CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 settembre 2018, n. 23610
Lavoro – Imprese esercenti servizi di pulizia – Interpretazione di una norma di contratto collettivo – Meccanismo di adeguamento delle retribuzioni
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Reggio Calabria, con sentenza del 21 marzo 2014, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato la I.S. Spa alla corresponsione in favore di M.V. dell’importo differenziale pari ad euro 30,09 per ciascuna mensilità di retribuzione dovuta nel periodo 1° gennaio 2007 – 31 dicembre 2007, oltre accessori e spese.
La Corte territoriale, interpretando l’art. 22 del CCNL per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di pulizia del 25 maggio 2001, ha ritenuto che il meccanismo di adeguamento delle retribuzioni ivi descritto – definito dalle parti sociali come <incremento automatico biennale> senza distinguere fra coloro che sono stati assunti prima o dopo il 1° giugno 2001 – operi per questi ultimi, salvo un periodo di <neutralizzazione> di tre anni, a partire dal quarto anno con cadenza biennale.
2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società in liquidazione con tre motivi, cui non ha resistito l’intimato.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo del ricorso denuncia “violazione o falsa applicazione dell’art. 22 del CCNL per il personale dipendente da imprese esercenti attività di pulizia e servizi integrati/multiservizi del 25.5.2001, nonché dell’art. 22 del successivo CCNL del medesimo settore stipulato il 19.12.2007; violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 10 e 2° co. e 1363 c.c.”.
La censura è ammissibile in quanto la denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., come modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006, è parificata sul piano processuale a quella delle norme di diritto, sicché, anch’essa comporta, in sede di legittimità, l’interpretazione delle loro clausole in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. c.c.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e della congruità della motivazione, senza più necessità, a pena di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, né del discostamento da parte del giudice di merito dai canoni legali assunti come violati o di una loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti (Cass. n. 6335 del 2014; conf. Cass. n. 26738 del 2014).
Il motivo è tuttavia infondato per le ragioni già esposte da Cass. n. 7717 del 2018 (conf. Cass. n. 16143 del 2018) e dalle quali non vi è motivo di discostarsi, tenuto conto che il dovere di fedeltà di questa Corte ai propri precedenti opera anche nelle ipotesi in cui si è già proceduto all’interpretazione di una norma di contratto collettivo, allorché, in relazione alla stessa vicenda, siano stati già scrutinati motivi di ricorso di contenuto sostanzialmente uguale contro sentenze sorrette da identica o analoga motivazione (in termini v. Cass. n. 25139 del 2010), non potendosi mutare orientamento sol perché si prospetta una diversa esegesi asseritamente più convincente.
Orbene è stata già condivisa l’interpretazione della disciplina contrattuale collettiva operata dalla Corte territoriale in base alla quale il tenore letterale dell’art. 22 in contesa, secondo cui “a partire dal 4° anno di anzianità … essi (ndr. riferito agli <incrementi automatici biennali>) saranno corrisposti secondo gli importi previsti dalla tabella allegata al presente c.c.n.l.”, non può significare, come patrocinato dalla società, che, trascorso il periodo triennale di sospensione degli aumenti per gli assunti dopo il 1° giugno 2001, detti incrementi si cristallizzerebbero per tutta la durata di vigenza del contratto collettivo.
Infatti l’esegesi proposta dalla società collide con il dato letterale che configura gli emolumenti in discorso come “incrementi … biennali” e che manifesta la comune intenzione delle parti sociali di far riprendere il decorso del tempo per lo scatto per ogni biennio successivo alla prima fase di neutralizzazione.
Correttamente poi è stato negato valore decisivo al contratto collettivo successivo del 19 settembre 2007 che non poteva certo disporre retroattivamente dei diritti acquisiti dai lavoratori sulla base della precedente disciplina ed al quale neppure può riconoscersi valenza interpretativa, stante l’ambiguità delle espressioni utilizzate.
2. Il secondo mezzo di gravame, con cui si denuncia “omesso esame del parere del 20 maggio 2005 a firma del direttore della FISE in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c. – nonché violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.”, è inammissibile.
Esso, oltre a fondarsi su di un presupposto insussistente (atteso che la sentenza gravata alla pag. 5 prende in considerazione la nota FISE, a cui non attribuisce rilievo perché promanante “da una delle parti sociali”), censura come fatto decisivo una circostanza che tale non è, ben oltre i limiti imposti dall’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 5, come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, di cui parte istante non tiene alcun conto.
Allo stesso modo, circa la dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il principio del libero convincimento, posto a fondamento di tali disposizioni, opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., novellato (di recente v. Cass. n. 23940 del 2017).
3. Analoga inammissibilità colpisce gli “ulteriori motivi di ricorso inerenti al capo di motivazione della sentenza impugnata relativo alla nota congiunta datata Roma 10.12.2004”, redatta e sottoscritta, su ordinanza del Tribunale di Gela, dalle organizzazioni sindacali e datoriali; motivi con cui promiscuamente si censura la ritenuta tardività della produzione di detta nota, la “violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.”, la “motivazione erronea e illogica”.
Posto che la Corte di Appello ha comunque valutato detta nota, considerando che “trattasi di chiarimenti non vincolanti … che … non recano alcun significativo apporto integrativo di segno opposto”, le censure, lungi dal palesare realmente errori di diritto in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, si traducono in un diverso apprezzamento dei fatti, al di fuori dei limiti imposti al sindacato di legittimità ed in contrasto con l’interpretazione della disciplina contrattuale collettiva già avallata da questa Corte.
4. Conclusivamente il ricorso va respinto; nulla va disposto per le spese in difetto di attività difensiva dell’intimato.
Occorre tuttavia dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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