisce un grado diverso (Cass. 17 febbraio 2015, n. 3136; Cass. 3 marzo 2016, n. 4223) rispetto al giudizio a cognizione sommaria, che non è una revisio prioris instantiae, ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non più urgente (Cass. 21 novembre 2017, n. 27655).
6. Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., anche come error in procedendo, per vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata non limitatasi a pronunciare sulle domande di conferma dell’ordinanza del Tribunale, è infondato.
6.1. Giova segnalare un profilo di inammissibilità per difetto di interesse, essendo stata la misura dell’indennità risarcitoria ridotta dalla Corte territorale, dalle sedici liquidate allo stesso titolo dall’ordinanza del Tribunale, a dodici mensilità. Ed è noto che, in tema di impugnazioni, l’interesse ad agire, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., postuli la soccombenza nel suo aspetto sostanziale, correlata al pregiudizio che la parte subisca a causa della decisione: sicchè, deve essere apprezzato in relazione all’utilità giuridica che può derivare al proponente il gravame dall’eventuale suo accoglimento (Cass. 12 aprile 2013, n. 8934; Cass. 9 settembre 2013, n. 20609), nel caso di specie assente.
6.2. Ma soprattutto non ricorre alcun vizio di ultrapetizione, consistente nel mancato rispetto da parte del giudice del limite del petitum e della causa petendi, in violazione del divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso: ed esso sussiste quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass. 11 gennaio 2011, n. 455; Cass. 24 settembre 2015, n. 18868).
6.3. Nel caso di specie, si tratta piuttosto di un’interpretazione della domanda, che, anche ai fini della selezione della tutela applicabile al lavoratore che abbia tempestivamente impugnato il licenziamento intimatogli, rientra nel potere di valutazione del giudice di merito (Cass. 24 luglio 2012, n. 12944), quale espressione del principio generale per il quale, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, egli non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse siano contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cass. 2 novembre 2005, n. 21208; Cass. 14 novembre 2011, n. 23794; Cass. 7 gennaio 2016, n. 118).
7. Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 18, quinto comma I. 300/1970 per esclusione dell’assenza di domanda della lavoratrice (di reintegrazione nel posto di lavoro) dalle “altre ipotesi” di applicazione del regime di tutela indennitaria forte, è inammissibile.
7.1. Appare qui evidente il difetto di interesse della ricorrente (Cass. 12 aprile 2013, n. 8934; Cass. 9 settembre 2013, n. 20609), posto che il regime di tutela correttamente applicabile sarebbe stato (in conseguenza dell’accertamento di non ricorrenza degli estremi della giusta casa, rientrando “il fatto … tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsione dei contratti collettivi” ) di tutela reintegratoria attenuata, a norma dell’art. 18, quarto comma I. 300/1970 (Cass. 26 maggio 2017, n. 13383, in parte motiva).
8. Il quarto motivo, relativo a nullità della sentenza per contrasto irriducibile tra le affermazioni inconciliabili in ordine alla contraddittoria valutazione, sotto diversi profili, dei “comportamenti” della lavoratrice ulteriori rispetto all’episodio del 10 dicembre 2013, è infondato.
8.1. Deve innanzi tutto essere escluso un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, tale da integrare un’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé (purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali), secondo una corretta interpretazione, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. operata dall’art. 54 d.l. 83/2012, conv. in I. 134/2012 (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 8 ottobre 2014, n. 21257; Cass. 20 novembre 2015, n. 23828; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940).
8.2. Ma neppure ricorre il contrasto denunciato, per la coerenza delle affermazioni di rilevanza, nella valutazione dell’elemento psicologico dell’illecito e della sua gravità, di elementi che pure siano inutilizzabili alla stregua di fatti costitutivi del licenziamento intimato per la loro generica contestazione (dal penultimo capoverso di pg. 9 al secondo di pg. 10 della sentenza), così da giustificare la ravvisata inutilità di un’istruzione ulteriore della causa in ordine ad essi: siccome frutto di argomentata valutazione di completezza dei dati in ordine alla gravità del fatto addebitato alla lavoratrice, in esito ad articolato ragionamento motivo (dal penultimo capoverso di pg. 11 al penultimo di pg. 12 della sentenza), di spettanza esclusiva del giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, siccome esente dal vizio denunciato nei limiti suindicati.
9. Dalle superiori argomentazioni discende pertanto il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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